I Peter Pan della globalizzazione
Dall'adolescenza all'età adulta oggi, nell'epoca del precariato e della globalizzazione
di Leonardo (Dino) Angelini

Stima e autostima a scuola

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3 marzo, 2017 - 21:16
di Leonardo (Dino) Angelini
“A me la cosa peggiore in una scuola sembra l’uso
di metodi basati sulla forza e sulla falsa autorità.
Un tale atteggiamento distrugge i sentimenti sani,
la sincerità e la fiducia in se stesso dell’allievo.
Produce dei soggetti sottomessi” (A. Einstein)

 
 

1.Scuola come luogo di individuazione e di trasformazione. stima e autostima
 
Qualora il docente e, prima di lui, l’istituzione scolastica, ritenessero esaurite le proprie funzioni nell’istituire la cornice della scena formativa e nel definire una membrana illudente che si limitasse ad accogliere indistintamente docente e discenti essi avrebbero certo già fatto degli importanti passi sul piano della definizione del setting educativo, ma non avrebbero certo affrontato un problema che, sul piano della definizione e della trasformazione delle singole membrane individuali (Winnicott), è decisivo sia per i discenti, sia per i docenti.
Abbiamo già visto - nel capitolo sullo scambio ineguale - quanto sia importante per la definizione del setting educativo il fatto che, a fianco di queste due funzioni, siano previste e giocate concretamente nel rapporto fra docente e discenti altre due funzioni: quella che, appunto, abbiamo definito individualizzante, e quella di separazione.
In questa sede torneremo sulla terza funzione poiché, come il lettore ricorderà, è all’interno dei protocolli e delle procedure previste dall’istituzione, nonché all’interno degli stili personali di esercizio di questo potere (Filloux)[1] da parte del singolo docente che si determinano le premesse in base alle quali l’individuazione, la trasformazione e la crescita personale e particolare dei singoli discenti può avere luogo.
Innanzitutto, come sottolinea Mottana, non è detto che, in assenza dell’esercizio di questa terza funzione, la scena formativa si spenga:
 
“In particolare sono certamente molti i processi che si interrompono prima di aver raggiunto questa fase, e che stagnano per un certo tempo, prima di frammentarsi in mille rivoli conflittuali oppure in relazioni simbiotiche, o di puro e semplice rifiuto, nello stadio dell’illusione e della beanza narcisistica che essa comporta.”  (Mottana, p.155)
 
