Lo psicodramma come risorsa in casi di inibizione sociale

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12 dicembre, 2016 - 11:06
Traduzione dal portoghese a cura di Paolo Pressato

Dalla metà del XX secolo, il campo della malattia mentale è stato caratterizzato da una serie di innovazioni che ne hanno riformulato l’idea stessa. Le tecnologie di neuroimaging, congiunte allo sviluppo della ricerca in neurologia e neuroscienze, finanziate dall’enorme crescita del mercato della psicofarmacologia, hanno creato una nuova convinzione teorica e scientifica: che i trattamenti più efficaci procedono da una diagnosi più accurata.
Nel caso di patologie mentali ad eziologia sconosciuta, la diagnosi ha finito per affidarsi a immagini cerebrali, che individuano la regione interessata, contribuendo alla individuazione di interventi farmacologici più efficaci e selettivi. Le antiche patologie “emotive o relazionali” hanno finito per configurare i disturbi. All’interno di questo gruppo è compreso l’autismo, oggetto di questo articolo.
Dal momento che, a seguito di ciò, la malattia mentale ha finito per seguire i criteri della diagnosi sindromica[1], era necessario estendere l’insieme delle sindromi che possono essere correlate alle principali caratteristiche che definiscono la diagnosi di autismo: difficoltà di interazione, difficoltà nello sviluppo del linguaggio e della comunicazione e modelli stereotipati di comportamento e interessi. Pertanto, si è creato il concetto di spettro. Lo spettro si riferisce al grado di compromissione dell’autismo, che può variare da basso ad alto funzionamento. All’interno dello spettro autistico, abbiamo visto sorgere numerose sindromi che definiscono tipi psicologici le cui caratteristiche sono l’idiosincrasia – per quanto riguarda l’inserimento e la performance sociale – e le abilità – artistiche o intellettuali – fuori dalla media. Così, la sindrome savant, ad esempio, comprende persone con capacità artistiche spesso prodigiose e difficoltà di integrazione sociale, mentre la sindrome di Asperger comprende soggetti con performance sociale molto ridotta, ma senza deficit intellettuale. Questi sarebbero gli autistici ad alto funzionamento. Il nostro lavoro si rivolge precisamente a quest’ultimo gruppo.
Il contesto delle innovazioni tecnologiche nell’informatica e il “boom di Internet” hanno propiziato, peraltro, l’emergere della narrazione in prima persona dei casi “limite” o di “confine” senza diagnosi certa, quantomeno per la letteratura psicologica disponibile al tempo (prevalentemente di matrice psicoanalitica). Con la popolarizzazione del gergo medico, che si appoggia a prove neuroscientifiche, una nuova letteratura ha cominciato a emergere. Queste persone hanno cominciato a rivendicare la possibilità di descrivere i loro stati psicologici come differenti e non patologici. La rapida diffusione delle idee attraverso Internet ha permesso loro di formare un nuovo gruppo sociale, impegnato ad assicurare il proprio spazio sociale, così come i loro diritti civili. Si era formata una nuova minoranza identitaria: lo spettro autistico. Gli autistici si definiscono come soggetti “neuroatipici” che si costituiscono soggettivamente in ragione di caratteristiche particolari. Questo li rende differenti, non disabili. Vogliono essere accettati, non modificati. E nemmeno curati.
 
SINDROME DI ASPERGER E INTERVENTO TERAPEUTICO
 
A partire dalla divulgazione del lavoro di Hans Asperger ad opera di Lorna Wing negli anni Ottanta e dalla traduzione del lavoro di Asperger in inglese da parte di Utah Frith, nel 1991, la diagnosi di sindrome di Asperger è diventata popolare e ha cominciato ad apparire nel DSM IV.
 
