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di Donato Morena

Roaring Disorder: l’accumulo ruggente della miseria – II Parte (e ultima)

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7 luglio, 2018 - 00:15
di Donato Morena
Ho aspettato un po' a chiudere questa seconda parte di racconto sulla miseria, con la speranza che quella sociale e politica, di miseria, osservata a spot attraverso lo schermo, equella vista tutti i giorni, spesso attraverso le sbarre che proteggono la società (magari ne scriverò), potessero riuscire ad arricchire una povertà di idee impastata a un certo mio pessimismo pseudo-intellettuale (molto pseudo direiPoi, giusto qualche giorno fa mi è capitato di imbattermi in qualcosa sulla miseria che non fosse solo legato a una discutibile esperienza personale. Numeri, dati, statistiche (sono loro che contano no?) che misurano e certificano la miseria nel nostro paese. Si trattava dell'indagine dell’Istat sulla “povertà in Italia” [1] e sui poco più di 5 milioni di poveri “assoluti”, cioè assolutamente privi del denaro per acquistare beni e servizi considerati essenziali per uno standard di vita minimamente accettabile. A questi erano da aggiungere i poveri “relativi”, quelli che, in famiglie di almeno due persone, non riescono a raggiungere la soglia minima di povertà “relativa”, per una famiglia di due componenti pari a quasi mille euro al mese. Ecco, i poveri “relativi” sono 9 milioni e 368 mila individui (il 15,6% della popolazione), che sommati ai poveri “assoluti” fanno più di un quarto degli italiani. Al sud le famiglie più povere, con una concentrazione di povertà che riguarda il 10% delle famiglie e più dell’11% degli “individui” [2].>Non sono esperto di numeri, ma con un breve conto sulle dita mi è parso di capire che probabilmente un “individuo” su dieci dei miei amici delle scuole elementari e medie (poi è avvenuta la selezione darwiniana del liceo) possa ora trovarsi in povertà assoluta. Uno su quattro in qualche forma di miseria.>Con questi conti ancora nella testa, ho preso a recitare salmi per ringraziare il destino (e il mio lavoro) che mi ha voluto lontano dal traguardo pauperistico. Ma il destino, si sa, conserva sempre una certa volubilità e può diventare cinico e baro da un momento all'altro. Un primo avvertimento me l'ha inviato con la solita coincidenza che capita in questi casi. >Così, negli stessi giorni arriva un collega, uno con una vita felice, realizzata per lo meno, moglie e tre figli. Solo il mutuo della casa da sostenere, poca roba, roba scontata al giorno d’oggi. Malauguratamente, lei un po' di tempo fa ha perso il lavoro per la chiusura dell’azienda e da allora non ha più trovato niente. E poi non c’è solo il mutuo della casa, ci sono le rate dell’auto nuova, degli elettrodomestici, e un paio di figli fuori casa, all’università. >Non è che mi faresti un prestito? - mi chiede sottovoce, a bruciapelo per l’imbarazzo – la ragazza quest’anno finisce il liceo, voleva iscriversi a un’università privata ma non possiamo assolutamente permettercelo, però almeno a quella pubblica sì. Almeno. >Un brivido freddo, motivato in parte dalla richiesta del prestito, mi ha procurato un brusco risveglio, e l’intuizione perturbante di essermi adagiato su un dolce dormire ignorante, sulla certezza che a salvarmi sarebbe stato l’isolamento in un piccolo posto fisso nella piccola sedicente migliore sanità del mondo di una piccola nazione che si vanta di essere tra le prime sette potenze al mondo. >Invece, mentre segnavo il passo, qualcosa si muoveva o meglio si erodeva. Ed erano le risorse a disposizione delle persone, con un impoverimento che sta pian piano accalappiando tutti. >Davvero tutti? Non proprio. >Pare infatti che nel nostro paese vi sia una forte diseguaglianza economica, e che il 20% più ricco delle persone possieda quasi il 70% della ricchezza nazionale [3]. Nel resto del mondo d’altra parte il divario tra ricchi e poveri è ancora maggiore, con l’1% dei primi che possiede il 45% della ricchezza finanziaria privata [4]. Disuguaglianze destinate a crescere, purtroppo. Al punto che i più catastrofisti (anche loro pessimisti pseudo-intellettuali, o realisti?) come