Può accadere cioè che docente e discenti, una volta che il luogo della formazione è stato istituito come tale (da parte del docente), si adagino nell’esercizio della funzione illudente senza “entrare nel merito”, cioè senza entrare in una atmosfera più propriamente operativa.
In questo stato di beanza narcisistica ciò che passa nell’una e nell’altra direzione è una mozione degli affetti, più o meno intensa o più o meno integrata.
Può anche accadere però che la scuola si riduca alla risultante solo dell’esercizio della prima funzione, quella istituente, con il reale pericolo che essa diventi un contenitore vuoto in cui i dati affettivi che passano sono solo le cerimonie, nello stesso tempo difensive (per i docenti ridotti a staff) e reificanti (per i discenti ridotti ad internato), tipiche delle istituzioni totali (Goffman)[2].
Detto questo, però, torniamo sulla terza funzione, quella individualizzante e perciò giudicante. Ma torniamoci non per approfondire il discorso sulla sua natura [3], bensì per  tentare di evidenziare i nessi che ci sono fra l’esercizio di questa funzione da parte del docente e il problema della stima e dell’autostima in ambiente scolastico.
J. Filloux, nel cercare di individuare il tipo di autorappresentazione che i docenti hanno di se stessi, e nel confrontare tale immagine con quella che specularmente i discenti costruiscono nel rapporto quotidiano con essi, cioè con la rappresentazione che i discenti hanno dei docenti, sottolinea più volte l’importanza che hanno per i discenti quelle che da loro sono vissute come espressioni dell’esercizio di un potere.
Da una parte infatti l’insegnante evoca nell’allievo immagini genitoriali buone, di depositario di una dispensa di cibo spirituale, e di distributore neutrale e paritario di doni per tutta la classe, dall’altra, come dice la Filloux, “ciò che non si ama dell’insegnante” è la sua non perfetta capacità di “dominare le attitudini controtransferenziali” e la sua conseguente non perfetta capacità “di preservare l’uguaglianza di diritto di ogni alunno ad ottenere” il suo amore.
E’ chiaro che tali immagini dell’insegnante sono collegate alle imago ideali che l’insegnante stesso ha di sé, e cioè da una parte ai suoi fantasmi formativi (Käes), ma anche, dall’altra, alla sua tendenza a dissimulare la realtà dei fatti sul piano dell’esercizio di quella che agli allievi appare come l’esercizio di un potere, ai propri occhi come una possibilità unica di conoscenza che egli offre alla sua classe, agli occhi dell’istituzione scolastica come un terreno al di fuori di qualsiasi reale controllo da parte dell'esterno (Fürstenau), ma che in effetti è un rapporto di dominazione-sottomissione (Filloux) che, a seconda delle caratteristiche dei singolo docente può assumere o le tinte più tenui e mature dell’edipo, o quelle più truci eredi delle sue prime introiezioni e proiezioni.
Ebbene, a ben guardare, le ragioni che spingono nel senso della dissimulazione, come abbiamo già sottolineato allorché abbiamo parlato dei rapporti di amore e di odio che legano l’insegnante alla sua classe e viceversa, riguardano certo il momento dell’illusione gruppale, con tutte le fantasie seduzione e di soffocamento che la situazione di fusionalità ha in sé ; ma riguardano anche e soprattutto il momento della individuazione e della selezione, poiché è in questo momento che il manto ideale che avvolge in una unità fuori dal tempo, dallo spazio e dalla società il docente e i suoi discenti tende a scomparire ed a lasciare emergere i giochi di dominazione-sottomissione edipici o pre-edipici in maniera impietosa.
In quei momenti la zona franca che in effetti è la classe tende molto di più che nel momento fusionale ad apparire con tutti i suoi problemi di distribuzione dell’amore e delle ricompense, filtrati in base agli elementi controtransferali del docente, e perciò luogo dell’individuazione, diseguale e partigiano, ed - anche per questo - deludente.
Super-Io ed Ideale dell’Io dei discenti, che nel momento dell’embrasson nous illudente avevano potuto spaziare da una parte verso i sentieri di autocompiacimento, dall’altra verso quelli della grandiosità, ora devono fare i conti con il giudizio individualizzante, discriminato del docente, che inchioda ognuno al limite segnato dalla effettiva competenza passata da se stesso al discente, filtrata dalle maglie del proprio controtransfert, cioè  dal confronto con le proprie imago ideali e superegoiche, nonché di tutte quelle parti interne di se stesso che lui, consapevole o meno, mette in campo allorché esprime un giudizio.
Ciò vale sia per le valutazioni più canoniche ed esplicite, sia - e forse soprattutto, se è vero quel che in ambito etologico è stato appurato (Jacobson et al.) - per quei messaggi minimi segmentari e sovrasegmentari che da lui vanno verso la classe.
E’ per questa via, d’altro canto, che, a poco a poco, a fianco alla membrana gruppale che avvolge la classe, può nascere e svilupparsi la membrana individuale dei singoli discenti.
