Dagli archivi de GLI ARGONAUTI: L'altra faccia dello specchio

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3 maggio, 2016 - 15:08
NDR: Articolo pubblicato nel vol. 41, giugno 1989 della rivista

Lo psicoanalista specchio

In psicoanalisi la teoria dell'analista-specchio è stata relegata a rango di re­perto storico e depositata in archivio, eppur tuttavia viene di continuo rispol­verata, al solo fine, comunque, di sottolineare come e quanto la tecnica psi­coanalitica abbia subito una evoluzione dalle origini ai giorni nostri.
Effettivamente oggi sul palcoscenico dell'analisi (rimasto identico in quan­to il setting non ha subito nel tempo variazioni formali significative) (Unica eccezione potrebbe essere rappresentata (per dilatazione del concetto di setting) dalla durata del trattamento.) e den­tro le maschere imposte dal rito, i due attori, entrambi protagonisti, ovvia­mente lo psicoanalista, ma anche il paziente, offrono, su un versante squisita­mente tecnico, una prestazione di livello superiore. Per contrasto ci appaiono ingenue, patetiche e talvolta persino ridicole le movenze dei primi esploratori del profondo, che pur sono avvolti da un alone di reverenza e risparmiati da un sentimento di gratitudine. Ed infatti, nell'ascoltare i resoconti di vecchi ca­si clinici, ad evitare disagio e per entrare nel clima dell'intreccio, occorre uno sforzo di accomodazione almeno iniziale (uno sforzo equivalente a quello ri­chiesto allo spettatore viziato dal sonoro e dagli "effetti speciali" quando assi­ste alla proiezione di uno spezzone di cinema muto). Attenzione però : c'è sem­pre il rischio di restare ingannati dall'eleganza della confezione. In verità, a mio parere, chi si accinge a indagare sulla natura e sul significato della rela­zione analitica farebbe bene a rivisitare la teoria dell'analista specchio con un supplemento di attenzione, prima di liquidarla in quanto strumento ormai troppo antiquato per il corredo di un analista aggiornato.
In seconda avvertenza non bisogna dimenticare che pensiero e linguaggio psicoanalitico hanno un limite naturale invalicabile: essi fanno riferimento a teorie e all'impiego di strumenti concepiti come non troppo discosti dai verti­ci di osservazione e dalle apparecchiature tecniche di cui si serve la scienza esatta per leggere e modificare la realtà materiale. D'altronde non esistono due alfabeti, uno per l'anima e uno per gli oggetti inanimati, per cui, se non c'è, oltre che libertà di ingresso, anche garanzia di puntuale ritorno dalla sug­gestione dalla prigionia delle metafore, si corre il rischio di restare abbagliati dagli stessi lampi al magnesio che ci illuminano la mente.
Resterebbe perciò accecato chi non volesse ricordare che il concetto di ana­lista-specchio, oltre che e prima ancora di essere teoria o strumento di indagi­ne, è un abito mentale, una modalità di ascolto e un modo di essere dentro la relazione. Nella originaria formulazione freudiana tale assetto fu raccoman­dato al fine di potenziare al massimo la recezione della macchina fotografica analitica (per fare "istantanee" del transfert dei pazienti si potrebbe dire) ri­ducendo al minimo le occasioni di interferenza (controtransfert dell'analista fotografo).
Per una lettura alternativa propongo una inversione di polarità, un contro-flash, e cioè una fotografia "istantanea" dello psicoanalista colto nell'atto di applicare il suggerimento tecnico.
Si rompono le dighe della rimozione, la massa d'amore e d'odio (amore abortito e odio inesploso), contenuta e compressa nei depositi dell'inconscio, trabocca e si infrange contro l'incauto o l'eroe che ha osato liberare ed evocare a sé le forze del bene e del male.
Nell'impatto, al momento della verità, verrà travolto chi si farà trovare im­preparato, risulterà immune l'iniziato, l'impavido, l'incorruttibile, colui che resterà fermo senza tremare. Non temo di esagerare se affermo che l'analista disegnato da Freud, in un primo abbozzo, appartiene alla famiglia dei titani e il suo profilo è quello di un personaggio di grande possanza: un principe, un santo, un profeta oppure un mago. D'altronde è verso e contro questa ma­schera, collocata sul piedestallo del setting, che si dirigono le afferenze transferali dei primi pazienti.
