Commento a “L’Uomo dei Lupi” di Sigmund Freud OSF, vol. 7, pp. 483-593

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29 dicembre, 2017 - 11:00
1.
 
         Il caso clinico dell’Uomo dei Lupi è un testo scritto in modo davvero eccellente, e che esercita una grande seduzione sul lettore. Eppure oggi è chiaro che è il meno convincente tra i casi clinici pubblicati da Freud. E questo non solo considerando quel che sappiamo della storia di Sergei Constantinovic Pankejeff (1887-1979) dopo la sua analisi con Freud. Il punto è che questo caso clinico, ancor più di altri, si presta non solo alle confutazioni, ma alle derisioni dei Freud bashers, di chi critica radicalmente l’approccio di Freud in quanto non fondato su alcuna prova oggettiva, su alcun protocollo basato sulle metodologie storiografiche o scientifiche più condivise.
Eppure, questo caso più di altri ha ispirato romanzi e film che usano l’indagine psicoanalitica come una variante di detective story. Qui Freud cerca di ricostruire quel che lui chiama scena originaria (Urszene) – la scena del coito dei genitori vista dal bambino – in uno stile da romanzo poliziesco. In effetti Freud non si limita a ricostruire (come tende a fare la psicoanalisi di oggi) fantasie o vissuti del soggetto attuale o del bambino che era: pretende rintracciare, attraverso un sogno e ricordi di quando il soggetto era bambino, un evento reale – proprio come il detective. Questo evento ricostruito sarebbe:
 
Sergei all’età di un anno e mezzo avrebbe assistito a un coito a tergo dei genitori alle cinque di un pomeriggio d’estate, e che egli avrebbe interrotto questo coito con una defecazione…
 
Ma quale giudice inquirente oggi potrebbe mai accettare come prove quelle portate da Freud? Anche nel caso si sia molto ben disposti nei confronti della psicoanalisi, il modo in cui Freud pretende di dimostrarci l’evento reale di cui sopra oggi non ci convince affatto. Appare evidente che Freud si era innamorato, fin troppo, dell’idea per cui il suo paziente avrebbe davvero assistito a quel coito: ragion per cui forza tutti gli scarsi elementi a sua disposizione in modo da sostenere questa idée fixe. E questo a dispetto del fatto che, come ha sostenuto poi Pankejeff in interviste tardive, è del tutto improbabile che egli abbia potuto assistere a questa scena: all’epoca, in una famiglia nobile come la sua, i bambini non dormivano mai nella stanza dei genitori, nemmeno quando erano ammalati.
         Da qui a concludere che Freud, in casi come questo, deliri più dei suoi pazienti, il passo è breve. Del resto lo stesso Freud se ne rende conto, quando scrive:
 
Eccomi giunto a un punto in cui debbo abbandonare l’appoggio fornitomi sinora dal corso dell’analisi. Temo che sia anche il punto in cui il lettore mi ritirerà il suo credito[1].
 
E’ vero, oggi pochi lettori accurati sono disposti a dargli credito. Quindi, l’Uomo dei Lupi discredita Freud? E con lui, se non tutta, comunque buona parte della psicoanalisi? La sua mancanza di rigore storico mette a nudo le basi fragili della psicoanalisi?


 
 
2.
Nella sua analisi del caso, Freud usa spesso il termine Konstruktion, costruzione: termine ambiguo, in quanto può significare sia “costruzione” che “ricostruzione”. Si dà il caso che questi due sensi però siano del tutto divergenti: chiamiamo ricostruzione – ad esempio, di un delitto – un tentativo ipotetico di raccontare i fatti così come si sono svolti; chiamiamo invece costruzione un racconto inventato. Un evento storico si ricostruisce, un romanzo si costruisce. Ma allora, Freud qui intendeva ricostruire la storia di una nevrosi infantile o costruire un romanzo biografico?
Freud sembra dirci che lui intendeva fare risolutamente la prima cosa, eppure sintomaticamente preferisce il termine Konstruktion – qui, come spesso accade, la scelta delle parole dice di più di quel che l’autore crede di dirci. Del resto, una corrente psicoanalitica, oggi molto influente in Occidente, sulla scia dei lavori di Roy Shafer si dice “narratologica”: ovvero opta decisamente per una visione “costruttiva” della psicoanalisi, nel senso che l’analista non deve curarsi affatto della verità oggettiva dei fatti storici. Secondo questa concezione, l’analista e il suo analizzante non sono molto diversi da una coppia di scrittori o artisti: a questi non si chiede che ricostruiscano la verità letterale dei fatti, ma che ci comunichino il senso più vasto di una verità che una cronaca storica non potrà mai darci. Del resto, un’antica tradizione occidentale pensa che l’invenzione estetica sia più profonda e vera della ricostruzione storica. Lo diceva già Aristotele in La poetica: per lui la poiésis, la produzione letteraria, era "più filosofica e spoudaiòteron [più elevata, più seria]" della narrazione storiografica. Infatti
 
la produzione poetica (poièsis) dice piuttosto il generale, il racconto storico dice piuttosto il particolare. Generale è a quale tipo tocca dire o fare quei tipi di cose secondo il verosimile o il necessario [...]. Il particolare invece è che cosa Alcibiade fece e che cosa patì.[2]
 