Se da un lato il progresso delle neuroscienze e della psicofarmacologia promettevano un intervento di cura più mirato, dall’altro la diagnosi clinica è diventata più complessa. Senza un quadro di deficit intellettivo, ma con una notevole compromissione sociale, questo gruppo sociale e diagnostico è diventato una sorta di “tallone d’Achille” della psichiatria. Queste persone manifestavano un quadro di grande sofferenza durante l’infanzia e cronico in età adulta, ma senza una buona risposta agli interventi farmacologici. Naturalmente storie di anni di esclusione e di isolamento sociale, con eventi di bullismo ricorrenti, fallimenti successivi dei tentativi di porsi in relazione, hanno contribuito alla nascita e allo sviluppo di casi di ansia, depressione e, in ragione della destabilizzazione emotiva, di scarso rendimento scolastico e accademico. Ciò ha condotto, senza una diagnosi corretta, a trattare farmacologicamente queste persone come psicotiche, con ansia generalizzata, senza peraltro alcun miglioramento. Questo processo ha portato al giudizio consensuale tra gli psichiatri che si occupavano della cura della sindrome, che le persone con Asperger non erano casi clinici con indicazione di trattamento farmacologico. I problemi della sociabilità non riguarderebbero l’area della psichiatria, ora identificata con il trattamento sindromico e non più con il processo terapeutico. Tali soggetti dovrebbero piuttosto venire eventualmente inviati a percorsi psicoterapeutici. L’attenzione si è concentrata su modelli di terapia breve, focalizzata sulla modificazione del comportamento, il cui ruolo sarebbe complementare agli interventi farmacologici.
L’accoppiata farmaci e terapia cognitivo-comportamentale ha avuto il suo apice negli anni Novanta e Duemila o giù di lì, quando abbiamo cominciato ad assistere ad un nuovo ciclo di convinzioni concorrenti. Molti psichiatri hanno cominciato a evidenziare la mancanza di risultati delle terapie cognitive a lungo termine. I risultati non sono stati soddisfacenti, perché la modificazione delle attitudini non si è rivelata sufficiente a creare un repertorio di comportamenti tanto vario da rispondere alle situazioni insolite che, indipendentemente dalla loro volontà, la vita mette loro di fronte. Rimanevano privi di flessibilità, incapaci di capire le sottigliezze e le ironie implicite al linguaggio ordinario e quindi senza alcuna possibilità di inserirsi in reti sociali più ampie.
 
PSICODRAMMA E SINDROME DI ASPERGER
 
In questo contesto è sorto l’interesse a lavorare con lo psicodramma come intervento in casi di sindrome di Asperger.
Lo psicodramma moreniano si basa sulla condizione umana spontanea, caratteristica essenziale per un’esperienza di vita autentica. Moreno ha inteso sviluppare una teoria legata alla pratica e che riguardasse la natura sociale umana. Così, la spontaneità, oltre a non essere causata[2], dovrebbe anche essere creativa, giacché l’atto creativo è il prodotto dell’energia messa in azione. La sua ipotesi sembra essere stata un tentativo di differenziarsi dall’energia psichica freudiana, dal momento che questi non poteva concepire una “energia che si preservasse” e, di conseguenza, “diventasse sintomo” (patologia). Secondo la sua opinione, l’energia doveva essere conservata perché ciò spiegherebbe tutte le acquisizioni culturali che diventano uno schema o un modello da seguire. Questo, tuttavia, determina le reattività culturali, che devono essere continuamente spezzate dando luogo al nuovo, in un ciclo infinito che definisce il movimento della creatività.
Il problema non era limitato a distinguere tra l’energia che genera patologia e quella che diventa un modello culturale da seguire, e poi superare. Prima di ciò, di che energia si parla? L’energia non era destinata a essere conservata? Se fosse conservata, quale sarebbe la differenza tra questa e l’energia freudiana che sarebbe, successivamente, sublimata? Cosa caratterizza l’energia spontanea/creativa? Qualunque novità è spontaneità? E il comportamento patologico? Dovrebbe essere incluso nella conservazione? Come distinguerli?
Inoltre, tra il nuovo impulso e le conservazioni culturali, si verificano diversi gradi di espressione. Come definire il punto in cui un impulso viene conservato? Come evitare che una conservazione si fossilizzi? Quale confine li delimiterebbe?
In primo luogo, Moreno si è domandato perché l’energia psichica dovrebbe essere compresa alla luce dell’energia fisica. Se non fosse così, saremmo in grado di concepire un’energia originale che catalizza il processo e si trasforma, senza partecipare del suo prodotto. Ogni impulso primario è spontaneo. Questa energia catalizzatrice, comunque,  deve estinguersi, altrimenti perde coerenza – perde la qualità di forza indeterminata e incoativa dell'azione – e, d’altra parte, ha bisogno di produrre qualcosa di “tangibile”, in modo che possiamo percepire o discriminare la sua presenza come cosa o evento nel mondo.
Inoltre, nei termini di Schutzenberger:
 