Ma la prospettiva potrebbe anche essere completamente ribaltata. Come accade a certi disegni gestaltici, dove figura e sfondo si avvicendano con lo sbattere delle ciglia, così questa divisa analitica, se da un lato circonda di un alone magico chi la indossa, dall'altro potrebbe anche rappresentare la volon­tà di contenimento e di ridimensionamento narcisistici e tradursi in espressio­ni di sano realismo: l'analista, divenuto meno velleitario, molto opportuna­mente si procura un equipaggiamento difensivo ad hoc contro il pericolo di una eccessiva esposizione. Non dimentichiamoci che a molti tra i compagni di viaggio di Freud, naviganti altrettanto coraggiosi ma di lui meno prudenti, è capitato di fare naufragio.
Infine la cerimonia così descritta celebra la vittoria dell'intelletto sull'emo­zione e ribadisce il primato della ragione sull'istinto. Come si sa Freud aveva in tal senso una naturale disposizione ideologica che ha tradotto in credo scientifico. È lui che ha sostenuto: "dove c'era l'es ci sarà l'io" con una traco­tanza da imperatore romano o da colonizzatore e con una sicumera da scerif­fo. Solo più tardi si renderà conto che ogni allargamento del campo di co­scienza non avviene per semplice addomesticamento (passaggio dal principio di piacere al principio di realtà) bensì comporta un rischio di catastrofe, come è contemplato in ogni processo di mutazione.
Attorno alla figura del fondatore della psicoanalisi vi fu una immediata e rigogliosa fioritura di discepoli e da ogni parte dell'Europa si registrò la corsa ad abbracciare la disciplina neonata.
Certo che il messaggio freudiano conteneva il coraggio della verità e il sa­pore della libertà. Ma, in base al quadro che ho appena dipinto, è probabile che la proposta freudiana, letta da dentro, sia stata interpretata come promes­sa, manco troppo implicita, di alto ricavo narcisistico, come passe-par-tout per avere accesso e ottenere il controllo sulle riserve energetiche libidico-­emotive e sui depositi istintuali dell'es e quindi come miraggio di realizzazio­ne grandiosa di sé. Se così fosse non ci sarebbe motivo di scandalo. Anzi ci vie­ne offerta l'opportunità e aperto lo spazio per collocare alcuni interrogativi : ai tempi nostri, e sempre in tal senso, le basi motivazionali di chi si candida, per vie ufficiali e per vie meno Ufficiali, alla professione di psicoanalista (ed è per questo disposto a tollerare la tortura di setting estenuanti) sono cambiate ri­spetto al passato?
Poco fa ho ritenuto utile sottolineare una ovvietà: il concetto di analista-specchio non va adottato in qualità di dispositivo tecnico staccato dalla per­sona che ne fa uso; bensì è una postura, un assetto emotivo-mimico-gestuale Che lo psico- analista, più o meno consapevolmente, assume per andare incon­tro e per proteggersi dallo scontro con i propri pazienti. Se vogliamo chiamar­lo "maschera", allora, quand'essa risulta giustapposta, nient'altro è che "look da stanza d'analisi", patetico cliché professionale, controtransfert preconfe­zionato a difesa della relazione; quand'essa invece è sanguificata dalla perso­na che la indossa, assume potenza evocativa e rassicurativa, eroga pathos e scalda i contatti.
In questo senso intesa, si può ancora affermare che la "teoria" dell'analista-specchio, in quanto superata, è stata abolita dagli analisti moderni e non è più rappresentata nella loro pratica quotidiana?
E, se così fosse, lo psicoanalista, accantonando la teoria, ha gettato via an­che la maschera?

Le teorie sul controtransfert

Forse non è inutile ricordare che, da un punto di vista storico, transfert e controtransfert furono dapprima considerati dagli psicoanalisti spiacevoli in­cidenti di percorso; solo in seconda istanza furono riconosciuti come fenome­ni intrinseci alla vita psichica e ubiquitari, una specie di tessuto connettivo vascolarizzato indispensabile al ricambio emotivo-energetico di tutte le relazioni umane. Essendo dinamiche inconsce esse rappresentano la quota "un­derground" delle comunicazioni in partenza e in arrivo dal paziente allo psi­coanalista e viceversa. E soprattutto, se transfert e controtransfert, lasciati in libertà anarchica, producono ingorghi e interferenze, i medesimi, portati a li­vello di consapevolezza, controllati ed elaborati, diventano opportunità uni­che di approfondimento empatico: è nell'atto del loro emergere che si produ­ce la scintilla dell'insight e viene partorito, dopo lunghe doglie, un nuovo pen­siero. Freud fu molto illuminato quando riconobbe ciò precocemente per quanto riguarda il transfert e al contempo (a mio avviso) molto accorto quan­do mise all'indice il controtransfert, considerandolo un attentato alla neutra­lità e una occasione di disturbo sulla banda di ascolto.
