Adolescenza. Quando l’essere umano cambia condizione: a proposito di metabletica.

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16 luglio, 2018 - 20:33
A Marco Valerio,
il nipote, dei 7, che vedo meno
 
 
 
«Die Sprache ist das Haus des Seins.
In ihrer Behausung wohnt der Mensch»
(Il linguaggio è la dimora dell’essere. Al suo riparo, abita l’uomo).

Martin Heidegger, Brief über den “Humanismus, Bern, Francke, 1947.
 
 
*Biografia e Riassunto.
L’autore – che ha lavorato ininterrottamente per oltre quarant’anni (1958-1999) nelle istituzioni della salute mentale, universitarie e del Servizio Sanitario Nazionale – è stato invitato al 1° Convegno internazionale di Frascati sull’adolescenza [1], intitolato “I volti dell’adolescenza tra vulnerabilità, fragilità e crisi necessarie”. Gli era stato, chiesto di tenere una conversazione interattiva sulla sua esperienza clinica ed extraclinica sul tema in discorso. Il testo che segue, ampiamente riveduto e aggiornato, è quello che l’autore pronunciò in occasione del convegno tenutosi nella storica e sontuosa Villa Tuscolana di Frascati nel 2014, già comparso negli Atti congressuali [2]. Tale invito gli derivava da una serie di esperienze di lavoro e di competenze professionali che qui, chi scrive, richiama progressivamente per sommi capi in via generale e specifica, altrimenti non si comprenderebbe la sua tesi di fondo: essersi battuto sempre affinché la salute mentale fosse tutelata senza interruzioni dall’infanzia alla vecchiaia, sia pure nelle “specializzazioni” in cui deve declinarsi per acquisire specifica competenza dei problemi da affrontare. Tutti coloro che prendono parte ai diversi procedimenti di tutela, di cura e di mantenimento della salute mentale, hanno l’obbligo, anzi mi azzarderei a dire il dovere, di collaborare o almeno di parlarsi. La vita dell’essere è un continuum fasico, complesso, originale, irripetibile, che c’insegna sempre qualcosa di nuovo, sapendolo ascoltare. Il racconto dell’esistenza, tutta la vita, l’intero arco della presenza dell’altro, degli altri. Parafrasando un testo di Pietro Clemente, l’antropologo della scuola sarda creata da Cirese de Martino e Gallini, si potrebbe dire che le storie della vita si evincono ascoltando le parole degli altri [3].
Continuando queste osservazioni sull’adolescenza, strettamente intrecciate col percorso curriculare di chi scrive, l’autore deve ulteriormente specificare i passaggi nodali dove ha compiuto le sue ricerche, dove ha vissuto, con quali ruoli vi ha partecipato e con chi si è confrontato, progressivamente. Altrimenti il testo risulterebbe incomprensibile. Dunque. Ha svolto per dieci anni (1958-1968) la carriera accademica con l’incarico di Assistente Universitario di neuropsichiatria presso la Clinica delle Malattie nervose e mentali diretta dal Prof. Mario Gozzano, collaborando col Prof. Raffaello Vizioli. Nei dieci successivi (1969-1978) ha ricoperto ruoli apicali (Aiuto, Primario e Vicedirettore) negli Ospedali Psichiatrici Provinciali di Roma, Cagliari e Dolianova. Negli ultimi dieci della carriera (1980-1999) ha diretto i Servizi Dipartimentali Di Salute Mentale della psichiatria riformata, senza manicomio, dell’Ottavo e Decimo Municipio di Roma.
Nello specifico, per quanto concerne l’insegnamento, dopo l’iniziale decennio di “carriera universitaria”, non ha mai abbandonato completamente la pratica accademica, ma ha svolto attività didattiche universitarie di complemento/e supporto presso la Facoltà di Storia Contemporanea della “Statale” di Milano (Prof. Alceo Riosa), della cattedra di Neuropsichiatria infantile dell’Università “La Sapienza” di Roma e ha diretto Corsi Regionali Inter-ASL su alcuni temi transculturali imposti dal fenomeno immigrativo dell’ultimo cinquantennio in Italia (Progetto “Michele Risso2). Per ultimo, dal 1997 al 2002 è stato chiamato all’Università di Venezia, dove ha tenuto un corso semestrale di ”Medicina di Servizio Sociale per la Sanità Pubblica” ed “Etnopsichiatria”, come professore a contratto presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Ca' Foscari [4].
Questa lunga e circostanziata sinossi non ha alcuno scopo narcisistico, come a prima vista potrebbe apparire. Al contrario, oltre che “biglietto da visita”, questa angolatura visuale, questo orizzonte, anche un po’ visionario, serve all’autore per sottolineare come una delle principali incongruenze notate nella sua esperienza sia stata la completa discontinuità tra i Servizi di Neuropsichiatria infantile, quelli di Psichiatria per adulti e quelli per i disturbi cognitivi della senescenza. Le tre età della vita dell’uomo entro la quale egli lascia traccia della sua presenza mondanizzata. Ciò che è stato, o non è stato, ha fatto o non fatto, intenzionato, amato, odiato, costruito, distrutto, e così via per l’umanità intera, da quando è comparsa sulla terra. Ovviamente, allo stato delle cose, resta impregiudicato il tempo della vecchiaia che, in una società denatalizzata, chiusa, barricata, impaurita, badantizzata, si allunga costosamente, man mano che si appesantisce restringendosi. Il ripetersi dello hiatus fra “Servizi Assistenziali della Sanità”, secondo l’autore, si rivela grandemente pregiudizievole per le opportunità terapeutiche che si offrono al trattamento dei “disturbi” dell’età evolutiva, a quelli comportamentali delle fase adolescenziale, e alla possibilità di proseguirlo anche dopo il compimento della maggiore età, fino alla eventuale comparsa di quelli cognitivi in età involutiva. Altre fratture, non meno incomprensibili, sono costituite dalla scarsa penetrabilità dell’area bio-medica, all’area psicologica, antropologica culturale, storica, storico-religiosa, filosofica, sociale e a quelle che normalmente si definiscono scienze umane applicate.
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1. Introduzione
 