Oltre duemila anni dopo Aristotele, oggi molti analisti pensano che la psicoanalisi funzioni non perché si occupi del particolare, degli eventi contingenti, ma di qualcosa di “generale” nella vita di ciascuno, qualcosa di verosimile e necessario. Così l’analisi è diventata una variante letteraria.
La psicoanalisi, secondo questa corrente narratologica, costruisce nel senso che dà un’immagine persuasiva, più profonda, più felice della vita del soggetto. L’analista sarebbe come quei poeti delle corti del Rinascimento (ad esempio, Ariosto) che scrivevano poemi per illustrare le origini mitiche del principe da cui venivano pagati: occorreva mostrare che la dinastia discendesse da Enea, o da Ulisse, o da Lancillotto… La psicoanalisi sarebbe una sorta di letteratura a effetti terapeutici. L’analisi sostituirebbe a un mito infelice (quello che regge la nevrosi) un mito felice: è un passaggio da mito a mito, non dal mito alla storia. Quanto alla ricostruzione del famoso sogno dei lupi come rievocazione della scena primaria (il coito dei genitori), possiamo vedere questa scena primaria come il sogno di Freud che interpreta il sogno di Sergei: un sogno che dà illusione di realtà a un altro sogno.
         Forse proprio per questo la costruzione di Freud sull’Uomo dei Lupi esercita su di noi un indubbio fascino. Nel senso che essa ci appare, malgrado tutto, alquanto verosimile; come può apparirci molto verosimile solo un’opera d’arte. Non vera, verosimile. Freud è grande, sia come clinico che come scrittore, anche quando chiaramente sbaglia: il caso dell’Uomo dei Lupi ci convince attraverso le viscere. Ci convince come può convincerci la storia di Otello o di Amleto “nel modo generale”, anche se Otello e Amleto come particolari non sono mai esistiti. Aristotele direbbe che Otello, per esempio, è “più filosofico” e “più serio” di qualsiasi altro geloso, Otello è più vero del vero, perché ci illustrerebbe qualcosa di essenziale della gelosia. E’ la storia dell’Uomo dei Lupi “più filosofica, più seria” di tante altre anamnesi psicopatologiche fattuali?
 


 
3.
        
Il modo a dir poco disinvolto in cui Freud ricostruisce la storia del suo paziente va oltre la ricostruzione della supposta scena primaria: impregna tutta la sua analisi-costruzione. Ad esempio, prendiamo il modo in cui costruisce il rapporto di Sergei bambino con la domestica Grusa. Anche qui Freud cerca di ricostruire, inserendo dei pezzi mancanti, come in un puzzle, una scena reale. Sergei ricorda nitidamente che
 
Grusa era inginocchiata, sul pavimento, con accanto un secchio e una corta scopa, fatta di ramoscelli legati insieme; il bambino era là ed essa lo burlava o lo rimbrottava[3].
 
Ogni elemento di questa scena si connette a una rete a un tempo metaforica e metonimica di associazioni. Il nome Grusa, che significa in russo pera, si connette a certe striature gialle di certe pere saporitissime che Sergei ricordava; queste striature a loro volta rimandano a un ricordo di una farfalla striata di giallo (un macaone) che lui inseguiva e che gli aveva dato angoscia una volta che questa farfalla si era posata su un fiore; ecc. In effetti, la rete associativa – aperta in tutte le direzioni, come ogni rete virtualmente è – secondo Freud si addensa in alcuni nodi che annodano, appunto, la vita del paziente. Ora, questi nodi sono rappresentazioni, immagini, non fatti: essi descrivono al massimo delle convergenze di senso, non sono certo tracce di eventi reali. Ma poi Freud ricostruisce il frammento di ricordo di Sergei ipotizzando questa scena reale:
 
Il bambino, guardando la ragazza che lavava il pavimento, aveva urinato nella stanza, e quella aveva perciò pronunciato, certo scherzosamente, una minaccia di evirazione[4].
 