Winnicott, parlando del rapporto fra membrana gruppale e membrana individuale, osserva come la presenza in un luogo educativo di individui che hanno sempre bisogno di confondersi in una membrana gruppale più o meno sana, più o meno patologica, denota le presenza di gruppi che lui definisce di protezione, in cui la presenza di una entità che protegge, che dà senso, che magari in un secondo tempo spinga nel senso della individuazione è indispensabile (Winnicott, 1986) ; al contrario la possibilità per i membri del gruppo di mantenere i confini della propria individualità nel gruppo, di mantenere la propria membrana individuale, insieme a quella gruppale illudente, permette ai singoli che fanno parte di questo tipo di gruppo, che Winnicott chiama gruppo di sovrapposizione, di potersi dare senso da soli, in maniera individualizzata e di porsi nel gruppo in un rapporto dialettico che non cancella la propria individualità, ma che permette una coniugazione fra quello che c’è in se stessi e quello che proviene dal gruppo.
Nella pratica, come lo stesso Winnicott suggerisce, gruppi di protezione e gruppi di sovrapposizione non vanno visti come modelli antinomici di gruppo, ma come due opzioni-limite che determinano i poli estremi di un continuum che vede i gruppi concreti disporsi ora più sul piano della protezione, ora più su quello della sovrapposizione, in base a molti elementi dinamici. Di fatto la continua oscillazione fra momento illudente e momento individualizzante può essere vista, a mio avviso, come un elemento della dinamica del gruppo-classe che trova in questo sciogliersi nella membrana gruppale, e in questo risorgere delle membrana dei singoli un momento di individuazione e di trasformazione che - fra l’altro - non è dissimile dal gioco piagettiano di accomodamento-assimilazione (Piaget) e che ha implicito in sé lo stesso tipo lavorio e di agglutinamento del nuovo con il vecchio, del sapere con l’ignoranza.
Ebbene ora, attraverso la coniugazione e la contaminazione fra il discorso di Mottana e dei francesi (Käes, Filloux, Laplanche e Pontalis) da una parte, e quello di Winnicott dall’altra, possiamo comprendere come, al di là delle necessarie dissimulazioni, la dinamica dominazione-sottomissione fra docente e suoi discenti funzioni nei fatti:
-una volta che il gruppo dei discenti è stato condotto nella istituzione, cioè allorché è chiaro a tutti che quel luogo e quel tempo, quel gruppo e quel docente sono preposti a mettere in piedi una scena formativa tutto è pronto perché l’atto formativo si possa dispiegare in tutte le sue singole scene;
-il docente, con i gesti usuali (che, se le cose vanno bene, solo all’inizio di ogni ciclo hanno bisogno di essere esplicati, o accompagnati a dimostrazioni esplicite di forza), da il là perché una membrana gruppale illudente avvolga la classe ;
-nel fare ciò egli usa rivolgersi internamente ai propri ideali ed ai propri fantasmi formativi che lo guidano nel momento della confusività illudente, esponendosi in questo modo a tutte le angosce connesse [4] ;
-i discenti in un primo tempo, e sempre se le cose vanno sufficientemente bene, si lasciano illudere e tendono a rinunciare più o meno completamente alla propria membrana individuale, con un ventaglio di posizioni che varia a seconda dell’età dei discenti stessi, delle capacità affabulatorie del docente e della capacità illudenti della materia [5],  etc. -
-anch’essi quindi, già in questo momento, esattamente come il docente, si mettono in contatto con il proprio mondo interno, con i propri introietti, e più precisamente con quel tipo di introietti che l’educazione ricevuta e le seduzioni del docente li spinge a mettere in causa;
-successivamente il docente (è lui che conduce sempre il gioco!) compie un’opera di delusione e di individualizzazione (il compito individuale, il voto, lo sguardo, la valutazione) che tende ad attenuare l’importanza della membrana gruppale per il gruppo-classe e a fare emergere dal fondo indistinto in cui si erano appannate le membrane individuali dei singoli;
-nel fare ciò ancora una volta egli si riferisce, conscio o meno che sia di questo dialogo interno, agli stessi introietti, o ad altri da lui intuitivamente ritenuti più adatti a giudicare;
-i discenti, con minore o maggiore dolore, con minore o maggiore ansia ed angoscia, si apprestano a rimanere soli di fronte al compito (Salsenberg-Wittemberg), ad essere giudicati ed a giudicare colui che giudica [6], in modo da potere crescere ed individualizzarsi ;
-nel fare ciò si congiungono con le loro imago introiettate, per plasmarle, se esse risultano plastiche e disposta all’adattamento, o per rimanerne schiavi, qualora l’equazione simbolica (Segal) prevalga e le possibilità che sono nel nuovo (il rapporto con il docente e con la classe) annegano nelle vecchie e tremende certezze prodotte dai primi esigenti e grandiosi introietti.
-e così di seguito, in una oscillazione che - come dicevamo prima -  ricorda il tiramolla adattamento-assimilazione, fino alle separazioni finali che preludono a nuovi incontri, che genereranno aspettative ed angosce formative e de\formative, in un tourbillon incessante, poiché in una società dinamica come la nostra non è pensabile porre termine alla propria formazione;
-il che pone tutto il quadro formativo in una atmosfera in cui viaggiano in continuazione, e fino alla fine dei nostri giorni, frustrazioni per i nuovi cibi che ci mancano, grandi abbuffate che spesso si rivelano di tipo bulimico, poiché il nostro profilo umano e professionale risulta vago e incerto, etc.-
 
