LA VOCE DELL'INDICIBILE
I suggerimenti della rêverie degli Artisti
di Sabino Nanni

Baudelaire, Roth: l'illusione dell'Eros ed il Tempo

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13 ottobre, 2017 - 08:22
di Sabino Nanni
Che il tempo sia nostro nemico è un concetto che appartiene al senso comune e che percorre tutta la storia della mitologia e della letteratura. Crono, la personificazione mitologica del tempo, divorava i suoi figli. Tra i poeti, Baudelaire fu sensibile a questo tema:
O douleur ! o douleur ! Le Temps mange la vie, / Et l’obscur Ennemi qui nous ronge le cœur / Du sang que nous perdons croît et se fortifie !” (o dolore, o dolore, il tempo mangia la vita / e l’oscuro nemico che ci corrode il cuore / col sangue che perdiamo cresce e si fortifica) [1, pag. 28].
Il tempo corrode, divora, corrompe il nostro corpo e la nostra mente. Di quest’ultima, se siamo abbastanza sani, possiamo salvare soltanto un’area che resta sempre uguale a se stessa: è quel nucleo del nostro essere grazie al quale ciascuno può riconoscere se stesso, anche nel ricordo di tempi in cui il suo corpo e il resto della sua mente erano completamente diversi dagli attuali. In quest’area si colloca il primo nucleo originario di ciò che costituisce la dimensione ideale della nostra vita: le ambizioni, le attitudini, le mete ideali (queste ultime legate a valori “imperituri”) specifiche per ognuno di noi. Si tratta di ciò che Kohut definisce il “Sé nucleare”: la struttura che definisce ciascuno come lui stesso e nessun altro [3, pag. 135]. Se tale struttura è danneggiata, o si è formata in modo imperfetto, ciò dà luogo a innumerevoli comportamenti patologici (ma anche “normali”) il cui scopo è “fermare il tempo” in modo illusorio e artificioso: il contatto costante del paziente autistico con oggetti e situazioni che non devono mai cambiare; gli immutabili rituali dell’ossessivo; l’incontro periodico del tossicodipendente con la droga (anche questo immutabile), le stereotipie dello schizofrenico, ecc., ma anche il rigido attaccamento di certe persone “normali” alle proprie abitudini. Ecco perché il trattamento di tali persone non può considerarsi completo se non si è provveduto (nei limiti del possibile) a riparare i danni del “Sé nucleare” tramite il rapporto terapeutico. In mancanza di ciò, il paziente, con le sue fragili difese, è pericolosamente esposto alle insidie del peggiore nemico di noi mortali: il tempo; un nemico che possiamo vincere solo appoggiandoci a ciò che di imperituro esiste in noi.
Molto è cambiato nella nostra cultura da quando, nel 1929, Freud pubblicava “Il disagio della civiltà” [2]. In quell’opera, il padre della psicoanalisi descriveva il conflitto fondamentale tra natura e cultura: quello tra la vita pulsionale e la dimensione più propriamente umana, fatta di valori ideali etici, civili e religiosi. In passato, era proprio a questi valori (interiorizzati nell’Ideale dell’Io, o porzione ideale del Sé) che l’uomo si appoggiava per trovarvi qualcosa d’imperituro, che si opponesse all’azione corrosiva del tempo, oltre che qualcosa che gli permettesse d’accettare il “sacrificio pulsionale” che la civiltà esige. Negli ultimi anni, il nostro sistema di valori tradizionale è entrato in crisi, mentre la “rivoluzione sessuale” degli anni ’60 ha esaltato il libero soddisfacimento delle pulsioni, facendo di esso stesso un “ideale”. Questo, tuttavia, nell’esistenza individuale non può propriamente considerarsi “imperituro”: con l’avanzare dell’età, le pulsioni erotiche s’affievoliscono, la capacità di attrarre un/una partner tende a scomparire, i nostri occhi restano sempre più “muti all’altrui core”. L’Eros, se assunto come ideale di vita, si rivela incapace di fornire una risposta ai problemi esistenziali sollevati dall’inevitabile declino e dall’avvicinarsi della morte: esso, più che un “valore imperituro”, finisce per essere uno dei tanti modi illusori e ingannevoli di fermare il tempo, una difesa maniacale, una fuga dalla realtà.