Questa ricostruzione oggi (oggi? ma anche all’epoca molti non ne erano convinti) ci appare del tutto ingiustificata. Nulla nei ricordi di Sergei permette di pensare che il bambino avesse davvero urinato, e tanto meno che il “burlare e rimbrottare” del suo ricordo fossero una minaccia di evirazione da parte della domestica! Tutto questo appare chiaramente parto della fantasia di Freud. Non dico che questa sua costruzione non sia verosimile e che non possa essere vera: dico solo che Freud non ci dà la minima prova per renderla convincente. Pura congettura.
         In effetti, i critici fanno notare che qui Freud, come in altre occasioni, cade nel tipico modo di pensare mitico e superstizioso: egli confonde la verosimiglianza di senso con la traccia di una relazione causale. Non tutto ciò che fa senso è ipso facto ricostruibile come nesso di causa ed effetto. E’ come se, essendo stata uccisa una donna, e sapendo che marito e moglie non andavano d’accordo, se ne traesse subito la conclusione “il marito è l’assassino!” Certo i dissapori tra marito e moglie autorizzano il detective a sospettare il marito, ma non sono certo una prova. Il fatto che le costruzioni di Freud diano un senso verosimile a una rete immaginaria non equivale a prova di un rapporto causale. Ogni autentica ricostruzione storica non mira a dare più senso agli eventi, direi anzi che mira a mettere in questione l’alone di senso che essi spargono: la buona storiografia è un’ascetica sospensione del senso.
         L’errore di fondo di Freud consiste nel pretendere di dare come prove delle interpretazioni. Ora, le interpretazioni sono associazioni soggettive che, in quanto tali, possono illustrare un mondo soggettivo, ma non possono mai pretendere di essere traccia di eventi reali. Questo vale persino per la nostra memoria personale: credo di ricordare perfettamente qualcosa, e poi scopro che invece il mio ricordo era falso, si riferiva ad altri eventi, ecc. Insomma, la mia memoria, in quanto sensazione privata, non dimostra mai veramente le cose che ricordo.
In psicologia della memoria, si ricorda spesso quello che raccontò Piaget. Fino all’adolescenza Piaget ricordava molto bene un incidente: che egli era stato vittima di un tentativo di rapimento per strada, e che la sua bambinaia aveva reagito coraggiosamente salvandolo. Ma più tardi la bambinaia confessò di essersi inventata di sana pianta tutta la storia per avere un premio – eppure Piaget avrebbe giurato di essere stato davvero protagonista di quella scena! Come dimostrano tutte le ricerche, la memoria “costruisce” il passato dandogli il senso voluto, non è mai semplice registrazione di fatti, come una camera cinematografica potrebbe fare. Se quindi non bisogna fidarsi mai della propria memoria, figuriamoci di quella “memoria” metaforica o traslata che sono sogni o interpretazioni.
Come ha mostrato Wittgenstein[5], non esiste veramente linguaggio privato: ovvero, non possiamo parlare delle nostre sensazioni interne come se fossero cose o garanti dell’esistenza delle cose. Questo significa che sensazioni private ed eventi reali non sono due tipi distinti di oggetti, come crede ad esempio la teoria kleiniana: le sensazioni private non sono affatto oggetti. Per questa ragione è impossibile invocare sensazioni private, ad esempio processi di memoria o di fantasia o di rêverie, per dimostrare l’esistenza di qualcosa di esterno. Occorre sempre che ci sia un elemento esterno alla mia sensazione privata, qualcosa di pubblico: non è analizzando o scandagliando la mia memoria o le mie associazioni intime che potrò conoscere un qualche dato di fatto. “Sarebbe – dice Wittgenstein – come uno che, per assicurarsi che una notizia è vera, comprasse molte copie dello stesso giornale”[6]. Proprio questo è l’errore in cui Freud è caduto.
 
 
4.
         Ma allora, occorre cancellare il caso dell’Uomo dei Lupi dal nostro interesse per Freud? E più in generale, dobbiamo togliere credito all’opera di Freud in toto dato che egli tanto spesso, troppo spesso, fa passare delle costruzioni per ricostruzioni? La psicoanalisi è solo una mitologia di successo, come afferma ad esempio Jacques Bouveresse[7] sulla scia di Wittgenstein?
Penso però che troppo spesso i critici della psicoanalisi gettino via il bambino con l’acqua sporca. Oggi è difficile essere freudiani, perché troppo spesso, quando di Freud si accetta il bambino, si è accusati anche di accettare l’acqua sporca. Comunque, il bambino freudiano appare sporco. E del resto, non è sempre facile separare nettamente il bambino dall’acqua sporca. Eppure...
         Se Freud certo oggi è ben poco convincente quando cerca di dimostrare attraverso ricordi e fantasie la realtà della scena originaria, in ogni caso il suo ritratto psichico dell’Uomo dei Lupi ci appare acuto e convincente. Freud non è certo uno storico rigoroso, ma è uno straordinario clinico. Vediamo Sergei, anche quando non siamo d’accordo con le interpretazioni e costruzioni di Freud. In un certo senso, ogni caso clinico, essendo un caso di vita, ci mette a confronto con una sorta di caos: tra le migliaia di cose che un analizzante ci dice, nel corso di mesi o di anni, a che cosa dar peso? Nel disordine generale di sogni, lapsus, parole, ricordi, associazioni, fantasie, è possibile intravedere un ordine, o semplicemente un filo rosso? Un filo che ci porti al vero problema del soggetto, alla chiave della sua sofferenza? Certo l’ordine che Freud disegna a partire dalla massa di dati – dato che l’analisi dell’Uomo dei Lupi è durata anni – ci appare oggi forzoso, ma ognuno di noi deve cercare un ordine nel materiale per non esserne soverchiato. Lo sforzo di Freud, come di ogni buon clinico, nel trovare un ordine segreto nel caos di una vita, è lo stesso sforzo che, in fondo, ogni soggetto fa quando cerca di dare un senso, un progetto, un ordine alla propria esistenza. Tutti, anche se non siamo psicoanalisti, interpretiamo la nostra vita: scommettiamo su un suo ordine che ci aiuti a dare una forma ai nostri godimenti e alle nostre sofferenze.
 