 
 
2.Personaggi giudicanti a scuola
 
 
Appurato in questo modo che in classe sia i docenti che i discenti, in ogni momento dell’agire operativo scolastico, devono fare i conti con i propri personaggi interni giudicanti, cerchiamo di conoscere meglio non solo questi personaggi, ma tutta la complessa geografia di cui questi personaggi sono solo una parte.
Per cercare di capirci qualcosa partiamo da un esempio abbastanza classico: il bambino che ruba la marmellata.
Il bambino che ruba la marmellata ha bisogno, all'inizio, di una mamma o un papà, di qualcuno insomma che dica "no", che lo inibisca. Il bambino, cioè, all'inizio non ha un'istanza interna che gli permetta da subito di autoregolarsi, di valutarsi. Quindi, all'inizio c'è bisogno che, di fronte al soggetto in formazione, ci sia qualcuno di esterno ad esso che imponga degli obblighi, dei divieti, che ponga dei confini, che definisca delle strade, dei sentieri e che definisca delle priorità.
Alla fine di questo processo, se le cose sono andate sufficientemente bene, una parte di queste entità valutanti, che all’inizio sono esterne al soggetto, viene metabolizzata ed introiettata dentro al soggetto stesso ed entra in un dialogo più o meno ricco con le altre componenti del suo mondo interno, un’altra parte, più o meno ampia, a seconda di come in concreto è avvenuta l’educazione primaria, non riesce ad essere metabolizzata e viene espulsa e proiettata al di fuori del soggetto.
Sia dal punto di vista genetico che contenutistico fra il momento iniziale e quello "finale" dell'introiezione [7] o della proiezione c'è una tappa intermedia in cui queste entità, come dice Selma Fraiberg, risultano esterne-interne al soggetto in età evolutiva. La Fraiberg, proprio per evidenziare questo delicato momento di passaggio, che poi è il passaggio da una situazione di necessità di confronto con entità esterne giudicanti e presenza di una entità interna, un Super-Io per l’appunto, in grado di svolgere una autovalutazione autonoma, riporta proprio il caso di una bambina alle prese, da una parte con la marmellata, dall’altra con una voce materna inibente:
 
"Giulia, di 30 mesi, si trova sola in cucina mentre la madre è al telefono. Sul tavolo c'è un vassoio pieno di uova. Giulia prova un impulso a fare delle uova sbattute: allunga le mani sulle uova ma ora prova con uguale forza il senso della realtà. Cioè la voce della madre. La madre non approverebbe. Il conflitto risultante nell'io si esprime nelle forme: "io voglio" e"no, non devi"...... "Si riconoscono le ragioni di entrambe le parti e sul momento si arriva ad una decisione. Quando la madre di Giulia ritorna in cucina, trova la figlia che rompe allegramente le uova sul linoleum e che rimprovera aspramente se stessa dopo ogni rottura: "Giulia! no, no, no! Non devi farlo! no! no! no! non devi!" (Fraiberg)
 
