I Peter Pan della globalizzazione
Dall'adolescenza all'età adulta oggi, nell'epoca del precariato e della globalizzazione
di Leonardo (Dino) Angelini

Tre economisti bolognesi alle prese con i bisogni della “meglio infanzia”

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2 luglio, 2016 - 18:03
di Leonardo (Dino) Angelini
In un recente articolo apparso sul “Corriere della Sera” la giornalista Maria Silvia Sacchi rende noti anche extra moenia  i risultati di una ricerca, intitolata La meglio infanzia, ‘sugli effetti che l’asilo nido ha sulle capacità cognitive, non cognitive e sulla salute dei bimbi’ fra gli zero ed i due anni, presentata in Ateneo a Bologna nell’Aprile scorso dai tre autori: gli economisti Andrea Ichino, Margherita Fort e Giulio Zanella, e discussa con alcuni accademici delle facoltà bolognesi di psicologia (Francesca Emiliani) e di scienze dell’educazione (Franco Frabboni e Luigi Guerra).
 
La ricerca, così come traspare dall’articolo di Maria Silvia Sacchi:
- pone in evidenza come ‘per i bambini che vivono in famiglie non svantaggiate e benestanti il nido può essere un freno, può rendere meno brillante la loro intelligenza. Un mese di nido aggiuntivo (20 giorni frequentati) tra zero e 2 anni, infatti, «riduce il QI (quoziente intellettivo) dello 0,5% all’età di 8-14 anni»; e «l’effetto è più forte per le bambine e nelle famiglie più benestanti». Non ha, invece, impatto significativo «per le famiglie dal background economico più svantaggiato»’;
- non registra effetti significativi del nido sui tratti della personalità, né su disturbi comportamentali; con «la possibile interpretazione che i tratti non cognitivi non siano facilmente influenzabili dall’ambiente»;
- ‘mentre aiuta la salute, riducendo i rischi di sovrappeso tra 8 e 14 anni in particolare tra i maschi’.
 
Le ragioni che sarebbero alla base di questo ritardo cognitivo sarebbero nel fatto che:
«i bambini che frequentano il nido in giovanissima età beneficiano di minori interazioni 1 a 1 con gli adulti. Queste interazioni - spiega lo studio - sono particolarmente rilevanti per lo sviluppo cognitivo dei primi anni di vita». Il rapporto adulto-bambino nei nidi oggetto dello studio (le strutture della città di Bologna, ndr) è infatti di 1 a 4 all’età di zero anni e di 1 a 6 all’età di 2 anni. «Nelle famiglie non ammesse al nido - prosegue l’analisi - le forme privilegiate di cura coinvolgono, in ordine di importanza, nonni, genitori o baby sitter, che implicano un coefficiente adulto-bambino di 1 a 1». E questo dovrebbe valere a maggior ragione per le bambine perché «a questo stadio di sviluppo sono più “mature” e quindi capaci di sfruttare le interazioni 1 a 1 con gli adulti».
 
Il tutto basato: a. sull’asserzione che le ricerche fatte finora si sarebbero concentrate solo sull’influenza della frequenza di strutture prescolastiche sui bambini da 3 a 6 anni, lasciando da parte ciò che accade agli stessi bambini nei primi due anni di vita; b. sul fatto che recentemente ‘il Nobel Jim Heckman ha posto in evidenza che i primi tre anni di vita sono fondamentali per il futuro delle capacità cognitive e comportamentali’.
 
Ora innanzitutto non è assolutamente vero che le ricerche svolte finora sui nidi si siano disinteressate dei bambini al di sotto dei due anni: basta dare un’occhiata alla ricchissima bibliografia presente nell’ormai quasi trentennale “Manuale critico dell’asilo nido” per rendersene conto[1]. E in secondo luogo è sintomo di crassa ignoranza ascrivere alle recenti asserzioni di Heckman un concetto stranoto e stra/studiato sia in ambito psicoanalitico da Freud in poi, sia in quello etologico a partire da Bowlby, e ancor prima in ambito cognitivista a partire ovviamente da Piaget, eccetera!  
Ma, superata la rabbia che nasce di fronte a questo disprezzo per lo studio e la ricerca altrui, cercherò di tracciare un percorso critico dal quale spero traspaia un insieme di argomentazioni che esplicitamente o implicitamente contraddicono le conclusioni cui giungono Ichino, Fort e Zanella, e soprattutto tendono a rendere più articolato e complesso un argomento che -come mi pare abbia sottolineato già la Emiliani- non può essere ricondotto ad una sola variabile.
 