 
5.
        
Innanzi tutto, qual è il problema cruciale di Sergei, diciamo il suo sintomo? Il fatto che egli fosse “assolutamente incapace di affrontare la vita e di fare a meno dell’altrui aiuto”[8]. Questa incapacità di provvedere a se stesso include, come suo versante isterico, una sensazione di essere separato dal mondo reale come da un velo, da un senso crepuscolare di ottenebramento – questo vissuto svaniva solo dopo essersi fatto fare un clistere da un uomo. Ancor prima di esaminare il modo in cui Freud interpreta e spiega questi sintomi, essi già di per sé ci dicono qualcosa di significativo su questo soggetto. (Questo è un insegnamento di Freud che regge anche alla critica epistemologica: che il sintomo è rivelatore di un problema essenziale del soggetto.) Possiamo dire che Sergei è separato dalla realtà, sia percettivamente che praticamente: non “morde” su di essa, non si confronta con essa. Vive come in una sorta di limbo che oggi chiamiamo narcisistico. Egli appare incapsulato in se stesso. Pare un paraplegico psichico.
Quindi, questo bisogno dell’aiuto altrui evoca subito in noi la sua figura metonimica: l’handicappato, il poverello, il mendicante. Ora, Freud nota che la vista di accattoni, storpi e vecchi non gli era indifferente: sin da bambino, egli doveva espirare rumorosamente allo scopo di non diventare come loro[9]. Questa espirazione era quel che per altri sono lo sputo o il vomito: un modo di rigettare fuori di sé qualcosa di brutto che minaccia di entrare dentro di sé, il respingere un’identificazione. Non dimentichiamo che la sua nevrosi ossessiva emerse dopo aver sofferto di un’infezione blenorragica: dopo insomma essersi sentito come un handicappato sessuale. Ma perché un rampollo di una famiglia patrizia russa doveva “inspirare” degli handicappati e “ispirarsi” a essi?
Sappiamo che, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, questa identificazione divenne realtà: da ricco che era, Sergei divenne povero ed ebbe bisogno dell’aiuto della comunità psicoanalitica viennese. Divenne una sorta di mantenuto della psicoanalisi; e di fatto ha passato l’ultima parte della sua lunga vita a parlar male della psicoanalisi-mamma che lo aveva sostenuto. Il suo sintomo (essere povero, storpio) nella sua vita è diventato realtà sociale. Ma appunto, perché sin da bambino questo unico figlio maschio di famiglia ricca si sentiva così handicappato?
         Qui mi pare che la descrizione clinica di Freud sia magistrale, e molto convincente. Dal caos dei fatti di una vita poco a poco una forma definita appare. Qui Freud opera un po’ come Benoît Mandelbrot, l’inventore dei frattali[10]: anche osservando una costa tutta irregolare, possiamo far emergere dietro la maschera del caos una struttura frazionaria precisa – una sorta di forma generativa alla base della forma visibile finale. Non starò qui a ripercorrere la ricostruzione del puzzle della forma di vita di Sergei operata pezzo per pezzo da Freud. Risulta poco a poco chiaro che Sergei si sente profondamente, segretamente identificato a quella che definirei una donna rotta e umiliata. Tutte le linee della sua biografia sembrano convergere verso questa figura, questo “personaggio”.
La donna rotta è innanzitutto la madre in quanto soffre di emorragie e dice davanti a lui “non posso più vivere così!”. La fantasia del figlio è che i rapporti sessuali con il marito la feriscano, la sfondino, la facciano sanguinare. Ma la donna umiliata è anche la donna inginocchiata per terra, come Grusa un tempo, posizione che accende il suo desiderio: Sergei è attratto da questo oggetto a piccola, direbbe Lacan, ovvero dalla donna inginocchiata che mostra il deretano. Una donna sodomizzata, quindi umiliata, assoggettata. E non a caso Sergei ha rapporti amorosi solo con donne del popolo umiliato e offeso, unighenîye i oskarblyonîye: questa umiliazione fisica e sociale della donna è quel che lui a un tempo paventa e desidera. Ma nella misura in cui, nota Freud, egli stesso si considera questa donna rotta, umiliata e offesa. Ci si potrebbe anzi chiedere perché Sergei non abbia preso la strada dell’omosessualità passiva, o magari quella del bolscevismo, e abbia invece preso la strada della nevrosi ossessiva e narcisistica. Un analista americano modernista e liberal forse giungerebbe proprio a questa conclusione: Sergei aveva bisogno forse di un coming out omosessuale. L’omosessualità – o il bolscevismo? - sarebbe stata la sua vera terapia. Nella nostra pratica incontriamo persone disturbate che a un certo punto della vita si ritrovano omosessuali, e questo mette fine ai loro disturbi.
In sostanza, anche se Sergei come adulto sa bene come si svolge il rapporto sessuale tra uomo e donna, resta fissato all’idea infantile per cui la donna si lascia sodomizzare dall’uomo, il quale, come un lupo, la sfonda e la ferisce. In fondo, questa scissione accade in ogni personalità nevrotica: dopo un po’ si scopre che ognuna vive una Spaltung, una scissione, che Freud ha ben descritto nel caso del feticismo[11]. Ogni soggetto nevrotico ha un sapere doppio. Da una parte egli ha un sapere adulto, oggettivo, quello che la cultura in cui vive gli ha insegnato: che la terra gira attorno al sole, che l’uomo penetra la donna nella vagina, che tutti gli uomini e tutte le donne di qualsiasi razza sono nati eguali, che le rappresentazioni di Shakespeare fanno godere, ecc. ecc. E poi c’è un altro sapere - infantile, regressivo, inconscio o semiconscio - che dirige piuttosto la vita erotica o passionale o desiderante del soggetto: nel caso di Sergei, la sua convinzione che l’atto sessuale sia un’umiliazione della donna, che la fratturi, e che questo sarà anche il proprio destino di uomo identificato alla donna. La cosiddetta cura analitica consisterà allora nel diminuire al massimo la distanza tra questi due saperi, tra le credenze adulte e quelle infantili – in sostanza, nel cucire alla meno peggio questo splitting del soggetto. L’analisi è un lavoro di ricucitura di uno strappo tra due o più parti del soggetto.
 