gli autori del documento “World inequality report 2018” [5] possono affermare “che se l’aumento delle disuguaglianze non viene adeguatamente monitorato e affrontato, può generare vari tipi di catastrofi politiche, economiche e sociali&rdquoNon ho molte competenze con le scienze numeriche, dicevo. E tanto meno con quelle che si interessano di conti bancari, purtroppo. Un po' di esperienza con i conti della psichiatria, però, penso di averla maturata, e di saper riconoscere bene i diversi lineamenti di quella che si autocelebra come “scienza”, quella candida, asettica direi, che si occupa di numeri, statistiche, classificazioni, diagnosi, e sopratutto farmaci; e quelli della psichiatria minore, “la psichiatria delle serve” la chiamava un professore, la psichiatria “assolutamente” povera dei servizi.Prima di tirare un po' le fila di questo ragionamento sgangherato, vorrei perciò azzardarmi a dire qualcosa sulla prima di queste diverse psichiatrie, quella che si rispecchia meglio nei pachidermici accumuli di ricchezze piuttosto che nelle miserie infinite. Per smascherarla, per quanto utile e possibile, della sua autocelebrativa attribuzione di scientificità. Per dire, visto che si è parlato di disturbo da accumulo, ma sempre in termini di persone e cose di scarto, mi sembra un vero peccato che invece non venga per niente presa in considerazione la patologicità di condizioni esistenziali basate sulla dedizione all’accumulo di averi, e alla venerazione del guadagno come unico parametro per la definizione di se stessi e del mondo. Pensandoci, non potrebbe essere realmente un morbo, una monomania esquiroliana (si può dire?), questa voglia parossistica di avere sempre di più, pur sapendo che la conseguenza è una sottrazione, il non avere, o l’avere sempre meno di altri? Non sarà mica strana un’esistenza disinteressata al godimento reale di queste ricchezze, visto che l’impellenza è di aumentarli, gonfiarli, farli lievitare allo spasimo questi accumuli?Sarà mica bizzarro ingombrare e dissacrare il proprio tempo con ore di lavoro finalizzato a riempire conti correnti già stracolmi? Non è possibile intravedere un’anima di sadismo in questa bramosia funesta che sta impoverendo l’umanità? Eppure non verrebbe in mente a nessuno di sostenere che quelli, i ricchi del mondo, sono affetti da un disturbo psichico, da un improbabile disturbo da accumulo di denaro. Loro, i miti di una una società che esalta efficienza, organizzazione, profitto. Questa della ricchezza patologica non può che rimanere una provocazione dettata dall’invidia. E infatti la psichiatria scientifica se ne sta ben lontana dalla rischiosa valutazione di un comportamento pur talmente assurdo e dalle conseguenze catastrofiche. Non può nascondere però l'aggravante paradossale prensente in questa sua accidia, il vantarsi cioè di essere pura, sfrondata da connessioni teoriche, storiche, sociali, economiche. E' quanto mai evidente invece la propria natura frankesteiniana (almeno questo neologismo spero si possa dire), composta dai pezzi di quelle varie dimensioni che vorrebbe rinnegare. Incurante delle contraddizioni, lo sguardo inquietante della frankenstein-psichiatria e dei suoi psichiatri scienziati continua a giudicare solo i poveri cristi sepolti dalla spazzatura, e a confrontarli con una “norma” tanto traballante quanto le basi su cui si tiene tutto l’apparato. Quelle della ragione, dell’efficienza, del funzionamento, della produzione. Si dirà che a segnare e discriminare la patologia dei poveri cristi dal comportamento dei ricchi è la sofferenza personale, la sofferenza vissuta. Ma quanti pazienti hanno invece la sola colpa di generare disagio negli altri? Magari per via della loro puzza di miseria? Come i sudici del manicomio. E poi, anche nella sofferenza eventualmente procurata agli altri, la discriminante è solo la materia grezza, se è vero che non è da considerare il danno che non si vede, il danno diafano ma tossico e devastante della diseguaglianza finanziaria. Poco male comunque che non possa che cadere nel vuoto questa mia proposta balneare, di far tassare almeno dalla scienza psichiatrica i patrimoni in surplusdegli accumulatori seriali