Su questo tema, lo psichiatra-analista americano Howard B. Levine, ha scritto un saggio [4], di cui qui sotto produco un compendio ed un breve commento. In esso, partendo dai suggerimenti offerti da due opere dello scrittore Philip Roth, si tratta del carattere illusorio dell’Eros come risorsa di fronte alla tragedia del declino senile e della morte.  

        
 
In “L’animale morente” [5] e in “Everyman” [6], Roth affronta il tema della fase finale della vita, in cui le difese maniacali legate al piacere sessuale iniziano ad indebolirsi, insieme al vigore ed al potere dell’individuo. Le due opere offrono preziosi suggerimenti riguardo a ciò che concerne il conflitto tra impegno affettivo e libertà, a quello tra realtà e illusione, ed al ruolo giocato dalla sessualità nel tentativo di sfuggire all’inevitabilità del declino e della morte.
Il protagonista de “L’animale morente” David Kepesh, fin dall’epoca della rivoluzione sessuale, ha abbandonato la famiglia cercando la via dell’emancipazione. Sulla sessantina, s’invaghisce perdutamente della ventiquattrenne Consuela Castillo, un’esule cubana appartenente ad una famiglia abbiente e colta. Egli cede all’attrazione sessuale che la ragazza esercita su di lui, pur conoscendo i rischi di un coinvolgimento erotico: la lussuria è, per sua natura, non convenzionale, sregolata, indomabile, e proprio in questo risiede la sua potente attrattiva per Kepesh. Pur avendo presente tale pericolo (o forse proprio per questo), quest’uomo anziano sente di non aver altra scelta che coinvolgersi sempre più nel rapporto con Consuela, spinto in parte dalla consapevolezza del tempo limitato che gli rimane:
“Ma come fai, quando hai sessantadue anni e credi ormai di non avere più diritto a qualcosa di tanto perfetto?... Come fai quando hai sessantadue anni e ti accorgi che tutte quelle parti del corpo che fino ad allora erano invisibili (reni, polmoni, vene, arterie, cervello, intestini, prostata, cuore) cominciano a rendersi angosciosamente manifeste, mentre l’organo più cospicuo (vistoso) in tutta la tua vita è destinato a ridursi in niente?” [5, pag. 26]
Così Kepesh decide di gettarsi ancora una volta nel caos della lussuria, pur sapendo che cosa il rapporto con Consuela non potrà dargli:
“Non fraintendetemi, Non è che, grazie a una Consuela, tu possa illuderti di poter avere un’ultima iniezione di giovinezza. Mai come in questo momento senti la distanza che ti separa dalla giovinezza. Nella sua energia, nel suo entusiasmo, nella sua giovanile ignoranza, nella sua giovanile sapienza, questa distanza è drammatizzata ogni momento…Lungi dal sentirti giovane, senti tutta l’ampiezza del suo futuro illimitato contrapposto al tuo futuro limitato, senti – più ancora di quanto fai di solito – l’intensità di ogni ultima grazia perduta.” [5, pag. 26, 27]
La passione del protagonista per Consuela lo pone di fronte alla realtà della vecchiaia. Ciò suscita in lui una possessività tormentosa:
“Io come faccio a catturare Consuela? Il pensiero è mortalmente umiliante, eppure esiste… in quale modo puoi tenerti una donna alla mia età?... Questo è il momento in cui comincia la pornografia. La pornografia della gelosia. La pornografia della propria distruzione. Io sono rapito, sono estasiato, ma sono estasiato fuori della cornice. Cos’è che mi estromette? È la vecchiaia. La ferita della vecchiaia… La comune pornografia… elimina il tormento: … “anestetizzazione” [del tormento]…Tu desideri la ragazza del film porno, ma non sei geloso di chi scopa perché lui diventa il tuo sostituto… tu sei un complice invisibile nell’atto… Nella mia pornografia, tu t’identifichi non col saziato, con la persona che lo fa, ma con la persona che non lo fa, con la persona che lo perde, con la persona che ha perduto” [5, pag. 31, 32]