 La spontaneità non è fare una cosa qualsiasi in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, in qualsiasi caso e con qualsiasi persona. Essere spontaneo è fare ciò che è opportuno quando è necessario. È una buona risposta a una situazione inedita (...), che dovrebbe essere personale e integrata, non una ripetizione o citazione inerte priva di origine e di contesto (Schutzenberger, in Garrido, 1996, p. 132).
 
Quindi non è un nuovo comportamento qualsiasi che testimonia creatività, e nemmeno una condotta qualsiasi che esprima spontaneità. L’adeguamento può essere tanto sterile da rendere il soggetto inflessibile, rigido, non aperto al cambiamento. Così come la novità può essere incoerente con la condotta del soggetto, fino a paralizzarne il gesto più
semplice, dice Moreno, come “affettare  un pezzo di pane” (Moreno, in Garrido, 1996, p. 131).  Questa sarebbe la spontaneità patologica. Mancava, però, di spiegare come il comportamento spontaneo e creativo si concilia con quello adeguato. Non si escludono a vicenda?
La soluzione di Moreno è stata distinguere quattro gradi di spontaneità:
Il primo sarebbe l’impulso propriamente detto, che tende a ipostatizzarsi e ad attivare stereotipi culturali. Il secondo, la spontaneità come acquisizione culturale, che crea nuovi organismi, forme d’arte e strutture ambientali e fa riferimento alla creatività. Il terzo, in cui si manifesta nella originalità delle libere espressioni della personalità o, in altre parole, nel modo singolare di affrontare gli eventi. Il quarto grado corrisponde al massimo della spontaneità, cioè la capacità di offrire risposte appropriate alle circostanze ordinarie della vita, per quanto si presentino in modo inaspettato, in altri termini, la capacità di improvvisare.
In questo modo fondò empiricamente la spontaneità cercando di dar conto: della congiunzione tra il nuovo e l’adeguato, della variazione tra i diversi livelli di spontaneità, della valorizzazione della novità e dell’originalità e, infine, della distinzione tra un atto originale e un “atto qualsiasi”.
Certamente le soluzioni di Moreno per le impasse concettuali sono carenti. Ancor oggi non c’è consenso tra i suoi commentatori su come coniugare innovazione e adeguamento nello stesso concetto, se l’improvvisazione e la spontaneità sarebbero sinonimi (come è arrivato a dire Moreno in Improptu) oppure se la prima sarebbe il contesto per la nascita della seconda. Il luogo del comportamento patologico, da lui deliberatamente evitato, sembrerebbe essere sistemato ad hoc per includere la psicosi nella teoria della spontaneità.
Tuttavia, la ricchezza della proposta sta, per un verso, nell’attenzione all’integrazione del soggetto e, per l’altro, nel repertorio di tecniche il cui scopo è lo sblocco delle risorse inibite.
L’integrazione avviene attraverso il recupero della spontaneità, che ha il suo apice nella capacità di improvvisare. Abbiamo così un apporto teorico per pensare le inattitudini sociali o le inibizioni.
Le tecniche, a loro volta, accelerano la mobilitazione di nuclei di conflitto e sbloccano le emozioni inibite. Si recupera con ciò la fruizione della spontaneità, che risponderebbe con una condotta adeguata, adattata.