Si potrebbe dire che egli nutrì un'eccessiva apprensione nei confronti delle risposte emotive, dalla coloritura sospetta, risultato di una indulgenza colpe­vole e di risonanza sgradita da zone minate, malate o comunque non suffi­cientemente analizzate, della personalità del terapeuta.
Ma non bisogna dimenticare che allora gli psicoanalisti erano assistiti da analisi personali brevi e approssimative e che a tutt'oggi, pur con le spalle sor­rette da un addestramento molto più severo e meticoloso, sarebbe comunque imprudente o superficiale, a questo riguardo, abbassare più di un tanto il li­vello di vigilanza.
La matassa dei movimenti controtransferali, sezionata a tutto spessore, ri­vela l'esistenza di altre due fasce e filoni:

  • Controtransfert di tipo transferale, quando è lo psicoanalista, attivamente e inconsapevolmente nostalgico, ad evocare e ripetere situazioni climatiche e ruoli già svolti in orbite emotive da tempo trascorse, di cui l'eco è tutt'altro che spenta. È una specie di "dejà-vu", non necessariamente espressione di pa­tologia, che si traduce in una complicazione o è fonte di inquinamento solo quando non viene riconosciuto e controllato nei suoi effetti.
  • Controtransfert vero e proprio, inteso come risposta emozionale "rebound", al transfert del paziente. Comprende i movimenti subacquei dello psicoanali­sta, appetitivi oppure espulsivi, egosintonici oppure egodistonici, in risposta ai tentativi sottili ed ovattati dei pazienti di manipolare fino a ricreare situa­zioni intersoggettive che sono ripetizioni occulte di esperienze capitali remote e di antichi conflitti mai sopiti.
È questo contingente emotivo che, opportunamente e puntualmente rile­vato, offre indicazioni di preziosità inestimabile sulla natura delle relazioni esterne significative, sulle relazioni "con" e "tra" gli oggetti interni e sulla vita fantasmatica inconscia del paziente in esame.
Aggiungerei, senza esitare, quella quota controtransferale murata dentro qualsivoglia teoria analitica istituzionalizzata: siccome l'adozione della linea teorica preesiste all'incontro con il paziente, nulla mi vieta di considerarla un pre-concetto e, se si vuole, un transfert pre-confezionato.
 
Quindi il vissuto controtransferale, in principio considerato un fattore li­mite e un segnale di inerzia della macchina interpretante, al fine viene valuta­to strumento di conoscenza insostituibile ed eletto a momento terapeutico principe.
Quando ciò si verifica, ed è questo un capitolo ancora recente della storia della psicoanalisi (non più di tre o quattro decenni sono trascorsi), la teoria e la tecnica analitiche subiscono un viraggio, una mutazione, forse una rivolu­zione, la cui portata è rapportabile al passaggio dal vecchio al nuovo Testa­mento.
Siccome, nelle righe che seguono, io mi appresto ad indicare i limiti del me­todo, sarà meglio che, preventivamente, a scanso di equivoci, mi premuri di sottolineare che non nutro dubbi sulla sensibilità e sull'efficacia dell'"arma" adoperata. La mia critica si rivolgerà in modo peculiare a quelle zone di confi­ne, laddove attriti e dissonanze possono generarsi quando la fedeltà alla con­segna, l'enfasi sulla procedura e la rigidità del rituale sono il nascondiglio di chi interpreta e, anziché aprire, chiudono spazi alla relazione.

A) Ovviamente dinamiche controtransferali e transferali non possono esse­re trattate come se fossero disgiunte le une dalle altre; appartengono infatti, in quanto sistemi di comunicazione, allo stesso "cavo" e traggono alimento dal medesimo campo energetico.
