Mente ad arte
Percorsi artistici di psicopatologia, nel cinema ed oltre
di Matteo Balestrieri

Family life (Ken Loach 1971)

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24 dicembre, 2014 - 14:53
di Matteo Balestrieri
  In questo periodo di riunioni familiari sotto Natale, una breve riflessione sui possibili danni da relazioni distorte in seno alle famiglie.
  L’attualità del noto film “Family Life” di Ken Loach è sorprendente. E’ stato prodotto nel 1971, nel pieno della rivoluzione dei costumi di quegli anni e sull’onda della teoria dell’“Io diviso” di Laing, ma non risente del passare del tempo. E’ uno di quei film imprescindibili per la formazione di uno psichiatra e del comparto infermieristico operante nella salute mentale. E’ un film di denuncia sia della società perbenista, che di un certo modo di fare psichiatria, anche allora ancorato alle esibizioni del paziente in aula e all’uso indiscriminato dell’elettroshock.
  In una dei tanti sobborghi inglesi, la ragazza protagonista, Janice, è incinta ma è costretta ad abortire dalla madre autoritaria. Scivola progressivamente in uno stato di dissociazione e viene rinchiusa in un istituto psichiatrico. Dapprima curata da un medico non conformista che cerca di capire l'origine del suo disagio psichico, quando questi è licenziato viene sottoposta ad una serie di elettroshock e di coercizioni che la annienteranno. La struttura psichiatrica che l'ha in cura si dimostrerà completamente incapace di capire l'origine psicologica della sua sofferenza ed anzi parteggerà decisamente per i genitori perbenisti.
Come si sviluppa la schizofrenia della protagonista? Il film propone che la presenza di una madre devastantemente intrusiva nella vita della figlia, unitamente ad un padre debole e rigido sui propri canoni lavorativi, sia l’elemento causale. In effetti il comportamento della madre è per molti versi paradigmatico, caratterizzato da un atteggiamento di inserimento continuo del proprio pensiero nella mente della figlia, con l’insinuazione della necessità di riconoscenza per il proprio impegno di madre, la finta benevolenza quando invece prevale invece il controllo del comportamento, la strenua necessità del conformismo alla logica piccolo-borghese. La protagonista è permeata da questo sciropposo e velenoso accudimento, fino ad entrare in uno stato di confusione e disorientamento. Un altro elemento rilevante è la designazione della persona malata all’interno della famiglia. Esiste una sorella maggiore, Barbara, che è riuscita a sfuggire alle grinfie della madre, uscendo di casa per tempo e facendo due figlie con un valido marito.

  C’è una scena familiare al tavolo da pranzo, esemplificatrice dei rapporti genitori-figli. Barbara cerca di esprimere i propri pensieri, ma viene continuamente tacitata dalla madre e dal padre, che la accusano di ingratitudine, e allo stesso tempo la criticano apertamente sotto gli occhi delle nipoti. Barbara cerca di salvare Janice provando a convincerla a venire con sé, ma la madre è più forte e riesce facilmente a farla restare a casa. E’ lei la malata designata, colei che è destinata a rimanere in casa, priva della possibilità di avere affetti e “derubata” del figlio che aveva in grembo, che Janice stessa vive come un omicidio della madre. I confini del proprio sé sono labili, ad un certo punto Janice dice “mia madre mi vuole uccidere”, poi si corregge e dice “ha ucciso il mio bambino”.
  Ciò che fa precipitare Janice nell’abisso della follia è però la psichiatria. Se all’inizio troviamo uno psichiatra anticonformista che cerca di far emergere vissuti di emancipazione attraverso una accoglienza e un’impostazione terapeutica, poi questo stesso psichiatra viene espulso dall’ospedale e per Janice non c’è più speranza. La prima terapia attuata è un elettroshock, dopo di che Janice viene rimandata a casa. Quando la ribellione al conformismo materno riesplode, ritorna in ospedale, ne esce poi di nascosto grazie ad un amico, ma ormai si è arresa al suo destino. Anche dentro l’ospedale, quando una suora mima l’atteggiamento della madre, riesplode la rabbia e la sedazione conseguente. Per lei non c’è più niente da fare, ormai serve solo a fare scena alle lezioni del professore di psichiatria, che spiega che Janice proviene da una buona famiglia senza alcun problema.
  Family life sposa decisamente la teoria della madre schizofrenogena e dell’origine familiare della psicosi. Sotto questo aspetto può essere accusato di eccessiva enfasi sull’aspetto ambientale, rispetto a possibili concause biologiche. C’è inoltre una precisa accusa ai valori della società borghese e capitalista, e ad una psichiatria oppressiva e ignorante. Anche se l’aspetto della contestazione alla società è predominante e marcatamente anni ’60-’70, il film è tuttavia del tutto attuale nel raccontare una storia familiare tuttora possibile e a farci riflettere sulla concreta possibilità che giovani fragili possano non riuscire ad emanciparsi e, se non adeguatamente sostenuti da una psichiatria consapevole dei loro bisogni, possano progressivamente avviarsi ad una carriera di malattia psichiatrica.
 

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