 
6.     
         Ma se il problema di Sergei è essenzialmente quel che ci descrive Freud – l’impossibilità di accettare una posizione masochista femminile da cui egli è attratto – da cosa deriva tutta l’importanza data da Freud alla scena originaria, come evento reale e non come semplice fantasia infantile?
         In sostanza, in questo testo Freud pone una questione di fondo su cui ancora non solo la psicoanalisi, ma tutta la psicopatologia discute: la possibile origine traumatica delle nevrosi. E’ davvero singolare che Freud molto spesso venga interpretato in modo opposto: sia i freudiani che gli anti-freudiani credono che per Freud alla fonte di tutti i disturbi soggettivi non ci siano azioni o fatti reali, ma fantasie di desiderio. Ad esempio, Jeffrey Masson ha accusato Freud di aver mentito sulle molestie sessuali che le sue pazienti isteriche lamentavano di aver subito nella loro infanzia: secondo Masson, Freud avrebbe saputo bene che davvero le isteriche erano state oggetto di attenzioni sessuali da parte di uomini adulti, ma, per opportunismo e per non scandalizzare i benpensanti dell’epoca, aveva insistito invece sull’idea che queste memorie precise delle isteriche fossero in realtà delle fantasie[12]. Insomma, Freud preferì dire che l’isterica diceva di essere stata molestata da bambina perché desiderava esserlo. Ma il caso dell’Uomo dei Lupi ci mostra che il punto di vista di Freud era molto più complesso: in questo caso egli ci tiene assolutamente a dimostrare che la nevrosi del Nostro è connessa a un trauma precoce, a un evento reale, quello della scena originaria. L’interpretazione classica va quindi di fatto rovesciata: Sergei desidera certe cose – ad esempio prendere le donne di dietro – proprio per ripetere la scena traumatica. Il desiderio e il sintomo sono ripetizioni del trauma.
         Ora, gran parte delle scuole post-freudiane sono in qualche modo più realiste del re, più freudiane di Freud. Sfruttando la fragilità delle “prove” date da Freud sulla realtà della scena primaria, dicono “non ha alcuna importanza datare la scena primaria o qualsiasi altro trauma! quel che conta è il mondo interno del soggetto, non il suo mondo esterno! non sapremo mai se un trauma è stato inventato o è stato reale: quindi dobbiamo considerarlo sempre come una fantasia, un mito”. Lo psicoanalista francese Daniel Lagache diceva che se egli dalla finestra aveva assistito a un incidente d’auto sul boulevard Raspail (dove aveva lo studio), e poi arrivava un paziente in seduta che gli diceva “poco fa ho assistito a un incidente d’auto per strada”, ebbene, egli ascoltava questo resoconto come se fosse un sogno. In analisi, tutto è sogno. Il trauma è esso stesso parte del sogno. Le scuole kleiniane e post-kleiniane hanno portato all’estremo questo modo “internalista” di pensare: la vita psichica è tutta sogno.
         In verità negli ultimi decenni la tendenza si è rovesciata: sempre più gli analisti insistono sull’importanza della seduzione dei bambini da parte degli adulti. Questa tendenza che tende ad agganciare la vita fantasmatica al trauma è stata teorizzata soprattutto da Jean Laplanche[13]: egli ha detto chiaramente che l’adulto, l’altro per il bambino, in qualche modo seduce e in fondo violenta il soggetto infante, e che l’inconscio deriva da questa seduzione primaria. La teoria di Laplanche è un modo non lacaniano di rilanciare la tesi di Lacan: che l’inconscio è il godimento dell’Altro. La seduzione di rado è voluta dall’adulto, ma è come se egli l’avesse compiuta di fatto. Il coito a cui secondo Freud Sergei avrebbe assistito non era stato progettato dal padre e dalla madre di Sergei per sedurre o impressionare il figlio, ma di fatto ha svolto una funzione seduttiva. Per un analista, il vero trauma è sempre, in qualche modo, una seduzione.
Questo rovesciamento dell’ortodossia analitica originaria – secondo la quale tutti i problemi venivano dalle fantasie di desiderio dei soggetti – si lega in effetti a un presupposto antropologico o filosofico di fondo: che ogni soggetto umano elabora un mondo soggettivo, privato, intimo solo a partire dalle sue relazioni con gli altri e con l’Altro. Una parte della cultura contemporanea, sulla scia di Husserl e Wittgenstein, non crede affatto, come i kleiniani, che gli esseri umani vivano in un sogno: al contrario, pensa che siano il mondo esterno, la realtà intersoggettiva e il rapporto con gli altri a costruirci come soggetti. Nell’antitesi tra le due scuole – tra quella che chiamerei “internalista” e l’altra che chiamerei “altruista” – si contrappongono quindi due visioni filosofiche fondamentali della soggettività.
 