Ne deriva che il ricorso pesante all'analisi del controtransfert diventa una operazione di verifica indispensabile per chi ha adottato, a sostegno teorico del proprio lavoro, il metodo dell'interpretazione sistematica del transfert. Ma allora potrebbe riaccendersi con rinnovato vigore l'annosa polemica del dopo Strachey (1934) : sotto un vessillo chi aderisce a un proclama di questo tipo - solo l'interpretazione che cade all'interno della rete transferale imbocca la "via regia" verso l'inconscio del paziente ed è mutativa -, sul fronte opposto il controcanto di chi tende a rivalutare l'interpretazione fuori rete e a recla­mizzare una maggiore astinenza come antidoto contro il rischio di cogliere i frutti quando non sono ancora maturi.
La polemica sovente risulta sterile perché per solito chi mette in guardia contro la tendenza alla interpretazione precoce, a sua volta si becca subito una sottolineatura per quanto riguarda il rischio di colpevole ritardo. Non manca mai un arbitro che, a questo punto, tiri fuori il suo "atout": l'interpre­tare ha un timing che non può essere appreso attraverso una regola perché è un'arte; e così il cerchio si chiude sull'insoddisfazione di tutti. Al di sopra del­le parti due colonne rimangono ferme:
- Se l'occhio troppo vigile e l'enfasi interpretativa sulle dinamiche transfert­controtransfert tradiscono da parte dell'analista una urgenza difensiva, l'in­terpretazione a tamburo battente sull'area transferale, programmata sulla base di una scelta ideologica, significa sparare col mitra sui transfert neonati, assumere antibiotici contro il "calor-tumor-dolor" della relazione, tenere la falciatrice sempre accesa acché paziente e analista, preventivamente deconta­minati, si incontrino su un prato accuratamente potato all'inglese.
Deficit e ritardo nell'interpretare e la tendenza a "lasciar correre" inducono invece, più che sovente, situazioni caotiche, difficili da recuperare, come quel­le di cui ci parla W. Reich nell'Analisi del carattere, imputandole a insipienza tecnica e a grossolani errori di conduzione.
Oppure le relazioni che in questi casi si instaurano, per rottura della distan­za di sicurezza, troppo pericolosamente indulgono sul personale, con il rischio di diventare troppo poco professionali.
A distanza ancora maggiore dal clamore del dibattito si incontra un secon­do bivio. Prendere una direzione piuttosto che l'altra porta ad assestarsi su posizioni antitetiche : il transfert del paziente e, perché no, il transfert dello psicoanalista sono sempre e comunque errori di prospettiva, distorsioni della realtà, condensazioni di passato e presente? Oppure alcune modalità transfe­rali, più che interpretate, meritano di essere accolte e salutate come opportu­nità di contatto e come proposte relazionali?
Dentro la seconda ipotesi l'abilità analitica consiste nell'interpretare, per dissolvere, la ragnatela transferale più labile, che non ha significato e valore prospettici, e viceversa nel concedere ai falò transferali più luminosi di per­correre un'orbita intera, prima che arrivi il tempo della loro eclisse.
Allora la prudenza di uno psicoanalista si misura dagli accorgimenti ado­perati per tornare, sempre e comunque, in superficie, la sua potenza evocativa e terapeutica dalla durata delle sue immersioni in apnea.

B) Nel capitolo precedente ho definito quel momento teorico-clinico che passa sotto il nome di psicoanalista-specchio come macchina fotografica per scattare "istantanee" del transfert dei pazienti. Sulla stessa linea d'onda, e non sapendo resistere alla seduzione del linguaggio metaforico, ho cercato delle immagini corrispondenti dove racchiudere le teorie del controtransfert e le corrispondenti applicazioni cliniche.
L'analisi del controtransfert, per come universalmente è stata reclamizzata, è quell'evento storico che segnala la partecipazione attiva dello psicoanalista a quella "molto speciale" relazione oggettuale, che si instaura col paziente al­l'interno del setting, trasformandola da visita medica a incontro-confronto tra due persone. È proprio a tal riguardo che nutro le maggiori perplessità.
A mio avviso, leggendo dentro la notizia, pur guardando dall'uno e dall'al­tro dei due corni, quello della speculazione teorica e quello dell'applicazione pratica, il controtransfert, nel migliore dei casi, più che occasione di più viva­ce partecipazione e maggiore corresponsabilità rimane fondamentalmente il mezzo indispensabile per comprendere il transfert del paziente.
