Il Poppante Saggio
Blog ferencziano
LA PSICOANALISI E IO (nota autobiografica)
22 dicembre, 2013 - 13:11
C'è stato un tempo in cui il mondo era stretto. Un tempo nel quale camminavo per vicoli angusti limitati da pareti altissime, e il sole si vedeva solo dall'alto.
Da sempre, da che io ho memoria, ho desiderato fuggire, evadere e andare lontano da una gabbia rappresentata dalla visione del mondo di mio padre, che pure amavo moltissimo. Mia madre mi raccontava spesso di come ci fosse stata una prima età durante la quale, quando mio padre tornava per il pranzo, rimanevo abbracciato a lui per tutto il tempo in cui mangiava. Ma di questa età io non ho conservato alcuna memoria cosciente. Io non riesco a ricordare soprattutto il momento nel quale mio padre cominciò a deludermi: so solo che molto presto, come ideale verso il quale tendere, smise di funzionare. E però, non è che ci si possa dimettere da figli così, perché il modello che non si vuole più rimane, ostinatamente, dentro.
Da grande compresi che mio padre aveva paura, e che troppe cose del mondo, esterno ma soprattutto interno, avevano per lui un significato inaccessibile. E mi resi conto molto presto che ciò che mi avrebbe lasciato in eredità era destinato a contrarre un legame solido ma conflittuale con istanze opposte, capitate chissà come (forse da mia madre? è difficile dirlo) nella mia mente.
Io avevo una voglia insaziabile di panorami sconfinati, di visioni ultrascopiche, di conoscenze ulteriori; e nello stesso tempo mi sentivo paralizzato: tanto dalla paura, la stessa di mio padre dal quale mi sentivo biologicamente inseparabile, quanto da quella sensazione di non farcela ad arrivare in fondo, che ancora oggi mi prende di fronte ai libri, che pure sono il mio pane quotidiano. Ancora oggi, leggere un romanzo russo, sconfinato come un oceano immenso, mi dà l'angoscia agorafobica di perdermi, e arrivato a un certo punto, sono costretto a interrompere la lettura. Ancora oggi, davanti a un libro, provo un'irresistibile bulimia e contemporaneamente la paura di non riuscire ad arrivare alla fine. In tutta la vita ho letto, come molti, parecchie centinaia, forse migliaia, di libri, e ne ho conclusi molti meno.
A un certo punto della mia vita (forse era l'adolescenza) mi imbattei in un libro di psicologia: mi pare fosse scritto da un certo Miotto. È anche possibile che ciò sia stato prima dell'adolescenza, perché probabilmente lo leggevo in cerca di qualche improbabile eccitazione sessuale. D'altra parte, verso i dieci anni, le mie letture erotiche preferite erano un dizionario della lingua italiana, Il Novissimo Melzi (dal quale avevo capito che l'organo genitale femminile si chiamasse "utero"), e una monografia su Raffaello appartenente a mio padre, nelle pagine della quale mi consumavo gli occhi, e non solo gli occhi, sui seni rotondi della Fornarina e sulle natiche delle Tre Grazie. Quindi non è strano che in un libro di psicologia io cercassi i resoconti di qualche cosa di eccitante. Fu lì che sentii parlare per la prima volta dell'Inconscio, e ne fui immediatamente stregato.
Dunque c'era qualcosa al nostro interno che ci faceva agire in maniera inconsapevole, esistevano sogni da sbrogliare come matasse intricate, c'erano simboli che, se interpretati, avrebbero potuto aprire la porta verso mondi meravigliosi e finalmente chiari. Stranamente, l'Inconscio con i suoi oscuri fantasmi non mi faceva paura, anzi. Avevo avuto abbastanza paura delle mie fragilità che vivevo come colpe, avevo sperimentato molto da vicino, fino all'identificazione, l'angoscia e i denti serrati di mio padre, e poi, mi portavo addosso un senso spiacevolissimo di vergogna, come se la mia figura, alla sola vista degli altri, dicesse "altro" da quello che io sapevo coscientemente. Mi sentivo goffo, inconsapevole, impresentabile, e avevo l'urgenza di sbarazzarmi di tutto ciò.
Ai miei pazienti, oggi, ripeto spesso che nessuna psicoterapia è possibile se non si ha un senso di disagio e il parallelo desiderio di scrollarselo di dosso. In me, questo sentimento era fortissimo. E si accompagnava al desiderio ancora oscuro di impadronirmi di quello strumento, di quell'"autoscopio", non perché desiderassi imparare ad aiutare gli altri, ma sempre perché il mare da esplorare l'ho sempre pensato interminabile e il desiderio di fermarmi non l'ho mai avuto, e anche oggi che il tempo si accorcia, il solo pensiero di smettere mi riempie di tristezza.