Kepesh s’identifica con la persona “che perde” poiché il problema che gli si sta ponendo, e che esige d’essere affrontato, è appunto quello della perdita: perdita della gioventù, della vitalità e, in definitiva, della vita stessa. Mentre la paura di perdere Consuela, perché conquistata da un uomo giovane, è realistica e concreta, questo dramma del triangolo ha anche un altro significato. Si tratta della gelosia della giovinezza, della coscienza dell’inevitabilità della perdita e del dover cedere alle prossime generazioni tutto ciò che apprezziamo e possediamo, la nostra stessa vita. Kepesh non vuole solo Consuela, vuole la sua giovinezza, il sentimento giovanile di orizzonti illimitati che non gli sarà mai restituito:
“Dov’è l’appagamento, dove il senso del possesso? Se tu l’hai, perché non puoi averla? Non riesci ad avere ciò che vuoi nemmeno quando riesci ad avere ciò che vuoi. Non c’è pace in questa storia, e non ci può essere, per la differenza di età e l’inevitabile dolore straziante” [5, pag. 30]
A dispetto di questa consapevolezza, Kepesh si sente costretto a proseguire nella relazione, a causa dell’imperioso bisogno di mantenere una vita sessuale attiva. Sull’importanza vitale del desiderio sessuale e il suo inevitabile affievolirsi in un rapporto matrimoniale di lunga durata, Kepesh così sostiene:
“No, gli uomini[che si accingono a sposarsi] non sanno niente – o agiscono deliberatamente come se non sapessero – del lato duro, tragico, della situazione in cui si mettono. Nel migliore dei casi pensano stoicamente: “sì, capisco che in questo matrimonio prima o poi dovrò rinunciare al sesso, però lo faccio per avere altre cose più preziose”. Ma capiscono a che cosa rinunciano? Essere casti, be’, come digerirai le sconfitte, i compromessi, le frustrazioni? Guadagnando tutti i soldi che puoi? Facendo tutti i figli che puoi? Questo aiuta, ma è niente rispetto all’altra cosa. Perché l’altra cosa si radica nel tuo essere fisico, nella carne che nasce e nella carne che muore. Perché solo quando scopi riesci a vendicarti, anche se solo per un momento, di tutto ciò che non ami nella vita e di tutte le cose che nella vita ti hanno sconfitto. Solo allora sei più nettamente vivo e più nettamente te stesso. La corruzione non è il sesso: è il resto. Il sesso non è semplice frizione e divertimento superficiale. Il sesso è anche la vendetta sulla morte. Non dimenticatela, la morte. Non dimenticarla mai. Sì, anche il sesso ha un potere limitato. Ma dimmi, quale potere è più grande?” [5, pag. 51, 52]
Che il sesso sia “una vendetta sulla morte” è una chiara espressione del conflitto tra Eros e Thanatos. Si tratta di una lotta tra due forze titaniche, ma di una lotta impari, in quanto la morte è destinata a prevalere. Benché ciascuno di noi si sforzi di sottrarsi a questa consapevolezza, allo scopo di preservarci uno spazio in cui vivere, non ci si può illudere del tutto che la realtà sia quella che vorremmo.
L’interesse di Consuela per Kepesh è di tipo diverso. Si tratta della curiosità giovanile e del piacere di scoprire quanto sia forte il potere della propria bellezza:
“Cos’è un ragazzo che si arrende al suo potere, per una creatura tanto desiderabile? Ma avere quest’uomo di mondo che cede alla forza irresistibile della sua gioventù e della sua bellezza? Avere conquistato il suo totale interesse, essere diventata la passione divorante di un uomo che in ogni altro campo le sarebbe inaccessibile, entrare in una vita che ammira e che, diversamente, le sarebbe preclusa… Questo è il potere, ed è il potere che lei vuole” [5, pag. 25, 26].