Ed infatti, nelle operazioni più ingenue, funziona come la forcella del rab­domante per indovinare correnti emotive sotterranee, in allestimenti più ela­borati come un apparecchio per radiografie e, nelle versioni ancor più sofisticate, quando si sposa con la teoria degli oggetti interni e della identificazione proiettiva, come T.A.C. o tomografia assiale computerizzata del mondo in­terno del paziente.
Sotto questa luce trattasi, ancora e sempre, di una applicazione tecnica. Lo strumento è di gran lunga più complesso ed ha maggiore efficacia del prece­dente ma, per dare un'idea di come possa essere adoperato in astinenza emo­tiva e a distanza di sicurezza, propongo una vignetta.
Tra psicoanalista e paziente si svolge una specie di battaglia navale; è al pa­ziente che tocca la prima mossa e così parte una prima proiezione. Nel fare ciò inevitabilmente egli si scopre perché natura e direzione del movimento sono strettamente correlate con la disposizione delle sue "corazzate" o oggetti in­terni che dir si voglia (interi, frammentati, astutamente allineati su piani di­versi e sotto angolature tra le più bizzarre). Lo psicoanalista controlla sul suo terminale ascisse e ordinate del segnale da cui è stato penetrato, prima di ri­mandare una controproiezione con la quale cerca di svelare al paziente ignaro la mappa della sua costellazione inconscia.
Siccome a nessuno piace essere colpito e affondato in contropiede, può suc­cedere che il paziente risulti meno docile e meno candido di quanto pattuito per contratto: non rispetta la regola, gioca sporco e manda "annunci civetta" per "interpretazioni allodole", nel tentativo di ribaltare i ruoli e mettere a nu­do a sua volta l'avversario. Ma il computer analitico è tarato anche contro le false schede, per cui rimanda il segnale luminoso intermittente di resistenza o di attacco invidioso-sadico. Qui mi fermo, perché è già immaginabile la spira­le che può mettersi in moto.
È una evenienza questa, per quanto estrema, meno insolita di quanto si cre­da, che riguarda non solo i terapeuti novelli, ma anche gli analisti più scafati, ogniqualvolta, per stanchezza, per disempatia o scarsa simpatia, episodiche oppure insistenti, nei confronti di uno o più pazienti, rimandano interpreta­zioni senza spessore, personalmente poco partecipate, distratte o, peggio an­cora, cocciutamente aderenti a schemi fissi e a intenti puramente ermeneutici.
Conservatorismo, protezionismo, coloritura ideologica, pigrizia o batti­cuore ad abbandonare la sicurezza della "turris eburnea" trasformano quindi alcuni trattamenti analitici, pur presuntuosamente addobbati, in semplici somministrazioni di tests proiettivi.
Nell'interpretazione del ruolo gli psicoanalisti d'oggi come e quanto sono cambiati rispetto all'analista specchio di buona memoria?
In apparenza sono diventati più democratici e più timorati di dio (l'esame di coscienza controtransferale è la prassi quotidiana), più materni e meno pa­terni; esibiscono inoltre un piumaggio narcisistico ridimensionato rispetto agli esemplari del passato e si propongono come protagonisti minori di un'era decadente. Più numerosi e più diffusi tendono al riflusso e a riprodursi in cat­tività, all'interno delle accademie di Stato, da dove sembrava fossero evasi nella stagione più propizia, quand'erano pervasi da maggiore ottimismo.
Una nota masochistica di troppo, quando tendono a diventare maceratori di se stessi o quando esibiscono una soma troppo carica, tradisce in realtà la loro natura nostalgica e l'intenzionalità riparatoria proprio nei confronti dello specchio magico, da cui per altri versi dichiarano di aver preso distanza.
Si può essere più o meno d'accordo con questo mio personalissimo ritratto (so benissimo che esistono interpretazioni più nobili). Comunque io insisto a ribadire un concetto: le teorie del controtransfert, comprese le elaborazioni più recenti, non hanno portato alla rottura definitiva rispetto al modello dello psicoanalista-specchio; anzi ne rappresentano la logica evoluzione e il poten­ziamento.