Partirei dalla mia esperienza diretta: ho svolto per undici anni – dal 1974 al 1985 – un lavoro di formazione e di coordinamento nei nidi e nelle scuole per l’infanzia del Consorzio Socio-Sanitario di Correggio (RE)[2]. Lavoravo nel gruppo Infanzia del CIM di Correggio e m’interessavo solo a tempo parziale dei nidi e delle ‘materne’ dato che la Regione, di fronte al rapidissimo espandersi delle strutture prescolari comunali ed all’accentuarsi degli squilibri fra grandi città che già si erano fornite di una direzione didattica e la periferia in cui nidi e materne erano senza guida, aveva deciso di assegnare agli psicologi dei CIM il compito di seguire anche queste strutture.
La nostra prima preoccupazione fu proprio quella di cercare di monitorare ciò che andava accadendo sotto i nostri occhi, e soprattutto i punti di crisi che emergevano sia fra le educatrici che fra i genitori, al fine di centrare su questi punti la formazione delle educatrici e i rapporti con i genitori.
Ci rendemmo conto subito che sotto i nostri occhi andava nascendo un modello educativo moderatamente policentrico, incentrato ancora sulle due figure della madre e del padre, ma precocemente esteso anche alle educatrici di sezione[3].
Modello che fra l’altro già allora (metà anni ’70) poggiava da una parte su quella propensione all’accudimento condiviso da parte dei due genitori che poi si estenderà nei decenni successivi, e che incredibilmente i nostri tre economisti oggi ancora non vedono! Dall’altra su una tendenza da parte delle nuove educatrici ad abbandonare il modello assistenzial-sanitario che aveva fino ad allora contraddistinto gli asili Onmi e quelli aziendali, ed a sposare uno stile di rapporto con i bambini incentrato sull’educazione, che per bambini di quell’età coincide con l’esercizio di quelle prime funzioni genitoriali che nascono intorno all’accudimento.
A partire da questo elemento che divenne ben presto un caposaldo del rapporto educativo nei nidi, e come risposta ad una polemica, supportata da ben altri argomenti critici, sull’inserimento precoce al nido portata avanti da alcune psicoanaliste infantili[4] che paventavano il rischio che il bambino piccolo rimanesse solo e perciò esposto, nacque in tutta la regione una riflessione che sfociò nella definizione di uno stile di rapporto delle singole educatrici con i singoli bambini sempre più individualizzato, ravvicinato, caldo.
Un altro elemento che emerse subito come esigenza educativa fu la necessità di mettere a punto sia modalità di rapporto individuali fra genitori ed educatrici (i colloqui di sezione), sia modalità gruppali di cura della duplice rete di adulti che orbitavano intorno al nido[5].
 
Ora, posti in evidenza alcuni elementi che ci riconducono alla complessità dei rapporti verticali (cioè adulto – bambino) a casa e al nido, come seconda tappa del nostro percorso critico cercherò di dare un’occhiata a ciò che accadeva, e continua ad accadere all’interno del rapporto fra pari. Lo faccio perché mi pare che Ichino, Fort e Zanella sottovalutino l’importanza di questo elemento, ed anzi siano portati a inquadrarlo come un elemento di sottrazione (‘riduce il QI’) al rapporto con gli adulti.
Anche su questo piano mi dispiace doverlo dire, ma i nostri appaiono profondamente ignoranti in materia. Infatti esiste da tempo una lunga serie di studi e di analisi volte a porre in evidenza l’importanza del gruppo di pari, la sua genesi[6] nel nido, la sua coniugazione sul piano della verticalità e della orizzontalità, che alimentano rispettivamente lo spirito cooperativo[7] e la competizione. Tutto ciò, a fronte ad una fratria che a casa tendeva e scomparire, all’interno della nostra analisi e della nostra pratica diventava un elemento rilevantissimo (spesso esclusivo), che non eleverà il quoziente intellettivo, ma -se ben usato- concorrerà a far diventare il bambino di oggi un adulto che domani sarà in grado di stare nei gruppi sociali come si sta nei gruppi sociali.
 
Un terzo versante della critica ai tre economisti è proprio la questione del quoziente intellettivo. Non è chiaro come essi abbiano fatto a misurare il QI di bambini sotto i due anni, certo è che comunque da lungo tempo esistono degli studi di sociolinguistica[8] che attestano che le competenze linguistiche dei genitori, ed in particolare della madre (in un contesto monocentrico, potremmo forse aggiungere, visto che si tratta di una lavoro dei primi anni ’70) determinano già all’inizio del percorso dell’obbligo uno scarto, riscontrabile sia nel vocabolario che nel lessico, cioè sia a livello di comprensione che di espressione, fra figli di madri diplomate o laureate e figli di madri che al quel tempo si erano fermate alla terza media, alla quinta elementare o ancor meno.
E’ noto anzi che uno dei motivi di fondo che spinse durante gli anni ’60 il PCI e soprattutto l’UDI a muoversi in direzione delle ‘scuole per l’infanzia’ e poi dei nidi fu proprio il proposito di innescare un processo educativo di tipo compensativo. Come ha ribadito in un recente scritto Loretta Giaroni, la prima amministratrice di quelle che poi diventeranno le scuole per l’infanzia più belle del mondo, richiamandosi fra l’altro al mandato costituzionale: “la giunta comunale ha sostenuto il diritto allo studio contro la selezione soprattutto a livello della scuola per l'infanzia, in quanto la possibilità di eliminare i dislivelli dovuti alle differenze sociali è molto maggiore quanto minore è l'età del bambino”.
Quindi è sul piano linguistico, e non su quello cognitivo, che ancor oggi si verificano gli squilibri; anche se come cercavamo di dire prima, il maggiore coinvolgimento del padre e la presenza delle educatrici della fascia prescolare certamente concorre ad attenuarli.
Ma anche ammettendo che la ricerca fatta dal nostro trio si riferisca proprio allo sviluppo cognitivo viene da chiedersi su quali basi poggi il suggerimento alle famiglie ‘più benestanti’ di tenere a casa i propri figli, riservando i nidi ai bimbi provenienti da famiglie ‘dal background economico più svantaggiato’? Su quali elementi di fatto è fondata «la possibile interpretazione che i tratti non cognitivi non siano facilmente influenzabili dall’ambiente»?
Questa strabiliante affermazione, che rovescia un insieme infinito di studi che legano gli sviluppi degli aspetti orbitali della personalità a ciò che avviene a livello più nucleare, appare buttata lì come fosse una ovvietà, e invece non lo è affatto. Così come è assodato da tempo[9] che la distribuzione dell’intelligenza non avvenga su basi classiste! mentre lo è la distribuzione delle competenze linguistiche se non si opera precocemente.
 