Senza entrare in dettaglio oltre lo scopo del presente lavoro, la scena moreniana inizia dal presupposto della Realtà Supplementare. Questa è la realtà con cui lavoriamo, assumendo una teoria sull’immaginazione e la fantasia. Da qui inizieremo a sperimentare le situazioni reali “come se” potessero essere vissute in altro modo. Da questa premessa, i soggetti cominciano a cercare di vedersi da fuori (allo Specchio), si collocano al posto dell’altro (Inversione dei ruoli), ascoltano i contenuti taciuti del discorso che non potevano essere espressi (Doppio), ecc...[3]. Curiosamente questi sono i punti problematici delle persone con Sindrome di Asperger: deficit nella teoria della mente, nell’empatia, nella capacità di cogliere le sottigliezze implicite e non verbalizzate nella comunicazione.
In un altro esempio, è possibile concretizzare l’immagine del fondo di un pozzo, in una situazione di depressione. In questo caso, si associa la concretizzazione moreniana allo Psicodramma Interno[4] e si crea una scena dove si immagina quali risorse potrebbero essere utili per uscirne: per esempio, scindersi in “due sé” e assistere a un altro meno timido scaricare l’emotività che non si riesce a esprimere. Questa scena può essere immaginata dal soggetto o realizzata dall’ego ausiliario.
Una storia principale, opportunamente scelta per essere rappresentata e che descriva un conflitto nevrotico, può essere messa in scena dal direttore che potrà collocarsi a fianco della persona rappresentando il desiderio del soggetto; successivamente, potrà posizionarsi dall'altro lato della persona per rappresentare l'impedimento del soggetto. Grazie a ciò il direttore mette in scena la divisione interna del soggetto. Il direttore potrà anche fare affidamento sull’ego ausiliare. In questo caso, il direttore collocandosi a fianco del soggetto rappresenterà il desiderio di quest’ultimo, mentre l’ego ausiliare, posizionato dall’altro lato, rappresenterà l’impedimento del soggetto. Questa situazione può riflettere alcuni dei conflitti che i colleghi agiscono al di fuori del setting terapeutico e che saranno esplicitati al termine dell'incontro consulenziale, durante il momento della condivisione (Sharing). Oltre a queste, molte altre risorse possono essere messe in atto.
Così, secondo Moreno, assumiamo che ci siano emozioni che possono essere “sbloccate”, al fine di liberare la creatività. L’assunto è interessante, ma presenta alcune implicazioni teoriche e pratiche, legate all’argomento del presente testo.
In primo luogo, si deve assumere un’“esperienza integra” al di là del quadro sindromico[5]. La posta in gioco sono esperienze che non possono essere raccontate, “dette” e che si presentano sotto forma di catarsi, scariche emotive. La collaborazione con la psichiatria di supporto nella valutazione diagnostica sindromica e il gruppo terapeutico impegnato per l’integrazione dell’esperienza soggettiva (non solamente con la modificazione del comportamento) non è, pertanto, incompatibile. Se la base della comprensione della malattia mentale rimane tuttavia refrattaria alla diagnosi psicodinamica, tuttavia, è possibile che possano sorgere le stesse critiche mosse decenni fa alla psicoanalisi. Questo perché, anche se il gruppo terapeutico non ha la pretesa di indagare le ansie, le angosce, insomma, universi psichici individuali in un lungo processo terapeutico, il lavoro mira a catalizzare emozioni che attualizzano conflitti latenti. In questo senso, seguiamo il percorso tracciato da Freud.
