BUONA VITA
Sostenibile e Insostenibile, tra Psiche, Polis e altre Mutazioni
di Luigi D'Elia

Vivere a corto raggio. Quale rapporto tra mente e destini del pianeta?

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16 maggio, 2014 - 14:41
di Luigi D'Elia
Prova ad immaginarti tra 5, 10 o 20 anni. Pensa ad un punto di fuga su un foglio dove si dirigono tutte le linee verso l’orizzonte. Proviamo a disegnarlo questo punto di fuga. Questo è un genere di frasi che a volte mi capita di ripetere durante le mie sedute, specie con pazienti o situazioni che appaiono arenate, ferme, predestinate, cronicizzate. Sono domande che durante un percorso di cura necessitano talora di essere poste più e più volte dal momento che per taluni, all’inizio, è davvero inimmaginabile anche solo porsele.

Svincolarsi dal giogo oppressivo di un presente incombente e fonte di malessere, di una vita collassata sull’oggi e al massimo sul domani; smarcarsi dal ricatto dell’istantaneo, mettersi in cammino su un sentiero impervio e lungo. La psiche s’incammina quando trova una strada davanti. Ma non sempre questa strada si offre allo sguardo. Più spesso la mente rimane nel limbo.

Una mente sospesa nel vuoto del limbo e assediata dal sintomo o da un’angoscia sorda senza nome può al massimo limitarsi a sopravvivere e a ripetere le stesse giornate sempre uguali e alla fine crolla.

La mente ha bisogno di gradini vicini dove appoggiarsi, ma anche di stelle nel cielo a cui guardare per orientarsi, di pietre nel centro torrente sulle quali saltare per attraversarlo, ma anche della visione della fine del viaggio. Agganci vicini e agganci lontani, persino lontanissimi. Una mente disancorata e priva di punti di fuga, prossimi e remoti, è una mente fragile, ricattabile, in balia degli eventi, una mente intrascendibile.
Non bisogna confondere questa vitale ricollocazione della mente nel flusso temporale tra passato, presente e futuro prossimo e remoto, come un voler creare inattendibili aspettative o inabitabili utopie. Non è questo. È solo un ristabilimento di una linearità.

Nello scorso articolo sull’ultima chiamata, citavo Jørgen Randers, co-autore tra gli altri dell’imponente lavoro del MIT sui Limiti dello sviluppo, nel 1972 e più recentemente dell’aggiornamento dal titolo 2052. Scenari globali per i prossimi quarant'anni. Rapporto al Club di Roma, 2013.

Randers dice oggi qualcosa che risulta piuttosto gravoso nella sua evidenza. Mentre tutte le previsioni ci danno come prossime (decenni) alcune catastrofi ambientali annunciate a causa del fatale andamento inflattivo di tutti i sistemi planetari a causa dell’impatto del genere umano sul pianeta (antropocene), l’attuale governance mondiale si trova nell’impossibilità di modificare questi andamenti dissipativi e autodistruttivi in quanto totalmente ripiegata su visioni a breve termine ed incapace a allungare lo sguardo oltre la punta del proprio turgido naso.

Da un lato il sistema economico-finanziario mira al profitto immediato in una cornice che descritta dal punto di vista psicopatologico sembra sempre più migrare dal “semplice” narcisismo trionfante e utilitaristico verso una fenomenologia francamente psicopatica, non solo priva di empatia ma anche di rimorsi morali.

Parallelamente e congiuntamente il sistema politico delle democrazie e delle oligarchie dominanti mira a ottenere il consenso a breve termine per le prossime elezioni e a conservare le rendite di posizione di potere consolidate raggiunte. La sensazione che tutto si tenga ricorda tanto l’orchestrina del Titanic che continua a suonare mentre la nave cola a picco.

Non è possibile quindi alcuna programmazione a lungo termine né a livello locale, né tanto meno a livello globale per la salute del pianeta e per una riduzione dell’impatto consumistico. Programmazione a lungo termine divenuta del resto inderogabile in vista degli sviluppi involutivi dei prossimi decenni, che diventeranno i giganteschi problemi quotidiani delle 1-2 generazioni prossime. I nostri figli e nipoti, in sostanza, avranno a che fare con grane di portata apocalittica da sbrigare, ma poiché siamo stati programmati a muoverci e pensare su sistemi a corto raggio temporale, non riusciamo in nessun modo a proiettarci nei loro panni. In parole povere: fatti loro.