 
L'altra faccia dello specchio

Lo specchio ha un rovescio, una faccia non riflettente, che lo pone sullo stesso piano (ed è altrettanto reale) degli elementi reali che esso riflette.
H.W. Loewald nelle righe finali del suo bel lavoro Transfert- Controtransfert, comparso sul n. 32 degli argonauti, fa questa dichiarazione: "Lo studio psicoa­nalitico dell'attività psichica dell'analista nell'incontro analitico è ancora in uno stadio iniziale... Il tempo è ora maturo per procedere ulteriormente con questo compito.
Io sono perfettamente d'accordo con lui, penso che l'altra faccia dello spec­chio sia il continente nero della psicoanalisi e che l'umano-troppo umano del­lo psicoanalista-persona sia la riserva intonsa cui attingere a fini conoscitivi e terapeutici.
Nel corso del medesimo lavoro Loewald aveva provveduto a sottolineare come, per quanto riguarda il paziente, esista non solo un transfert ma anche un controtransfert nei confronti dell'analista (in risposta allo stile del personag­gio, al modo di porgere e di parlare, al ritmo con cui si concede oppure si sot­trae alla relazione).
D'altro canto esiste un controtransfert ma anche un transfert dell'analista nei confronti del paziente (nulla vieta che l'impatto col paziente evochi situazioni, affetti e figure altamente significative del passato storico personale).
Faccio notare che l'autore, disegnando questa quadriglia, supera la linea d'ombra e colloca i due interpreti della relazione su un piano di assoluta pari­tà e di perfetta specularità per quanto riguarda fonte, natura e direzione delle emozioni in gioco. E comunque non si tratta di spingere per un contratto più democratico, bensì di obbedire a una urgenza demistificatoria.
"L'altra faccia dello specchio" è un continente illimitato, i cui confini sono ancora da tracciare; in questa occasione io mi limiterò ad alcune provocazio­ni-stimolo per introdurre l'argomento, lungi dalla pretesa di risultare esauriente.
1) Immaginiamo che lo psicoanalista abiti e si muova dentro il setting sotto spoglie squisitamente umane e si proponga al paziente in qualità di oggetto reale.
Allora egli porterà dentro la relazione tutto se stesso: la corporeità (postu­ra, sesso, età, mimica, eloquio), il lavoro mentale (pensiero logico, attività fan­tastico-onirica, spettro libidico-emotivo dilatato sino al colmo della capien­za), la personalità (carattere, cultura, sensibilità narcisistica), il pubblico (sta­tus sociale ed economico, abito professionale, credo religioso, colore politico), il privato (scelte personali di vita, abitudini intime, propensioni sentimentali ed erotiche, modelli estetici, ideali e ambizioni) e ancora la normalità, la pato­logia, la sanità, la perversione, lo spessore etico etc. etc. Questi pezzi di sé, tut­ti quanti, positivi oppure negativi, centrali oppure periferici, banali oppure eccezionali, possono essere attivati e utilizzati nella relazione coni pazienti, se opportunamente riciclati e incanalati dentro una prospettiva evolutiva.
Esiste una idea falsa e preconcetta di neutralità e un pregiudizio ricorrente che impongono all'analista di tenere nascosta la propria realtà, per non inqui­nare il setting, per salvaguardare l'evolversi spontaneo del processo transfera­le e non condizionarne la direzione. Ebbene, sulla base di quanto mi accingo a dire, non esiste ragione valida perché un analista debba amputarsi o scolorir­si, evitando di proporsi nella potenziale interezza della propria persona e ri­nunciando a priori alla totalità di sé. Certo che nella relazione con i pazienti, presi uno per uno, egli non viene stimolato, sempre e comunque, a tutto peri­metro e a tutto spessore; il suo segreto consiste nell'attitudine, in parte innata, in parte potenziata dall'addestramento professionale, alla plasticità e alla ri­sonanza selettiva per cui, di volta in volta, accende (e lascia che il paziente il­lumini) dell'intero edificio solo le arcate che possono essere inserite nel desti­no della relazione, mentre mantiene spente e silenti quelle che non contengo­no alcuna progettualità. Il frontespizio che ne risulta è diverso da un paziente all'altro e subisce continui aggiornamenti in funzione dei processi mutativi in corso di trattamento.
Così intesa la psicoanalisi è l'arte di recitare l'oggetto di cui l'io del paziente ha bisogno per crescere.