 
7.
Ma perché un soggetto finisce col desiderare ripetutamente qualcosa piuttosto che altro? Perché la fantasia ricorsiva è proprio quella e non un’altra? Le scuole internaliste finiscono loro stesse con l’ammettere che all’origine c’è stato comunque un trauma – per lo più, l’assenza della madre, o più precisamente, l’assenza del seno materno. Il primo trauma è il fatto che il bambino desidera il seno, e questo non c’è. Tutto il mondo fantastico successivo sarebbe comunque un’elaborazione di queste assenze originarie. Quindi, in qualche modo, alla base delle fantasie individuali ci sarebbero dei traumi, ovvero delle mancanze. Ma l’ipotesi di Freud della scena originaria come evento traumatico mira a mostrare che, forse, il trauma per un soggetto non è solo la mancanza di un oggetto prezioso: il trauma è qualcosa di molto più articolato e complesso.
         Ma se il mondo soggettivo ha origine da un’esperienza traumatica, quale potrebbe questa essere? Insomma, come riusciremo mai a ricostruirla? E come riusciremo mai a dimostrare che abbiamo ricostruito proprio il trauma fondamentale? L’idea che alla base di ogni sofferenza psichica ci sia un cattivo incontro precoce – un trauma – non è essa stessa un mito pseudo-esplicativo? In effetti, come abbiamo detto, molto spesso gli analizzanti ci tengono a riferire alcune scene traumatiche fondamentali, convinti che queste siano il nocciolo di tutti i loro problemi. Certe volte più che traumi sono sogni o fantasie. Un mio amico analista morto a 86 anni nel 2013, per tutta la vita, fino alla morte, raccontava agli amici, e nei suoi libri, un sogno che aveva fatto verso i cinque-sei anni: è passato per varie analisi nella sua vita, ma ha continuato ad analizzarlo e sempre chiedeva alle persone che stimava di dirgli che cosa ne pensassero. Per lui tutta la sua vita mortale era contenuta in quel sogno.
         Ma allora, dando per scontato il ruolo essenziale di alcune scene di vita – reali od oniriche che siano – l’analista non collude con un mito culturale diffuso? Un analista, cercando di ricostruire un evento traumatico fondamentale, non diventa complice di un pregiudizio psicologico popolare? Uomini e donne di oggi hanno ragione nel credere che un evento cruciale – una tyche, come dicevano i greci, un evento fortunoso – avrebbe impresso una svolta essenziale alla loro vita? In questo caso, l’analista non si limita a dare un alibi scientifico a credenze popolari?
Ora, interpretando la scena originaria come scena realmente vista, Freud partecipa all’elaborazione del soggetto stesso. Questa minuziosa ricostruzione di Freud può anche non essere vista come una sorta di pattern precostituito che Freud ha placcato sul suo paziente, ma al contrario, come un compiacente andare avanti sulla linea della nevrosi stessa. Molti pensano che la psicoanalisi non sia una ricostruzione scientifica o storicamente plausibile delle nevrosi, ma una sorta di auto-cura che i nevrotici moderni hanno trovato per alleviare le loro sofferenze. E’ quel che pensava Karl Kraus, quando diceva che la psicoanalisi è la malattia di cui pretende di essere la cura. Claude Lévi-Strauss, parlando del ciclo mitico tebano in cui è inserita la storia di Edipo, afferma che l’interpretazione moderna datane da Freud – il complesso di Edipo – non è tanto una spiegazione fondamentale del mito che ne dissolverebbe la carica illusoria: è una variante moderna del mito[14]. Parlando di complesso di Edipo, Freud non usa solo l’antico mito per descrivere altro: ravviva il mito stesso, lo prosegue, lo fa evolvere. Insomma, se un antropologo studia il mito di Edipo in Occidente, dovrà tener conto della variante freudiana. Freud non ci offre la chiave ultima per capire l’Edipo tiranno di Sofocle, articola un aggiornamento del mito originario da cui anche Sofocle ha attinto. Analogamente, interpretando il sogno dei lupi come illustrazione onirica della scena primaria, Freud partecipa allo sviluppo fantastico di Sergei, collabora con lui ad arricchire quel che Lacan aveva chiamato “il mito individuale del nevrotico”.
         Questo è confermato dalla moderna esperienza clinica: accade spesso che un paziente ci tenga assolutamente a ricostruire una scena che non ricorda ma la cui realtà gli sembra cruciale. Ad esempio, alcune pazienti hanno la sensazione di essere state molestate o sedotte, da piccole, dal padre, o dallo zio o da altri: hanno questa sensazione ma nessun ricordo preciso vi corrisponde. Rimozione del ricordo o proiezione fantastica? E di fronte a questa esigenza storica di ricostruire l’evento, cosa deve fare l’analista? Deve fare come Roy Shafer, non dare alcuna importanza alla verità storica, e incoraggiare il paziente a costruire un racconto che lo soddisfi meglio del racconto nevrotico in cui è preso? Oppure incoraggiare questa esigenza di verità oggettiva, sforzarsi con lui di mettere assieme dei frammenti che possano ricostruire o far ricordare addirittura la scena presentita?
In ogni caso, la tendenza a pensare che tutto sia nato da un evento – da una scena traumatica, da qualcosa che non doveva succedere e che è successo – è molto forte tra noi soggetti moderni. Ma allora, quando gli analisti prendono sul serio questa credenza, non colludono con una meta-psicologia comune, con una credenza culturale diffusa, secondo la quale si soffre spiritualmente perché alcuni adulti non si sono comportati come avrebbero dovuto? La tendenza a vedere la causa di tutti i propri mali nei genitori è largamente diffusa, anche tra chi non ha mai fatto analisi. E questa credenza oggi è rafforzata dalla fortuna della “teoria dell’attaccamento”, dominante tra gli psicologi: questa teoria scommette sul fatto che da adulti diventiamo quel che nostra madre, senza volerlo esplicitamente, ha fatto di noi nei primi mesi di vita.
Questa nostra convinzione diffusa è una mitologia che la psicoanalisi deve confutare e superare? o è traccia di una verità profonda che invece l’analista, come lo psicologo dell’attaccamento, deve valorizzare? Questa alternativa è tuttora ampiamente discussa all’interno della psicoanalisi.
        