Questa organizzazione economica e politica totalitaria appare oggi paradigma della vita mentale, modello ispiratore precisamente speculare alla fenomenologia del fiato corto degli individui che ci impone di abitare archi temporali brevissimi, al massimo l’arco vitale, e reti relazionali di stretta prossimità, famiglia e poche relazioni amicali. Una sorta di miopia egocentrica o se vogliamo una bolla prossemica, estensione di un sé coartato, solo poco più ampia e corazzata dentro la quale ci rifugiamo per sopravvivere, aiutati da mille dispositivi di isolamento, coazione e chiusura. Miopi talpe costrette a scavare cunicoli sotterranei e ad adattarsi a luoghi bui. Ma mentre questa miopia poteva avere senso su strutture antropologiche del passato, laddove le comunità erano meno mobili e meno in contatto tra di loro, oggi la condivisione globale dei destini rende assolutamente obsoleto questo modo di procedere ed obbliga ad un rapido cambiamento di paradigma.

Ci ritroviamo quindi come operatori della psiche ad affrontare assieme a tutti gli altri scienziati e soggetti consapevoli e di buona volontà, una questione epocale di assoluta rilevanza e responsabilità che personalmente tradurrei come il contributo che la coscienza individuale e collettiva può portare nella comprensione e cambiamento di sistemi complessi.

Mi spiego meglio. Gli analisti dei sistemi complessi sanno bene che uno dei principali fattori e punti di leva di cambiamento di un sistema complesso e di applicazione di contromisure (secondo alcuni il principale) è proprio la “coscienza” di chi osserva, intesa qui come consapevolezza profonda e unitaria, una sorta di insight, che consente salti di qualità. Non solo quindi conoscenza di: elementi, variabili, caratteristiche, connessioni, cambiamenti, fluttuazioni, elementi caotici e imprevedibili, ma precisamente cambiamento della coscienza dell’osservatore.

I processi di consapevolezza che informano la coscienza di legami complessi avvengono attraverso la possibilità di connettere all’unisono e in un quadro nuovo dati precedentemente scollegati e apparentemente non attinenti alla propria realtà sensibile. Questi processi hanno ha che fare più con l’esperienza quotidiana che con una comprensione intellettuale, seppure occorra ad un certo punto elevarsi ad una visione del pensiero etico di tipo universalistico oltre che ad una sintesi complessiva personale dei fattori interagenti in corso.

Il compito delle scienze e delle pratiche psicologiche diventa prevalente nell’indicare i percorsi della coscienza, di allargare e proiettare in avanti le prospettive della mente e delle generazioni. Nel disegnare insomma quel famoso punto di fuga sull’orizzonte sul foglio di carta.
 
 
Per approfondire:
Risorse planetarie minerali e picco del petrolio e altre questioni ecologiche: Blog di Ugo Bardi, Effetto Risorse
Abitudini di consumo, esaurimento delle risorse alimentari, impatto ecologico. Documentario, La terra vista dal cielo, Cibo e Natura.

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Commenti

Riflessioni sempre di ampio respiro le tue che toccano temi cruciali: ancorare la psiche, ritrovare punti fermi che non si consumino nella compulsione istantanea di soddisfare un piacere che non ha più corpo; un piacere fatto di suggestive immagini che ruotano vorticosamente nel caleidoscopio di un tempo impazzito, che ci proietta simmetrici e conformi, come tessere di un mosaico che ci impone un modo di essere autoreferenziale e frammentato.
Quali le regole, come fare a recuperare una visione universale dell’etica, sotto un flusso incessante di stimolazioni contraddittorie e ingovernabili? Come prendere le distanze dal proprio punto di vista particolare se questo stenta a formarsi sotto l’orda di stimoli che ci inducono solo a consumare e a consumarci?
La complessità disorienta, il tempo con fare sprezzante, supera il nostro bisogno di conoscenza, senza più una logica. Si attraversano gli occhi dell’altro, senza riconoscersi; smarriti tra il frastuono e la fretta di conformarsi per apparire ed avere l’illusione di esistere. E allora fermiamoci, liberiamoci da questa forma di resilienza collusa con un istinto di sopravvivenza che non ha più scenari immaginabili. Fermiamoci, e proviamo a progettare linee da seguire: linee sostenibili.
Grazie Luigi per questo spunto di riflessione.

Grazie Miriam del tuo commento.
L'unica osservazione a quanto scrivi: non so se e quanto sia opportuno "recuperare una visione universale dell’etica" come dici (che potrebbe essere frainteso come etica unica e totalitaria invece che come sentimento universale dell'etica, che è cosa ben diversa ed immagino quanto tu intendessi) quanto piuttosto provare più modestamente a contribuire allo sviluppo di una coscienza collettiva solo più di buon senso razionale. Cogliere i nessi tra micro e macro processi può essere un'utile suggestione da cui cominciare ad allungare e allargare uno sguardo confinato nel proprio orticello.


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