Le parole che la piccola Giulia sente il dovere di dire a se stessa, come l'esempio dimostra in maniera lampante rappresentano la voce della mamma, la voce della mamma che sta entrando dentro di lei. E, più precisamente, la voce di una mamma che impone un divieto. Per cui in conclusione potremmo dire che in termini genetici c'è un primo stadio in cui il bambino ha bisogno di un "personaggio esterno che impone" per poter procrastinare la soddisfazione del desiderio, un terzo stadio in cui, se le cose sono andate sufficientemente bene, il personaggio è già dentro di lui, oppure, se lo stile educativo del personaggio esterno non lo ha permesso, è stato proiettato fuori di lui ; ma che fra il primo ed il terzo stadio geneticamente è possibile individuarne un secondo in cui questo personaggio giudicante risulta "esterno-interno" al bambino. È significativo il fatto che il bambino nel secondo stadio il bambino si esprima con un "non devi", mentre nel terzo stadio, se il personaggio giudicante è stato fatto proprio ci sia un "io non devo", poiché quel passaggio fra la seconda e la prima persona è il segnale dell’avvenuta introiezione.
Ma cosa fanno questi personaggi, esterni o interni che siano? Ci valutano, ci stimano: e la stima e l'autostima -non dimentichiamolo- sono quelle cose che ci permettono poi l'impegno, lo studio, ecc.- Stima ed autostima: vediamo allora il significato di queste parole.
Stimare deriva dal latino, e precisamente dalle due parole: "aes" più "timus".
"Aes" in latino significa "bronzo", "cosa preziosa". "Timus" è un suffisso che indica l'esistenza di un superlativo. Quindi, il significato di 'stimare' sarebbe "valutare ciò che è più prezioso".
Perciò ogni volta che siamo valutati o che ci valutiamo è come se ci riflettessimo in un insieme di specchi esterni o interni a noi stessi. Si determina così una specie di camera degli specchi composta originariamente dall’insieme degli specchi esterni che sono l'insieme di quelle parti esterne provenienti dai genitori e dagli altri soggetti importanti che nella nostra infanzia hanno contribuito a formarci, ad educarci ; ma che, successivamente, mano a mano che il processo di introiezione va avanti, si ricompone in un insieme di specchi interni e cioè  di personaggi interni, di introietti che si vengono ad accumulare dentro di noi, a partire dalla nostra esperienza complessiva e dalla metabolizzazione, dalla assimilazione, che nell'esperienza concreta di tutti i giorni facciamo dei contenuti che provengono dai personaggi esterni.
Allorché il bambino arriva a scuola, se le cose sono andate sufficientemente bene, il processo di introiezione, a grandi linee, dovrebbe già essere avvenuto. Per cui il discente, fin dall’inizio, è posto di fronte ad un doppio versante del giudizio: quello esterno che, dal genitore, si sposta e si espande nell’immagine del docente e quello interno, qualora il bambino abbia potuto introiettare una imago giudicante e non sia stato spinto a non costruirsela o, peggio, a vedere le imago esterne giudicanti come un fastidioso ingombro.
I problemi, a questo punto, cioè in ambiente scolastico, sono molteplici. Accenneremo ai tre che ci paiono più importanti.
Innanzitutto occorre vedere di che natura, in effetti, è l’introietto dei singoli discenti. Poiché il Super-Io e l’Ideale dell’Io sono l’introiezione, rispettivamente, dell’imago genitoriale che punisce e di quella che si prende a modello e si ammira (L. e R. Grinberg, 1979), l’autostima - che avviene proprio sulla base del confronto interno  con queste due istanze introiettate - sarà ampiamente legata alla caratteristiche peculiari che nel singolo discente vanno assumendo questi due personaggi interni [8].
 In proposito la Klein, con l’indagine sui processi di introiezione e proiezione delle precoci imago genitoriali nel bambino, ha permesso una visione più ampia della natura di questi introietti, per cui si può dire che, a fianco alle componenti edipiche del Super-Io e dell’Ideale dell’Io, oggi possiamo prendere in considerazione anche quelle parti più precoci, più rozze e più sadiche, di questi introietti, il che ci permette di comprendere tutto un insieme di fenomeni, e soprattutto il complesso gioco fra introiezioni e proiezioni delle imago genitoriali precoci, di fronte alle quali la metapsicologica freudiana esitava a mantenere un atteggiamento interpretativo.
Le possibilità di coniugazione e di dialogo interno di queste parti fra di loro e con tutti gli altri personaggi interni sono molteplici e rimandiamo ai chiari e comprensibili lavori dei Grinberg chi volesse approfondire questo argomento. A noi qui interessa sottolineare che, se nel discente, e - come vedremo fra un po’ - anche nel docente - la qualità di questi introietti è buona e le imago precoci e sadico orali ed anali sono state stemperate in un rapporto credibile, continuo e  caldo con i soggetti educanti sarà possibile raggiungere dal soggetto una capacità di giudizio autonomo e, cosa altrettanto importante, sarà per lui possibile giungere ad una discriminazione fra gli oggetti presenti sulla scena scolastica (docenti e compagni del gruppo-classe) ed oggetti passati o presenti sulla scena familiare ; se invece il soggetto è stato a lungo in rapporto con imago parentali patologiche (assenti o discontinue e imprevedibili) allora non solo ci sarà dipendenza e sottomissione ad imago parentali crudeli ed esigenti e mancanza da autonomia di giudizio, ma anche la presenza di un mondo interno povero e resistente, fino alla impermeabilità, al cambiamento : il che in ambiente scolastico spesso è all’origine di molte inibizioni e di molti tratti che potremmo definire epistemofobici.