È opinione abbastanza diffusa, non solo tra i profani, ma anche tra gli ad­detti ai lavori, che la relazione paziente-analista non sia reale, perché non abi­ta su questo pianeta, ma si svolge in un ambiente rarefatto, ai confini tra il tea­tro e il sogno.
Infatti, in riferimento alla apparecchiatura scenica del setting, essa viene sovente definita convenzionalmente finzione analitica, e, in riferimento alla natura speciale delle emozioni che corrono incontro allo psicoanalista sul tap­peto volante del transfert, illusione specifica. Il contratto economico infine in­troduce una dimensione mercenaria.
Ora, a parte il fatto che in psicoanalisi il concetto di realtà è tutt'altro che scontato, e pure essendo vero che la coppia analitica abita un palcoscenico pieno di fantasmi, di cui lo psicoanalista chiede l'affitto, io rimango un soste­nitore fedele della realtà, verità e consistenza dell'emozione che nasce dentro il ritaglio spazio-temporale della seduta. Questa realtà, per scopi difensivi da parte di entrambi i protagonisti, viene preventivamente sospinta e compressa dentro i confini limitrofi della finzione e della illusione. Il paziente fondamen­talmente sente il bisogno di proteggersi dallo sgomento di fronte all'ignoto, lo psicoanalista prende distanze dal grande potere che gli è attribuito e quindi dalla grossa responsabilità che grava sulle sue spalle.
Ricapitoliamo: i pazienti puntellano il loro transfert su dati reali, inoppu­gnabili, effettivamente appartenenti alla persona del proprio analista, dati scelti con preconscia sapienza, in quanto i più adatti a riattualizzare il passato e a dare prospettive nuove al futuro. Quindi essi prendono sempre contatto con pezzi di realtà e, se sono soggetti a errore e a illusione, lo sono solamente nel senso della loro tendenza a scegliere un tratto piuttosto che un altro e a ipertrofizzarlo, a privilegiare una parte rispetto al tutto, per propria utilità e, se si vuole, per impossibilità a fare altrimenti. Ognuna di queste scelte è alta­mente caratteristica per ogni paziente.
La reazione dello psicoanalista è altrettanto specifica e selettiva, sia sotto la forma di proposta attiva (transferale), sia sotto la forma di risposta condizio­nata (controtrasferale). Egli è costretto a rinunciare temporaneamente alla totalità della sua persona e la parte di sé, che è stata chiamata in causa e solle­citata, riprende al momento vita autonoma e indipendente dal tutto.
Scomporsi per tornare sempre a ricomporsi in una circolarità continua, è questo il metabolismo basale dell'analista-persona.
2) Immaginiamo che, all'interno del setting, lo psicoanalista si proponga al paziente come oggetto nuovo e attuale.
Situazione e relazione analitiche, come si sa, vengono manipolate dai ten­tacoli transferali sino a diventare ripetizione occulta di esperienze pregresse, riedizione della vita originaria di amore e di odio del paziente, così come si strutturò nella interazione con le imago parentali arcaiche. Gli psicoanalisti hanno imparato la lezione sin troppo bene e hanno sfruttato la scoperta a mo' di vigna prolifica e inesauribile, tanto da dimenticarsi talvolta di non essere solamente "ometti" dove i pazienti appendono gli abiti smessi, ma anche e co­munque oggetti totalmente nuovi, di attualità inalienabile. Tra l'altro, se così non fosse, il paziente mai potrebbe vedere nell'analista un oggetto "altro da sé" e risulterebbe persino imbarazzante proporre il trattamento analitico co­me occasione di cambiamento, visto che novità e mutazione sono concetti ap­paiati e inscindibili.