Passarono gli anni, e per una serie di complicati errori di calcolo, divenni medico. E crebbe in me quel desiderio di essere psicoanalista, e niente altro che psicoanalista, che ancora oggi mi accompagna. La stessa qualifica di psichiatra, che conquistai senza fatica, mi parve sempre qualcosa di insoddisfacente, di limitato. E il desiderio di diventare psicoanalista fu (è) sempre così prepotente, che alla fine ... mi fu negato. E sulle prime riflettei con dolore su quell'insuccesso ascoltando le sirene che lo descrivevano come una ejaculatio praecox causata da un desiderio incontenibile. Proprio come accade con i primi amori, che però non sono mai quelli definitivi. Ma, dentro di me sapevo che non era così.
Se ripenso a quell'insuccesso, mi rendo conto che, ancora una volta ero stretto fra il desiderio di impadronirmi di quello strumento meraviglioso che soltanto Freud e i suoi (allora) pochi e selezionati eredi possedevano, e qualcosa di inspiegabile che mi paralizzava.
Quando si vuole fortissimamente qualcosa e quel qualcosa ce l'ha uno soltanto, allora si corre il rischio della sottomissione. La cosa può funzionare fintanto che ci si sente piccoli e bisognosi di cure: dal momento che un certo grado di sottomissione ai genitori è indispensabile a causa della necessità, anche oggettiva, di dipendenza. Non accettare questa condizione di minorità sarebbe anche un ostacolo alla crescita. Ma la sottomissione implica l'idealizzazione. Se io devo sottopormi a un intervento chirurgico a cuore aperto, ho necessità di pensare che chi ha in mano la mia vita sia perfetto, non sbagli mai. E, in caso di necessità, se noterò qualche errore o incertezza o diventerò eccessivamente diffidente, oppure tenderò a perdonare, a non voler vedere. Ma in analisi tutto ciò che avviene senza che lo si possa capire e condividere, può costare molto caro.
Così affrontai due analisi: la prima, gioiosa e appassionata, mi permise di diventare, da quel burattino di legno che ero, un bambino in carne e ossa. La seconda avrebbe dovuto essere quella destinata a introdurmi nel salotto buono della psicoanalisi, e fu un cocente fallimento.
Se ripenso a quello che accadde allora, non posso che dar ragione ai valutatori che mi respinsero. Tutto quello che potevano vedere era inequivocabilmente fallimentare: balbettavo e tentavo di nascondere qualcosa. Ma si trattava dell'escrescenza aerea di una radice che affondava profondamente nel terreno e la cui natura era molto diversa da ciò che si vedeva. La prova di ciò che affermo è che loro mi diagnosticarono una vocazione debole, insussistente, forse motivata da ambizioni narcisistiche e prive di autenticità, mentre le cose poi andarono in modo diverso dalle loro previsioni.
Chi riesco a scusare di meno è il mio secondo analista, cui sarebbe spettato il compito di osservare con cura quella radice che affondava nel terreno, e di aiutarmi a ricomporre quell'incongruenza: perché mai, essendo quello di diventare psicoanalista il mio desiderio più grande, una volta posto di fronte alla necessità di mostrarmi, mi nascondevo o venivo colto da sintomi sconosciuti e inspiegabili? Invece non accadde niente di tutto questo ed entrambi fummo costretti a gettare la spugna di un'analisi che non sarebbe mai andata da nessuna parte.
Furono molti coloro che mi consigliarono di tentare una terza volta: se non altro per capire che cosa fosse accaduto, visto che il tempo utile per diventare un membro della società psicoanalitica era ormai scaduto. Ma io non volli, perché sentivo che, prima o invece di una nuova analisi, avrei dovuto capire qualcosa: da solo. Ormai i mezzi autoscopici a mia disposizione erano sufficienti, le scadenze temporali si erano dissolte, e a me sarebbe bastato aspettare. Qualcosa in me sapeva che la luce un giorno sarebbe arrivata.
Passarono molti anni, e da un certo momento in poi compresi che dovevo studiare a fondo le vite di personaggi che avevano attraversato esperienze in qualche modo simili alle mie. Le analogie materiali potevano anche essere vaghe, appena accennate, ma io sentivo che in quelle vite, in quelle vicende dolorose, c'era qualcosa che mi riguardava profondamente.
Studiare quelle biografie unitamente alle produzioni scientifiche e agli epistolari, in condizioni di libertà dalle obbedienze di scuola che per tanto tempo avevo sentito come oppressive, mi dava una sensazione di leggerezza e una smania febbrile di conoscere.
Fu abbastanza facile riconoscere che gli insegnamenti e i messaggi che avevo ricevuto erano pesantemente viziati da ideologie, da proibizioni, da un ordinamento che mi appariva sempre più simile a quello della chiesa cattolica che avevo abbandonato alla fine dell'adolescenza, dopo esserne stato un fervente seguace.
Ecco: il mio malessere di aspirante psicoanalista riconosceva ora delle somiglianze con quell'insofferenza per gli insegnamenti bigotti cui mio padre mi aveva avviato, e che avevano rischiato di ferire gravemente lo sbocciare della mia sessualità, trasmettendomi insieme un chiaro invito a rinunciare alla libertà di pensiero.