Consuela e Kepesh, sia pure in diverse forme, cercano entrambi una forma di potere nel loro rapporto. Se Consuela gusta il potere d’aver accesso al mondo degli adulti affermati, Kepesh cerca, almeno nel momento dell’amplesso, di condividere la vivacità e il vigore sessuale della giovinezza, ossia un’effimera illusione di annullamento del tempo, della vecchiaia e della morte. Si tratta, per lui, di una forma di dominio sull’inesorabile trascorrere della vita. In entrambi, il potere è legato al piacere perverso di oltrepassare il confine tra le generazioni; confine che la cultura, fin dai tempi più antichi, ha interdetto e reso invalicabile. Dato il carattere illusorio di tale potere, troviamo qui anche un’illustrazione del conflitto tra principio di piacere e principio di realtà.
Nella visione del mondo di Roth, le limitazioni della vecchiaia e la morte incombente finiscono per prevalere; indipendentemente dal coraggio con cui possiamo lottare contro di esse, la nostra battaglia è destinata alla sconfitta. Ci si può chiedere se Roth possa aver trovato consolazione nell’immortalità della sua creazione artistica. Tuttavia, per Kepesh c’è poco sollievo nella sublimazione. È, per lui, solo l’Eros che può lenire il dolore delle fasi avanzate della vita, con le crudeli perdite che esse comportano, che può arrestare il tempo. Ciò, tuttavia, può avvenire solo per un momento; “ma che momento!”, potrebbe dire il protagonista del romanzo.
Anche se l’Eros è destinato alla sconfitta, Roth ha molto da dirci, per voce di Kepesh, riguardo alla sua natura. Ciò che rende il desiderio desiderabile ha le sue radici nell’interscambio di dominio e di sottomissione:
[ciò che costituisce il fascino, l’attrattiva deliziosamente destabilizzante dell’Eros] “…è un tornare nella foresta…uno scambio di dominio, uno squilibrio perenne, ecco di che si tratta. Vuoi escludere il dominio? Vuoi escludere la resa? Il dominio è la pietra focaia, fa sprizzare la scintilla, avvia il meccanismo” [5, pag. 16]
E il dominio è reciproco:
“Il dominio non è oggetto di uno scambio sequenziale; è oggetto di uno scambio continuativo. Non è tanto uno scambio, quanto un intreccio” [5, pag. 26]
Non è solo Kepesh a dominare le donne che si porta a letto, ma anche queste scoprono in sé il potere inebriante di oltrepassare i confini dei propri presunti limiti, entrando in un territorio finora irraggiungibile e proibito. Il dominio e la sopraffazione pervadono la sessualità più sfrenata. In questo possiamo ravvisare il riemergere dell’atteggiamento primitivo, animalesco, che caratterizza la dimensione pulsionale. I limiti stabiliti dalla civiltà vengono momentaneamente violati. La belva primitiva emerge anche nell’educata e raffinata Consuela. Roth descrive la trasformazione della ragazza in risposta all’atto brutale di Kepesh di costringerla ad un coito orale. Allontanandosi da lui, Consuela digrigna i denti e fa come il gesto di azzannarlo:
“Era come se dicesse: Ecco che cos’avrei potuto fare, ecco che cosa volevo fare e non ho fatto” [5, pag. 24].