Personalmente sono propenso a rincarare la dose: in ultima istanza il biso­gno vero del paziente non è tanto quello di entrare in relazione con l'analista per poter fare i conti con il proprio passato, quanto quello di liberarsi delle za­vorre che lo tengono ancorato all'antico (non senza essersi prima riappropria­to del potenziale energetico contenuto nei prototipi infantili), per essere final­mente pronto a seguire l'analista sulla strada che conduce verso il domani. Detto in altri termini, in senso ideale, il paziente consegna i propri "Lari" e i propri "Penati" allo psicoanalista visto come oggetto-arcobaleno e personificazione del diritto-speranza ad avere un futuro. I pazienti, anche se lo invoca­no, hanno un sacro timore del nuovo, tant'è che molte afferenze transferali hanno finalità esorcizzante; molti tra gli psicoanalisti sono sempre stati e sono tuttora restii ad ammettere di avere tanta influenza sulla vita e sul destino dei pazienti, per cui, di fronte ad eventi troppo coinvolgenti, basta loro un mini­mo di disonestà per ricorrere al suffragio del transfert e sostenere che la re­sponsabilità non è nata con loro, ma prima di loro. In tutti questi casi, anche quando il riporto transferale è esatto, l'interpretazione è priva di progetto e ha un sapore acido, da benefattrice inviperita o da padre adottivo pentito.
 Se lo psicoanalista è attuale e reale e non è solo un ricettacolo proiettivo dei fantasmi del passato, allora il suo modo concreto di essere al mondo e ciò che sente nei confronti del paziente (il suo transfert) avranno una influenza decisi­va sulla direzione, sul contenuto e soprattutto sulla forma con cui i transfert del paziente emergono.
Con questa aggiunta l'interpretazione di transfert mutativa non è quella che va ad acchiappare il fantasma dentro il mondo interno, bensì quella che esplicita in che modo fantasma e realtà tendono a coniugarsi, senza dimenti­carsi tra l'altro di fornire una apertura prospettica sulla possibilità di una combinazione migliore .
3) Immaginiamo che i tempi siano maturi acché lo psicoanalista tolga l'"in­gessatura" per potersi muovere, all'interno del setting, in modo più spontaneo e più libero.
Il concetto di neutralità può essere spezzato in due. In una prima accezione essa può essere considerata come uno stato della mente, una modalità di ascolto nobile, una disposizione naturale, potenziata dal mestiere, alla ricerca della "sintonia" nelle comunicazioni interpersonali.
In versione esterna, quando si traduce in postura analitica, la neutralità fa parte del setting e diventa una misura tecnica. È a questo livello che l'intelli­genza dell'uomo, prima e più ancora di quella del professionista, ha subito le offese più vergognose: legnosità da spaventapasseri, silenzi pietrificati da fare invidia alle guardie londinesi della regina, pazienti allibiti, impotenti a capire se la divisa sia abitata da un uomo in carne ed ossa oppure da una statua di cera... A questo proposito le teorie del controtransfert in alternativa alla teoria dell'analista-specchio non hanno svolto alcuna azione calmierante.
Io non ho una disposizione naturale alla confidenza facile e la disinibizione ipomaniacale mi irrita sia fuori che dentro le stanze d'analisi, ritengo il setting indispensabile come lo è la torre di controllo in un aeroporto, considero, anali­tica quella sola tecnica che evita l'influenzamento per favorire l'interpretazio­ne, e comunque non posso fare a meno di esprimere nei confronti degli psicoa­nalisti catatonici un giudizio lapidario: chi abita troppo vicino alla malattia mentale viene sfiorato da carezze gelide, sente tremare le ginocchia e arroto­larsi le budella; i vecchi psichiatri erano soliti rinchiudere i matti nei manicomi e contenerli dentro la camicia di forza, l'analista "mummia" ha messo la camicia di forza a se stesso.
Immaginiamo ancora che le teorie psicoanalitiche, tutte quante senza distin­zione di scuola, siano da considerare alla stregua delle mappe nautiche, con segnali leggibili solo da parte degli esperti che conoscono il codice. Che esse siano quindi utilissime, ma tutt'altra cosa dalle realizzazioni viventi all'inter­no della seduta, siccome le mappe, appunto, che ti regalano le coordinate ma non il caldo del sole, il suono del vento o il colore del mare.
Allora lo psicoanalista che adopera un linguaggio confessionale, troppo concretamente vicino a quello delle teorie che lo informano, fa, invece che analisi, bibliografia illustrata, utile soltanto agli studenti ansiosi di imposses­sarsi della divisa per aprire uno studio sul pianerottolo accanto.
Infine immaginiamo che la bibbia psicoanalitica debba essere scritta per in­tero una seconda volta sulla base della relazione paziente-analista concepita non più come incontro di ectoplasmi, bensì come incontro tra persone. Allora, in tal senso, questo mio contributo, pur minimo, è rivolto nella direzione del­l'ideale che mi accomuna ai miei amici argonauti

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