 
8.
         Resta però la domanda: oggi, se confrontati a un caso come quello di Pankejeff, e al sogno dei lupi, come reagiremmo da analisti? Certo oggi nessuno cercherebbe più di risalire alla scena originaria, cercando di datarla precisamente. Ma come vedremmo questo sogno?
         Quel che colpisce di quel sogno è che esso consiste nell’apertura su una scena, ma la scena che il soggetto vede sono altri soggetti, i lupi, che guardano. E’ come se a teatro, apertosi il sipario, si vedesse non il palcoscenico ma un altro pubblico che ci guarda. Una soluzione davvero unheimlich, perturbante.         Lo sguardo guarda chi guarda. I guardanti sono lupi bianchi, ovvero non l’oggetto di orrore che potrebbero essere – lupi che si scagliano contro di me, ad esempio – ma occhi bianchi che mi guardano. Io guardante divento la scena dell’orrore per l’altrui sguardo, che peraltro è lo specchio del mio. Freud riduce questo orrore a una scena di sesso, che certo per un bambino piccolo sarebbe cosa enigmatica. Ma l’enigma è più radicale: il sogno significa che c’è una scena importante o terribile da guardare, ma non la mostra. E questo forse non per una rimozione, ma per il fatto che, in particolare nell’infanzia, siamo confrontati a scene che non si possono vedere, a qualcosa di impensabile, e che pure appare. Questa scena, piuttosto che un evento fuori del soggetto, può essere l’evento che è il soggetto stesso. Un puro Erlebnis, un modo di sentirsi del soggetto che non ha nome e non può essere descritto, e che proprio per questo evoca una dimensione di orrore.
         Prima si evocava la critica del linguaggio privato di Wittgenstein. Il senso vero di quella critica è che del privato in quanto privato non si può dir nulla, non è descrivibile. Il vero privato è ciò che sfugge a ogni comunicazione, anche alla comunicazione di immagini mentali. Ma forse nel sogno dei lupi è la correlazione tra una scena oscena e un soggetto che non può interpretarla e simbolizzarla che si dà in spettacolo: un puro reale prima di ogni simbolizzazione, accadere senza nome e senza descrizione. E mi chiedo se tutta la nostra vita non orbiti in qualche modo a questo indescrivibile, che cerchiamo di catturare attraverso la panoplia delle “scene”, delle nostre fantasie e rappresentazioni.
 