Da parte dei docenti, come si accennava prima, il problema si pone in termini simili, poiché se è vero che il processo di introiezione-proiezione in essi è più datato da un punto di vista genetico, è vero anche che la lunga permanenza in un contesto giudicante ha finito senz’altro per eccitare le imago interne giudicanti, conducendole, esattamente come per i discenti o verso un loro affrancamento dalle influenze del passato, o verso una specie di incistamento che l’eccitazione proveniente dal presente può solo enfiare.
Il secondo problema, strettamente legato a questo cui abbiamo appena accennato, è quello delle trasformazioni che intervengono, non tanto sul piano degli apprendimenti, quanto, più in generale, nell’identità del discente e del docente in base  all’azione critica ed autocritica della stima e dell’autostima.
L.e R. Grinberg suddividono, sulla base di un costrutto di Widman (cit. in L. e R. Gringerg), il Sé in una parte più orbitale che, come abbiamo già detto, è quella in cui si sedimentano gli apprendimenti, ed una parte più nucleare, che è il crogiolo della identità del soggetto, e - riferendosi soprattutto alla prima delle due aree, ma comprendendo anche la seconda  - sostengono che tre sono le loro componenti interne : il Sé spaziale, che potremmo vedere, con una immagine di Sandler e Rosemblatt, come il teatro rappresentazionale, in cui le varie parti interne sono in rapporto, più o meno integrato, fra di loro ; il Sé temporale che i Grinberg denominano riassuntivamente come il “sentimento di sé” nel tempo, e cioè l’istanza interna che permette al soggetto di rimanere se stesso nel cambiamento (Erikson) e presiede alle sue necessità di integrazione temporale ; il Sé sociale che presiede al rapporto del Sé “con gli oggetti” (L. e R. Grinberg), intesi come rappresentanti di un contesto sociale e culturale e quindi consente, o meno, l’integrazione sociale con tutte le componenti che dal quel tipo si società sono considerate dinamicamente socio-sintoniche, e la rimozione di quelle considerate socio-distoniche (il carattere e l’inconscio etnico di Devereux).
Come è possibile vedere, il problema, sul piano della definizione e della trasformazione dell’identità personale (per il discente e per il docente), è quello dell’integrazione o della mancata integrazione di tutto ciò che bolle in pentola sia all’interno del soggetto, sia nel rapporto del soggetto con la realtà che cambia. Quindi la scuola, luogo dell’identificazione e della trans\formazione per eccellenza, è un crocevia in cui tutto viene scambiato e rimesso velocemente in circolo, in cui, però, per le ragioni che abbiamo fin qui detto, tutto viene anche valutato nel momento in cui viene rimesso in circolo e scambiato internamente ed esternamente. Ecco perché la natura più o meno crudele dell’istanza interna ed esterna giudicante sono molto importanti, sia sul piano degli apprendimenti, sia sul piano della definizione dinamica della identità personale dei discenti, ma anche dei docenti.
Un terzo problema, infine, è quello che prende il gruppo-classe inteso come una entità autonoma dai singoli soggetti, discenti e docenti, che la compongono. Dal punto di vista del giudizio il gruppo-classe, e la stessa scuola, intesa come istituzione, diventano esse stesse una camera degli specchi in cui sono riflesse tutte le varie componenti che vengono proiettate in esse, o nelle loro singole parti da parte di tutti, con minore o maggiore plasticità a seconda del grado di salute o di malattia del gruppo stesso e dell’istituzione scolastica.
Come Käes ci suggerisce, è possibile vedere il gruppo-classe e la scuola con tutte le loro dispense simboliche, i loro ripostigli non istituzionalizzati, fino alle loro latrine, cioè ai singoli o ai sottogruppi che diventano ricettacolo dei rifiuti della classe e della istituzione, come ad un soggetto che in questo modo viene ad avere una specie di Sé spaziale collettivo, con tutte le introiezioni e proiezioni connesse, con tutta la sua geografia interna di elementi più o meno integrati, etc.-
E, su questa strada, è possibile anche vedere la dimensione temporale di questo Sé collettivo, intesa come storia del gruppo e dell’istituzione (Bauleo), con i problemi di permanenza e di trasformazione della propria identità gruppale, con i suoi lutti e con le sue nuove e più o meno feconde coniugazioni. Verticali: nuovi docenti e nuovi discenti ; ed orizzontali : nuovi docenti con nuovi docenti, nuovi discenti con nuovi discenti.
Ed infine la sua dimensione sociale, cioè l’immagine di sé, intesa anche come istanza autogiudicante, confrontata con l’immagine sociale più ampia della scuola e con il giudizio cui essa è continuamente sottoposta dalle famiglie e dal più ampio contesto sociale.
 