Kepesh così commenta:
“Finalmente una reazione schietta, incisiva, primordiale da parte di quella ragazza, così classicamente bella e sempre così controllata. Fino ad allora tutto era stato dominato dal narcisismo, dall’esibizionismo, e … malgrado l’audacia, era stranamente inerte [poi venne] quel morso liberatore che la sottrasse alla propria sorveglianza e la introdusse in quel sogno sinistro… Tutta la verità dell’amore. La ragazza istintuale che rompe non soltanto il contenitore limitante della propria vanità, ma anche la prigione della sua accogliente famiglia cubana. Questo fu il vero inizio del suo dominio: il dominio cui l’aveva iniziata il mio dominio” [5, pag. 25]
Qui il Sé grandioso esibizionistico della ragazza, sostenuto dalla sua raffinata educazione in una famiglia di esuli cubani colti e abbienti, cede allo sprigionarsi di una vita pulsionale primitiva, sensuale e violenta.
Dopo aver (inutilmente) cercato di lottare, usando il sesso, contro i danni devastanti della vecchiaia e della mortalità, dopo aver terribilmente sofferto per la perdita della sua giovane amante, Kepesh, ora settantenne, si trova di fronte ad una nuova sfida: gliela pone, ancora una volta, Consuela. Alla ragazza è stato diagnosticato un cancro al seno, ed ella ritorna da lui, alla vigilia della sua mastectomia, chiedendogli conforto, sostegno, ed un impegno affettivo. Ciò inasprisce, nell’uomo, il suo conflitto. Nel periodo successivo alla rottura con Consuela, quando Kepesh provava una terribile nostalgia di lei, egli iniziò a pensare che ciò che desiderava così ardentemente fosse proprio quell’attaccamento affettivo che aveva cercato d’evitare in tutta la sua vita adulta. Che cosa, si chiede, desiderava veramente?
“La sue tette? La sua anima? La sua semplicità? Forse è peggio di così: forse, ora che mi sto avvicinando alla morte, anch’io segretamente desidero di non essere libero” [5, pag. 78]
È questo ciò che teme tanto e segretamente desidera? Appartenere, possedere, il che significa essere esposto al pericolo della perdita. L’illusione di un soddisfacimento pulsionale “puro” (che renda le partner intercambiabili, e non implichi il rischio della perdita) è ormai svanita; ora Kepesh, uscito dal territorio dell’Eros, è ripiombato in quello del tempo e della realtà, ed egli soffre i tormenti (the slings and arrows) dell’inevitabile. Al ritorno di Consuela, la posta in gioco è del tutto cambiata:
“Non avrei potuto andare a letto con lei (…) capii che la sua non era più una vita sessuale. Quella che era in gioco era un’altra cosa” [5, pag. 98, 99].
Ora che il corpo della ragazza contiene un cancro, questo spietato messaggero di morte, il suo potere erotico è perso per sempre per il suo vecchio amante.
“… ora Consuela conosce la ferita dell’età. Invecchiare è una cosa inimmaginabile per chi non è vecchio, ma per Consuela non è più così. Lei non misura più il tempo come fanno i giovani, segnandolo all’indietro fino al giorno da cui sei partito. Il tempo per i giovani è sempre fatto di ciò che è passato, ma per Consuela il tempo, adesso, è quanto le rimane del futuro, e secondo lei non sarà tanto… È crollata l’illusione…” [5, pag. 107, 108]

L’illusione è quella in cui noi tutti viviamo, quella che ci preserva dalla disperazione, finché capita qualcosa, come succede a Consuela:
“In ogni persona calma e ragionevole si nasconde un’altra persona che ha una paura folle della morte, ma per una ragazza di trentadue anni il tempo tra Ora e Allora è di solito così vasto, così sconfinato che forse non accade più di due volte l’anno, e solo per qualche attimo e a notte fonda, che si arrivi a incontrare quell’altra persona, e proprio nello stato di follia che dell’altra persona è la vita quotidiana” [5, pag. 111]
Alla fine del libro, Kepesh e il lettore sono lasciati nell’incertezza: cosa deciderà il protagonista? Sacrificherà il suo stile di vita, fatto di fuga ipomaniacale nell’Eros, per entrare in contatto con un altro essere umano, per offrirgli e riceverne consolazione (Consuela = consolare), oppure rimarrà arroccato nel suo piacere carnale, lottando contro realtà e mortalità fino alla fine? Il libro si conclude con una discussione tra Kepesh ed un interlocutore ignoto (l’autore? il lettore? Kepesh stesso?) sull’opportunità di rispondere al richiamo di Consuela, e correre al suo capezzale per confortarla:
Kepesh: “devo andare… qualcuno deve restare con lei… È terrorizzata. Io vado” Interlocutore: “Pensaci, rifletti. Perché se ci vai, sei finito” [Ra, pag. 113].