Ciò significa che una scena efficace che mobilita, per esempio, un nucleo di conflitto con il capo o con un collega, mobilita, per estensione, un conflitto precedente alla situazione (ad esempio un conflitto con il padre). Questa sarebbe la ragione, per Moreno o per Freud, per cui la situazione attuale genera un disagio e una sofferenza sproporzionata rispetto all’importanza della situazione attuale. Quindi, se tutto va bene, lo psicodramma è efficace nello sbloccare le emozioni e, possibilmente, nella dissoluzione di questo nucleo di conflitto. Il conflitto fondamentale, ad esempio con il padre, rimane comunque latente. Se il lavoro sul nucleo del conflitto sarà sufficiente per la ripresa del corso spontaneo della vita, solo il tempo lo dirà.
Potrebbe non essere necessario trovare un “conflitto originario” per disporre di risorse di salute psichica per affrontare le difficoltà circostanziali della vita. Alcune volte, tuttavia, la situazione verrà a ripresentarsi in altre circostanze e la fragilità emotiva tornerà a manifestarsi. È possibile che questo sia il caso nella maggior parte delle situazioni contemplate dall’inibizione sociale. Pertanto, l’ideale è avere uno spazio in cui il soggetto possa lavorare sul conflitto originario, che si reitera nei vari nuclei di conflitto attuali. Presto, sarebbe importante trovare un altro ambiente in cui possa lavorare sulla sua auto-continenza.
Peraltro, le pretese del lavoro in gruppo, in questi casi, sono molto più modeste rispetto alle psicoterapie individuali processuali, dal momento che l’ambizione non è approfondire le tematiche individuali. La possibilità di scarico e di reindirizzamento delle emozioni bloccate e di condivisione di esperienze traumatiche in gruppi di pari, in un ambiente protetto e la continenza, in generale, aumenta il senso di appartenenza, di fiducia in se stessi e di conseguenza la propria auto-continenza nell’affrontare le difficoltà della vita al di fuori del setting terapeutico.
Nei casi più gravi di inibizione, l’esperienza dei colleghi contribuisce come suggerimento o come catalizzatore di esperienze per loro inedite. Se restassero sempre lì (“al loro interno”) oppure suggestionate da altre esperienze, è questione che travalica i limiti del presente lavoro. Ciò che conta è che i partecipanti cominciano ad appropriarsi, in prima persona, delle proprie esperienze in forma autoriale, in modo creativo. Questa, tuttavia, non è una promessa di equilibrio della salute psichica o di riorganizzazione dell’autostima dei soggetti a lungo termine, se non vi è l’impegno di ciascuno alla ricerca dei processi che hanno condotto alla situazione attuale.
Pertanto, se si assume che i conflitti siano di superficie e che i contenuti precedenti saranno mobilitati e che ci sia una unità che debba essere integrata, un intervento terapeutico coerente e attento sarebbe conciliare il lavoro di gruppo con la psicoterapia individuale. Poiché il grado di coinvolgimento delle inibizioni è molto ampio, è necessario valutare, caso per caso, quale sarebbe la modalità di supporto più efficace: se la sola terapia di gruppo, se entrambi al contempo, o combinati in tempi diversi.
 