 
 
3. I due versanti del giudizio
 
Due sono le aree in cui si addensa l’identità individuale, come abbiamo appena detto : quella più periferica in cui si sedimentano gli apprendimenti, e cioè il Sé orbitale, e quella più centrale, in cui si definiscono dinamicamente le identificazioni, che L. e R. Grinberg chiamano Sé nucleare.
Qualora, però, noi pensassimo che le trans\formazioni indotte dal giudizio operino solo sul piano del Sé nucleare noi sbaglieremmo, come acutamente ci suggerisce Mottana, e non coglieremmo la complessità di un processo di continuo riaggiustamento che avviene a scuola e che prende tutto il nostro mondo interno, e non solo la parte più nucleare del nostro essere. Sbaglieremmo anche nel senso di vedere ancora una volta in termini scissionali ciò che solo un insieme di fattori socio-specifici [9] (essenzialmente la maniera storica secondo la quale è stata istituita la nostra scuola, nonché la divisione fra le cosiddette due culture (Snow) che attraversa tutto l’Occidente industriale) ci spinge a suddividere, e che nella realtà della quotidianità scolastica, invece, come cercheremo di dimostrare, sono fondamentalmente uniti.
Delle trasformazioni che intercorrono fra soggetto e soggetto, nonché all’interno del singolo e nel gruppo sulla scena scolastica abbiamo già detto. Abbiamo visto, di conseguenza, come il versante affettivo sia profondamente e continuamente messo in discussione allorché parti nucleari del Sé dei singoli e del gruppo sono messe in discussione dal giudizio e dal confronto con imago superegoiche ed ideali presenti, o meno, nei singoli e nel gruppo.
Un dialogo interno e un giudizio, inteso sia come stima che proviene dall’esterno, sia come autostima, esiste anche nell’altro versante: quello apparentemente solo cognitivo.
Infatti già dall’inizio, allorché il soggetto che sta per pre\disporsi ad apprendere, egli lo fa entrando in rapporto con quell’oggetto inanimato che è la materia, il contenuto dell’apprendimento già “fomentato da una fantasmatica” che è nei contenuti (Mottana, p.161), e che lo è sia in termini socio-specifici che personali.
In termini socio-specifici poiché ogni società presenta una “dirimenza specifica” dei contenuti, cioè un modo socio-specifico di valutarli e di disporli all’interno di una gerarchia di valori, di investimenti, di desideri, in base al quale poi si determinano le motivazioni sociali che spingono, o meno, nella direzione di quel contenuto.
In termini individuali poiché, all’interno della più o meno ampia banda di possibili elementi dell’apprendimento investiti positivamente dalla società, si determinano poi, mano a mano che il soggetto cresce le proprie vocazioni e le proprie idiosincrasie, e perché nel concreto e quotidiano rapporto con i contenuti, con la propria produzione, nel lavorio interno di sopportazione dello scarto fra prodotto effettivo e capolavoro immaginato nel momento dell’ideazione del compito (Jaques) delle elaborare in continuazione il lutto per la mancata nascita del capolavoro, ed accontentarsi del monstruum che il lavoro effettivo risulta nel momento in cui viene confrontato idealmente con quello progettato.
Tutto questo versante affettivo, tutta questa “folata estremamente eterogenea di affetti” (Mottana, p.163) che si riversa sui contenuti non solo non risulta ininfluente sul piano dell’apprendimento,  ma confluisce in maniera massiccia, come una vera e propria colata, verrebbe da dire, nella definizione della nostra identità personale, avviandoci verso una vocazione, determinando la nostra identità personale, la nostra sensibilità, oltre che, come è più ovvio, i connotati di fondo della nostra identità professionale.
La posizione che i singoli soggetti presenti sulla scena scolastica e dei docenti innanzitutto, nonché quella di coloro, come i genitori, che occhieggiano ansiosi su di essa alla ricerca di conferme e nel timore di disconferme circa il proprio desiderio proiettato sui figli, è destinata a rendere ancora più ricco e carico di tensioni e di affettività questo reticolo apparentemente mondo di affettività e neutro nel suo cognitivistico procedere.
Afferma Mottana:
 
“Ciò che si vuole sottolineare, insomma, è che, ad onta di tutta l’ingegneria programmatoria dispiegata per produrre la miglior sequenza di apprendimento a partire dal grado oggettivamente (sic[10]) implicito di difficoltà e di coerenza di un certo contenuto disciplinare o di una certa competenza comportamentale, vi è tutto un ambito di affetti, controverso, articolato, ma irriducibile e molto potente che agisce sulla possibilità di apprendere e che è direttamente incorporato nel contenuto di apprendimento, nelle finalità di un corso, nel compito stesso a prescindere da ogni altro aspetto relazionale” (Mottana, p.164)
 
Questi aspetti legati al rapporto del soggetto che apprende con l’oggetto inanimato dell’apprendimento, cioè col compito, con la materia, completano il quadro del giudizio e lo rendono, diciamo così, bifronte. Laddove, però, fra il primo corno del giudizio, quello proveniente dal rapporto con gli altri soggetti presenti ed occhieggianti sulla scena scolastica e con se stessi, ed il secondo, di cui abbiamo appena parlato, si determina un intreccio che rende sempre molto mobile il giudizio, a meno che le imago parentali precedentemente introiettate non finiscono con l’ottundere ogni cosa e con il  riproporre in maniera monotona sempre la stessa scena giudicante, crudele e svalutante, irridente e sostanzialmente disperata.
 