 Se Kepesh ha ancora una possibilità di scelta (restare o no aggrappato all’illusione, ossia alla fuga dalla realtà del declino e della morte tramite l’Eros), il protagonista di Everyman ne è privo: qui la scelta la fanno la vita e il tempo nel loro movimento inesorabile verso la morte. Kepesh sembra intenzionato, per sua decisione, ad accettare il legame affettivo con Consuela (che, come tale, implica la possibilità della perdita), mentre il protagonista di Everyman non ha né la consolazione di un affetto (con l’eccezione della figlia che, però, ha inevitabilmente preso la sua strada nella vita), né più di una fuga nell’Eros. Everyman è un uomo comune; nel suo conformismo (privo, come vuole lo spirito del tempo, di forti valori ideali), ha cercato di condurre una vita quasi “normale”. Egli non ha fatto dell’erotismo una sua ragione di vita (c’è stata solo un episodio di lussuria che, però, ha pagato con la disintegrazione della sua famiglia), e sopravvive traendo la sua forza da uno stoico sentimento di rassegnazione. La sua massima, citata dalla figlia Nancy, è:
“È impossibile rifare la realtà… devi prendere le cose come vengono. Tener duro e prendere le cose come vengono” [6, pag. 7].
Il titolo “Everyman” è tratto da uno spettacolo teatrale medievale, la cui morale è che i beni terreni non contano, e la salvezza può provenire solo dalla grazia divina, ottenuta con pentimento, preghiere e buone opere. Roth ha scelto questo titolo per sottolineare la radicale differenza tra l’uomo del passato e quello di oggi: qui non c’è più salvezza, ma solo un inevitabile declino che si conclude con la fine di tutto.
Il tempo, con il suo inesorabile procedere, pare essere il vero protagonista del romanzo. Everyman vive immerso nei ricordi del negozio del padre, gioielliere e orologiaio. La sua vita è pervasa dall’attrazione per gli orologi (la misura del tempo cronologico, sempre in contrasto con quello soggettivo) e per i diamanti, che derivano il loro fascino dal loro essere indistruttibili, imperituri, al di fuori del tempo:
“Oltre alla bellezza, il prestigio ed il valore, il diamante è indistruttibile. “Indistruttibile” era una parola che amava assaporare” [6, pag.80].
Quando una relazione extra-coniugale di tipo lussurioso sta per porre fine al suo matrimonio, finora felice, Everyman è colto da un dubbio fugace:
“Solo di sfuggita gli sovvenne che poteva essere illusorio pensare, a cinquant’anni, di poter trovare un buco che sostituisse tutto il resto” [6, pag. 78].
La parola “buco” significa, qui, tanto un orifizio che procura piacere sessuale, quanto il simbolo del vuoto, dell’assenza, del nulla, ossia della morte. Nella sua polisemia, tale termine sta a significare una cosa e il suo opposto: la cosa più temuta, e ciò verso cui ci si volge nel tentativo di sfuggire alla paura. Il tema della perdita e dell’assenza ritorna quando Roth descrive la fine del matrimonio di Everyman. Uno dei motivi che l’aveva spinto verso una relazione extra-coniugale era stato la cessazione dei rapporti sessuali con la moglie. Everyman s’accorge che il sesso è qualcosa di cui non può “fare a meno”. Così la moglie commenta questo fatto:
“Tutti questi episodi sono ben noti…L’uomo perde la passione per il matrimonio e non può farne a meno… La moglie è realistica. Sì, la passione se n’è andata… ma per lei è sufficiente… essere lì a letto con lui, lei che lo abbraccia, lui che abbraccia lei… la tenerezza, la solidarietà, la vicinanza. Ma lui non può accettarlo. Perché è un uomo che non può farne a meno. Be’, ora dovrai farne a meno, caro mio, altroché se dovrai “fare a meno” [6, pag. 84].