SINDROMI / Inibizione Sociale e Psicodramma
 
Infine, il pubblico delle persone socialmente inibite, per questo lavoro, include tutti coloro che conservano una certa capacità intellettuale e, nonostante le prestazioni intellettuali, non riescono a relazionarsi e a corrispondere alle attese prestazionali sociali. Oppure ancora, in ragione di gravi problemi emotivi, manifestano prestazioni sociali e intellettuali compromesse.
Da questo punto di vista, l'accuratezza diagnostica non è la cosa più importante. Se alcune categorie vengono escluse dal DSM, cambiano di nomenclatura o se nuove categorie vengono create, non è decisivo per la determinazione dei partecipanti. Se ci riferiamo a persone con questo profilo e che non rispondono ai farmaci, sono buoni candidati per rientrare nel quadro di ciò che abbiamo definito come inibizione sociale.

 
Bibliografia
 
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Costa, Cecília Leite, Marrocos, Rogério Pasano, "Síndrome de Asperger", Polêmica. Revista Eletrônica, Equipe LABORE-UERJ, Rio de Janeiro, 2010.
Costa, Jurandir Freire, As fronteiras disputadas entre normalidade, diferença, patologia, in Zorzanelli, Rafaela, Bezerra, Benilton, Costa, Jurandir Freire (org.), A Criação de diagnósticos na psiquiatria contemporânea, Rio de Janeiro, Garamond, 2014.
Dias, Victor Roberto Ciacco da Silva, Psicodrama. Teoria e Prática, São Paulo, Ágora, 1987.
Dias, Victor Roberto Ciacco da Silva, Análise Psicodramática. Teoria da Programação Cenestésica, São Paulo, Ágora, 1994.
Dias, Victor Roberto Ciacco da Silva, Psicopatologia e Psicodinâmica na Análise Psicodramática. VOL I, São Paulo, Ágora, 1996.
Dias, Victor Roberto Ciacco da Silva, De Araújo Silva, Virgínia, Psicopatologia e Psicodinâmica na Análise Psicodramática. VOL II, São Paulo, Ed Ágora, 2008.
Dias, Victor Roberto Ciacco da Silva, De Araújo Silva, Virgínia, Psicopatologia e Psicodinâmica da Análise Psicodramática. VOL V, São Paulo, Ágora, 2016.
Garrido, Eugênio Martin, Psicologia do Encontro: J. L. Moreno, São Paulo, Ágora, 1996.
Klin, Ami, Revista Brasileira de Psiquiatria, 28 (Supl. I): S3-11, 2006.
Moreno, Jonathan D., Impromptu Man. J.L. Moreno and the Origins of Psychodrama, Encounter Culture, and the Social Network, New York, Bellevue Literary Press, 2014 (trad. br. por FEBRAP, Homem do Improviso. J.L. Moreno e as Origens do psicodrama, da Cultura do Encontro e das Redes Socias, São Paulo, 2014).
Munir, Samira, Scholwinski, Edward, Lasser, Jon, The Use of Psychodrama Techniques for Students With Asperger’s Disorder, Round Rock Independent School District, Round Rock, Texas & Texas State University, San Marcos, s.d. Consultabile su: http://files.eric.ed.gov/fulltext/EJ901138.pdf (url consultato il 10 dicembre 2016).
Perazzo, Sergio, Psicodrama: o forro e o avesso, São Paulo, Ágora, 2010.



[1]  Mi riferisco al mutamento nel modello di classificazione riconosciuto dalla comunità scientifica per la diagnosi delle malattie mentali. In precedenza, la letteratura disponibile sull'argomento era principalmente di matrice psicoanalitica. Ciò significa che la consulenza psichiatrica sull’interpretazione di impostazioni cliniche si basava sull'idea di una struttura di personalità affetta da deviazioni o carenze strutturali. Con l'avanzamento della farmacologia e della tecnologia di imaging - in questi casi, in particolare quella delle neuroscienze -, la possibilità di individuare le regioni cerebrali colpite e di intervenire sui sintomi, prevenire o diminuire gli effetti collaterali; ha fatto in modo che il mainstream migrasse gradualmente verso una comprensione di tipo  psicofarmacologico. Si basa sulla rimozione dei sintomi e, in termini di concetto, sulla comprensione della correlazione neurale tra quadri di presentazione sindromica dei pazienti e aree cerebrali colpite. Ciò eviterebbe gli errori delle interpretazioni psicoanalitiche basate sulla supposizione dell'esistenza di malattie causate da difficoltà relazionali. Nel caso dell'autismo, questa critica si concentrò sulla tesi che divenne nota come la teoria delle "madri frigorifero": madri "fredde" che non avrebbero desiderato i  figli e, per questo, sarebbero colpevoli dello sviluppo relazionale precario e della remota possibilità che i bambini possano acquisire le capacità di interagire.
[2]  Sponsé – spontaneità, ciò che non è causato.
[3]  Queste sono alcune delle tecniche fondamentali sviluppate da Moreno. Esse si basano sulla teoria della Matrice di identità e possono essere trovate su siti web o descritte da alcuni dei suoi commentatori più popolari come Gonçalves, Wolff e Castello de Almeida.
[4]  Tecnica adattata da Dias nell’Analisi psicodrammatica.
[5]  Sindrome è un insieme di segni e sintomi che sono presenti in un dato momento, la cui eziologia è sconosciuta.
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