Era strano, mi ripetevo, che fra le tante parole della psicoanalisi, non si incontrasse mai la parola "libertà". Persino chi (tranne pochissime eccezioni) aveva una militanza politica la separava dalla militanza psicoanalitica, e conobbi perfino qualcuno che, rivoluzionario nella vita civile, finì per rivelarsi un conformista impaurito e obbediente, in questo del tutto simile a mio padre; al punto di essere persino indisponibile a parlare di psicoanalisi al di fuori delle sedi canoniche.
Ripensando alla mia seconda analisi, mi tornavano alla mente ora tanti piccoli particolari che allora erano stati bollati, unilateralmente dal mio analista, come insignificanti: per quale motivo io, che avevo in precedenza affrontato un'analisi bella e creativa, avevo dovuto cambiare divano, soltanto perché le "regole canoniche" imponevano che l'analista in grado di formare altri analisti dovesse avere un certo grado gerarchico? Qual era la ratio di questa norma? Non era forse essenziale che il futuro analista affrontasse un percorso "vero", anziché conforme a una norma burocratica e stabilita una volta per tutte? E dal momento che la mia prima analisi aveva dimostrato, dati alla mano, di funzionare bene, perché cambiare? In nome di che cosa, visto che l'analisi didattica non poteva essere un insegnamento, ma una vera esperienza emotiva? Nessuno sapeva (o voleva) rispondere a queste mie domande, e dal mio secondo analista tutto ciò che ebbi in risposta fu l'invito a occuparmi d'altro: e si che mi sarebbe spettata, quale minimo sindacale, almeno un'interpretazione. Alla luce di quanto so oggi, è praticamente certezza il dubbio che la parte di mia responsabilità nel fallimento della seconda analisi sia stata spinta proprio dal bisogno, coatto e nevrotico, di dimostrare che l'analisi didattica non poteva funzionare. Ma sono anche convinto che se il didatta, anziché aspettare non si sa bene che cosa, me lo avesse fatto notare, probabilmente la svolta sarebbe arrivata. E sì che segnali che ne furono a iosa. Ma poteva il didatta comprendere una realtà così semplice? Io non lo so, perché dopo di allora nessuno dei due avvertì mai l'esigenza di incontrare l'altro. Ma se non poteva comprenderlo era certamente perché non era in grado di sottoporre il proprio ruolo di didatta a una critica laica e non conformista.
Oggi sono giunto a una stagione della vita nella quale tutto ciò non ha affatto perduto di importanza, ma è fonte di una continua riflessione, e di un serrato confronto con tanti giovani ai quali sono felice di trasmettere la mia esperienza.
Molto spesso, in supervisione, mentre parlo con i miei allievi, immagino anche di rivolgermi ai miei antichi maestri per non dimenticare che, in questo lavoro, non bisogna mai passare decisamente "dall'altra parte", perché il senso di smarrimento di fronte all'ignoto che provano tutti coloro che iniziano non dovrebbe mai essere dimenticato. Lo stesso faccio con i miei pazienti, avendo sempre bene in mente, quale pietra di paragone, il mio Sé bambino e impaurito. E poi, il dolore e la frustrazione possono, alla lunga, maturare interessi.
In fondo, le ferite, anche quelle che fanno molto male, possono diventare fonte di conoscenza. Per chi le ha subite e per chi, inevitabilmente, ne subirà di simili. Dal confronto, questa è la mia speranza, si può ricavare incoraggiamento e crescita.
Commenti
Come Editor di questa rivista non posso non ringraziare Gianni Guasto per questa toccante testimonianza che sa di dolore ma sa anche di erenità faticosamente raggiunta... sarebbe davvero bello aprire un dibattito su quello che Gianni ha scritto.. chi avrà il coraggio di farlo?
Ho trovato lo scritto di Gianni Guasto esemplare per genuinità, per chiarezza e per quella capacità di mettersi in gioco che pochi, davvero pochi, hanno.
Dopo una lettura iniziale, devo dire che questo scritto apre a tante riflessioni sul mondo della psicoanalisi le quali non sono , a mio parere, adeguatamente sviscerate.
La questione della giudicabilità della persona e del suo desiderio.
Le figure 'giudicanti' un percorso di formazione analitica le quali, in molti casi, a causa della loro debolezza, male assolvono a questo compito.
Ancora, le analisi che finiscono male, perchè l'analista non vede , non può vedere, non riesce a vedere elementi che appaiono chiarissimi.
Su queste cose, con un particolare riguardo al tema delle 'analisi che deragliano' oggi , sto cercando di stendere un contributo.
Maurizio
Leggo con enorme e colpevole ritardo il commento del Collega Maurizio Montanari, che ringrazio per gli apprezzamenti. Spero tanto di poter leggere presto il suo contributo.
Gianni Guasto
gguasto@me.com