“Fare a meno”: è questo, essenzialmente, ciò contro cui combattiamo man mano che la vita procede, ognuno a modo suo. Si tratta degli inesorabili assalti al nostro narcisismo, le inevitabili perdite, con la necessità di sottostare agli imperativi del principio di realtà. La moglie di un amico di Everyman, deceduto da poco, gli dice:
“La vecchiaia è una battaglia, caro, se non per un motivo, per un altro. È una battaglia inesorabile, e proprio quando sei più debole e meno capace di fare appello alla tua combattività” [6, pag. 98].
È proprio ripensando a queste parole che il protagonista del romanzo conclude:
“La vecchiaia non è una battaglia: la vecchiaia è un massacro” [6, pag. 106].
Everyman, a differenza di Kepesh, è in una fase della vita in cui ogni illusione deve essere definitivamente abbandonata. Ciò risulta chiaro in una scena in cui l’anziano protagonista, affascinato da una splendida ragazza che fa jogging sul lungomare, trova il coraggio di fermarla:
“Egli disse: “L’ho notata fare jogging” Lei lo stupì rispondendo: “Avevo notato che mi aveva notato”. “Mi chiedevo se è una che ci sta” si sentì dire lui, ma pensando che l’incontro gli era ormai sfuggito di mano… “Che intenzioni ha?” rispose la ragazza audacemente. E ora?... Trent’anni prima non avrebbe dubitato dell’esito di quel corteggiamento, nonostante la giovane età della ragazza, e la possibilità di un umiliante rifiuto non gli sarebbe mai venuta in mente. Ma scomparso era il piacere di quella sicurezza, e con esso l’avvincente giocosità dello scambio. Fece del suo meglio per nascondere l’ansia, e l’impulso di toccare, e il desiderio irresistibile che gli dava un corpo come quello… e la futilità di tutto questo, ed il suo essere del tutto privo di significato…”[6, pag. 90, 91, 92]
Il desiderio irresistibile, la futilità, l’assenza di significato, e la consapevolezza di quel che un tempo c’era e che non sarà mai più: poco prima, Everyman aveva espresso tutto questo con questa disperata considerazione:
“Mio Dio… che uomo ero una volta! Che vita avevo intorno! Che forza avevo dentro!... Un tempo ero completo: ero un essere umano” [6, pag. 89].
Al che, il Kurz di “Cuore di tenebra” avrebbe risposto: “L’orrore! L’orrore!”
 

Bibliografia
1.   Baudelaire Charles (1861) Les fleurs du mal (Garzanti 1981)
2.   Freud Sigmund (1929) Il disagio della civiltà (O.S.F. Vol.10 - Boringhieri  1978)
3.   Kohut Heinz (1970 circa) On courage (The search for the self. Selected writings of Heinz Kohut 1978 - 1981 Vol. 3 – International Universities Press - 1990)
4.     Levine Howard B. (2008) Mortal combat: the tragic vision of Philip Roth (Journal Amer. Psychoanal. Assn. Vol.56, N° 1, pag. 283)
5.     Roth Philip (2001) L'animale morente (Einaudi 2002)
6.     Roth Philip (2006) Everyman (Einaudi 2007)

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"Fare ameno" (sic) del sesso!

"fare a meno" del sesso, e non solo di quello: fare a meno, in ultima analisi, della vita.Come poterlo accettare, quando si è legati al materialismo, ed i valori ideali tendono a divenire sconosciuti?


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