           
 

 

[1] S. Freud, Opere, 7, p. 514; SE, 17, p. 36; GW, 12, p. 63.
 
[2] Poet., IX, 2, 9‑15.
 
[3] S. Freud, Opere, 7, p. 564; SE, 17, p. 91; GW, 12, p. 125.
[4] S. Freud, Opere, 7, p. 565; SE, 17, p. 92; GW, 12, p. 126.
 
[5] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1966.
 
[6] L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, , Basil Blackwell, Oxford  1953, 265. Tr.it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967, p. 124.
 
[7] J. Bouveresse, Filosofia, mitologia e pseudo-scienza. Wittgenstein lettore di Freud, Einaudi, Torino 1997.
 
 
[8] S. Freud, Opere, 7, p. 487; SE, 17, p. 7; GW, 12, p. 29.
 
[9] S. Freud, Opere, 7, p. 495; SE, 17, p. 17; GW, 12, p. 40.
 
[10] B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali: forma, caso e dimensione, Einaudi, Torino 1975.
 
[11] S. Freud, “Feticismo”, Opere, 10, pp. 491-502; SE, 21, pp. 152-160; GW, 14, pp. 311-317.
[12] J. Masson, The Assault on Truth: Freud's Suppression of the Seduction Theory, Farrar Straus & Giroux, New York 1984. "Freud and the Seduction Theory A challenge to the foundations of psychoanalysis," The Atlantic Monthly, February 1984.
[13] J. Laplanche, Le primat de l’autre en psychanalyse, Flammarion, Paris 1997; Entre séduction et inspiration : l’homme, PUF, Paris, 1999.
 
[14] C. Lévi-Strauss, “La struttura dei miti”, in Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1966, p. 243.
 
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"Il leone salta una volta sola". Non è un proverbio ma un dato di fatto biologico. Il leone salta; se afferra la gazzella, la sbrana; altrimenti la gazzella è salva. Freud ha fatto il salto; è saltato dall'analisi alla psicoterapia, ma non ha afferrato Sergei, che si è salvato dalla psicoterapia freudiana.

L'articolo di Sergio Benvenuto, che ho ascoltato in un paio di occasioni a Roma, e del quale ho letto contributi molto ricchi e interessanti ha il pregio di restituire freschezza al caso clinico effettivamente meno convincente fra quelli dei quali scrive Freud. Un resoconto davvero per nulla convincente.
Per leggere il caso dell'Uomo dei Lupi mi pare, tuttavia, impossibile prescindere dal libro curato da Muriel Gardiner la quale ci racconta dell'incontro con Sergei a Vienna, nel 1938. Ci racconta della seconda tranche di analisi svolta con Ruth Mack Brusnswick e dello scompenso paranoico avuto, con il delirio sul proprio naso. Freud stesso se ne accorge in Analisi terminabile e interminabile.
Altrettanto interessanti sono le annotazioni dello stesso Uomo dei Lupi, il quale narra la propria storia e il proprio invecchiare. Chi meglio dell'Uomo dei Lupi può parlarci dell'Uomo dei Lupi ?


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