di miliardipatologizzando le loro persistenti difficoltà a separarsi dai propri beni, eccessiva acquisizione di oggetti che non sono necessari. >“Quando non hai tempo per valutarlo, guarda il funzionamento, accertati se il paziente funziona o no”, mi diceva un tutor durante la specializzazione. “Um-zu”, scimmiottando Heidegger, buono-per. Bisognava ricercare l'elemento decisivo della compromissione del funzionamento in ambito sociale e lavorativo o in altre aree importanti . Parametro, pensavo, sicuramente buono per gli utensili, i pezzi di ricambio, gli articoli di scambio. Non credevo per le persone. Invece De Andrè c’aveva visto lungo. Poco male, dicevo, perché se non è possibile prendersela con la ricchezza, si può comunque ragionare su cosa si possa fare per la povertàCerto, per ora, e fino a quando non verrà tutto sommerso dalla marea dell’abitudine, sembra che resistano ancora i riflessi del soccorso volontaristico, sempre più frammentari però, e destinati alla sopravvivenza del “buon cuore”. Può bastare? E fino a quando? Ho avuto modo di osservare come negli ultimi anni stia montando una crescente indifferenza per la miseria, pari alla frequenza delle scene di persone che cercano di racimolare avanzi di cibo dai cassonetti e di rabberciare qualche vecchio oggetto dismesso. Tutto sempre più normale, tutto sempre più scontato. Ragionare, nello specifico del nostro campo d’azione, su cosa può mai fare un operatore della salute mentale che non voglia solo rassegnarsi a stracciarsi le vesti e unirsi al coro delle prefiche che lamentano lo sfascio dei servizi, peraltro molto reale.Su cosa possono fare, poi, i nuovi operatori che dai freddi laboratori universitari si trovano scaraventati in uno scenario che ricorda quello de “Il mare di ghiaccio” di Friedrich. Nuovi operatori cresciuti a pane e resilienza, adattamento, potenziamento e farmaci. Coscritti di strilloni che sanno solo proporre, ogni anno con caratteri sempre più grandi, slide in cui narrano, come se fossero infettivologi, di contagiose pandemie psicogene, di malattie vecchie e nuove in continuo aumento. Ansia e depressione, ADHD, disturbi di personalità, turbe della regolazione emotiva, disturbi da uso di sostanze e da gioco patologico, disturbi da stress, psicosi autonome o indotte, e chi più ne ha più ne metta, tutto come se si trattasse di germi patogeni contro cui allestire nuove armi battericide. Nuovi operatori ingessati in identità solidificate da anni di cattivi insegnamenti di cattivi maestri, negli ambienti schizoidi delle università, o nei servizi legulei. Il mio naturalmente vuole essere un invito, non avendo soluzioni da proporre. Anzi, personalmente rischio di essere sopraffatto ancora una volta dalla fascinazione del pessimismo, quando penso ai grandi cambiamenti dei servizi tra gli anni ‘60 e ‘80, e li vedo come resi possibili da una società che voleva abbattere le grandi istituzioni, che voleva aprirsi alla sperimentazione, a nuovi modelli, alla conoscenza dell’altro. Oggi invece l’altro fa solo spavento, le vicinanze sono vissute con fobia, le crisi personali mettono a rischio l’efficienza, i rapporti sono dei panini da fast-food. Si cercano armi per bloccare lingue e muscoli [6], visto che manca il tempo per le parole. Si cercano armi per sterilizzare le sofferenze e silenziare il dolore, visto che non c’è più fiducia nei cambiamenti, almeno in quelli in meglio, e la possibilità che sia necessario mettersi in discussione rappresenta una sconfitta drammatica. Per fortuna, contro questo pessimismo mi è venuto in soccorso il riflettere sulla miseria, incontrarla, affrontarla senza armi tecniche, e non aggiungere, a quella materiale, anche quella umana. Incontrare la povertà può voler dire aprire lo sguardo sulla nostra formazione e su ciò che stiamo facendo, mettere in crisi il nostro ruolo, anche come cittadini, e soprattutto porci di fronte a una scelta. Quella tra l’indifferenza e il bisogno di cambiamento. Tra il rimanere fermi nei nostri confini sempre più ristretti e l’aprirsi a una partecipazione diversa. Userei il termine politico, se ormai non facesse ribrezzo.

 

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