Infine due note:
 
- La prima sul passaggio dalla famiglia etica alla famiglia affettiva, dal prevalere ieri di personalità di tipo anancastico all’emergere sempre più massiccio oggi di personalità di tipo anaclitico. Tutto ciò - insieme all’emergere di quella che la Scabini definisce come ‘famiglia lunga’; alla odierna condanna, spesso di entrambi i genitori, ad uno stato di precarietà sine die, all'imponente flusso migratorio, ed agli altri elementi che concorrono a sconvolgere l’odierno assetto della famiglia e della società – modifica significativamente sia l’immagine e le attese che gli genitori hanno dei figli, sia il profilo dell’educatrice e le sue attese rispetto ai bambini che sono a lei affidati, sia anche le politiche delle amministrazioni nei confronti dei nidi.  Politiche che, se non altro per mancanza di fondi, spesso consistono de facto nella riconduzione dei nidi a quella condizione di assistenza dalla quale si erano fieramente emancipati negli ultimi decenni del ‘900.  E, a proposito di amministrazioni: non vorrei che la ricerca di Ichino, Fort e Zanella sia – diciamo così – troppo condizionata dalle emergenze di questo misero presente; e mi piacerebbe sapere ad esempio chi ne è stato il committente.
 
- La seconda nota invece è rivolta ai colleghi e alle colleghe impegnati nel mio ordine professionale, ai quali vorrei porre questa domanda: le reprimende circa l’uso improprio degli strumenti del mestiere di psicologo valgono solo quando di fronte a noi si trovano i poveri cristi?
 

[1] cfr: Manuale critico dell’asilo nido, a cura di Anna Bondioli e Susanna Mantovani, Franco Angeli, Mi, 1994 (8° edizione!!)
[2] da questa esperienza è nato il testo, scritto insieme a Deliana Bertani “Il bambino che è in noi – percorsi di ricerca al nido e nella scuola per l’infanzia”, UNICOPLI, Milano, 1992, che racchiude le ricerche e i più rilevanti momenti formativi rivolti alle oltre cento educatrici dei nidi e delle scuole per l’infanzia di quel comprensorio.
[3] che è cosa diversa dal policentrismo esasperato sperimentato dagli israeliani nei kibbutz subito dopo l’indipendenza! laddove il ritorno a casa solo per il week end da parte del bambino piccolissimo creava problemi non piccoli.
[4] fra di loro anche Renata Gaddini, che sconsigliava l’invio al nido di bambini almeno fino a che che non avessero superato l’angoscia dell’ottavo mese, non prevedendo che all’interno di un quadro di maternage già policentrico, cioè in un bambino che ha cominciato a frequentare il nido prima dell’ottavo mese, l’angoscia dell’ottavo mese tende ad emergere in maniera diversa rispetto a ciò che avviene nel quadro monocentrico.
[5] cfr. a mo’ di esempio nel testo “Il bambino che è in noi” i vari reportage sulle esperienze fatte nei gruppi eterocentrati di educatrici e di genitori nel correggese e a Reggio Emilia.
[6] le bellissime ricerche di Mina Verba in proposito sono dei primi anni ’70!
[7] quella che poi già in scuola materna potrà diventare, con la mediazione dell’adulto, la funzione tutoria del più grande nei confronti del più piccolo!!
[8] cfr. fra i lavori più datati: ‘Tre studi sulla capacità linguistiche all’inizio della carriera scolastica in funzione della classe sociale’ di Parisi e Tonucci, in: “La lingua italiana oggi: un problema scolastico e sociale”, a cura di Renzi e Cortellazzo, Il Mulino, Bo, 1977; fra i più recenti i lavori delle amiche Maria Silvia Barbieri e Beatrice Benelli; quelle di: Devescovi, Bascetta, Camaioni, Levorato, Parisi, Volterra, etc. etc. -
[9] dalla rivoluzione francese! ma ancor prima a livello di ‘coscienza possibile’, almeno all’interno della borghesia.
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