 
Bibliografia
 
  • Angelini L., Il modello istituzionale, in: Angelini L. e Bertani B., Setting riabilitativi con gli adolescenti handicappati, Usl N.9 di Reggio Emilia, 1992, pp.97-106
  • Bauleo A., Ideologia, gruppo e famiglia, Feltrinelli, Mi, 1978
  • Devereux G., b, Le pulsioni cannibaliche nei genitori, in :op, cit., Armando, Roma 1978, pp.139-154
  • Filloux J., Le posizioni dell'insegnante e dell'adulto nel campo della pedagogia, in: AA.VV., Desiderio e fantasma in psicoanalisi ed in pedagogia, Armando, Roma 1981
  • Fraiberg S., Anni magici, Armando, Roma, 1970
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  • Goffman E., Asylums, Einaudi, 1968
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  • Käes R., Quattro studi sulla fantasmatica della formazione e sul desiderio di formare, in: AA.VV., Desiderio e fantasma in psicoanalisi ed in pedagogia, Armando, Roma 1981
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  • Mottana P., Formazione ed affetti, Armando, Roma 1993
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  • Sandler J., Rosenblatt B., Il concetto di mondo rappresentazionale, in Sandler J.et al., La ricerca in psicoanalisi, Boringhieri, Torino, 1980, 1° Vol., pp.102-140
  • Snow C., Le due culture, Feltrinelli, Milano, 1975
  • Winnicott D. W., Le influenze del gruppo e il bambino disadattato: la scuola, in: Winnicott D. W., Il bambino deprivato, R. Cortina, Milano, 1986
 
 

[1]  O almeno, come sottolinea la Filloux, questa è l’impressione che i singoli dicenti hanno, in base (anche) alla natura dei propri introietti personali, e che il gruppo dei discenti, ha, in base - come vedremo meglio fra un po’ - a vari elementi riconducibili alla storia del gruppo stesso, ai fantasmi gruppali che in esso si sono sedimentati, etc.-
[2] Cerimonie che - in questo non sono d’accordo con Mottana - non è vero che non conducano ad “alcun apprendimento dall’esperienza affettiva”, poiché anzi, proprio come Goffman ha dimostrato, conducono all’emergere, sulla scena di quella che diventa in questo modo una istituzione totale, di giochi affettivi di tipo perverso che si risolvono in un apprendimento, che nasce in  proprio in questo clima affettivo e che conduce alla spersonalizzazione ed a un impoverimento del Sé che è tanto più grave quanto più alto è il tasso di istituzionalizzazione perseguito dallo staff, e quanto più a lungo l’internato abbia la ventura di trovarsi in questa condizione alienante. In proposito cfr. anche: Angelini, 1992a. Ricordiamoci in ogni caso che l’analisi di Goffman non era circoscritta solo a luoghi quali carceri, manicomi, etc., ma anche a situazioni, come quella scolastica, che, qualora si verifichino determinate condizioni, o ne vengano meno altre, possono - diciamo così - cambiare anima.
 
[3]  Semmai rimandiamo il lettore al bel lavoro di Mottana, ed in particolare al secondo capitolo della terza parte di quel testo.
[4]  Vedi 4° capitolo del testo di L. Angelini, Affabulazione e formazione. Docenti e discenti come produttori e fruitori di testi, Unicopli, Milano, 1998, da cui anche questo scritto è tratto
[5] che, come vedremo nel terzo paragrafo, variano a seconda di un insieme di fattori sociospecifici
[6] Vedi la galleria di profili di insegnante, spassosa, ma anche molto ansiogena per i docenti, che in essa possono vedere uno spaccato di come i discenti alla fine possono arrivare a rompere l’incanto del luogo educativo, ed a dire verità sgradevoli che, pure, nonostante tutti gli sforzi dissimulatori, ogni giorno traspaiono dai loro comportamenti reali, e perciò limitati.
[7]  In effetti un momento finale non c’è mai poiché i personaggi interni introiettati sono in un continuo contatto sia, come abbiamo già detto, con le altre componenti interne del soggetto, sia con la realtà esterna e, in forza di queste coniugazioni multiple, sono sottoposte ad una continua opera di levigamento, che è parte non piccola della crescita personale del soggetto.
[8]  Personaggi che, ricordiamolo ancora, non sono il prodotto di una semplice operazione di travaso, ma di assimilazione e di metabolizzazione di ciò che viene dai genitori.
[9] Per un approfondimento delle ragioni storiche che istituiscono la scuola in questo modo e non in un altro, vedi il 1° Cap. dell’appendice del testo di L. Angelini, Affabulazione e formazione. Docenti e discenti come produttori e fruitori di testi, Unicopli, Milano, 1998, da cui anche questo scritto è tratto.
[10] il 'sic' è di Mottana, non mio.
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