Ho accettato volentieri l’invito a questo Primo Convegno Internazionale, sull’adolescenza, del quale ringrazio i prof. Pietro Grassi e Mario Russo, fondamentalmente per tre ragioni.
 
In primo luogo per le grandi suggestioni del tema eternamente attuale. “Per una bioetica quotidiana - I volti dell’adolescenza tra vulnerabilità, fragilità  e crisi necessarie”. Se i termini hanno ancora un senso compiuto e rivelano un pensiero con precisi riferimenti alla realtà esistenziale, queste sono le parole giuste. Specialmente nel presente contesto temporale, in cui prevale l’immagine, l’illusione gestaltica, la virtualità e l’inverosimilità dei fatti, disgiunti dalle opinioni. In primis per stupire “il colto e l’inclita..”, come s’usava dire un tempo, ma in concreto, anche e soprattutto, per distrarre e confondere entrambe i suddetti. Inutile aggiungere, però, che ogni persona sufficientemente istruita, ricorda l’ammonimento di Tacito: Il tempo e l’evidenza avvalorano il vero, l’incertezza e la festinazione il falso [5].
 
In secondo luogo per un vecchio debito, clinico e psicopatologico, contratto molti anni fa con un caro collega Fausto Antonucci (1939-2008). Un primario storico della psichiatria romana riformata dalla “180”, scomparso da qualche anno e del quale mi piace richiamarne la memoria poiché proprio nel 2018 cade il decennale della morte. Quella mia e di Fausto era una polemica privata e sommessa, più che altro conviviale. Verteva sui nostri maestri di riferimento e sui nostri indirizzi psicopatologici. Egli “imputava” alla corrente antropofenomenologica della cosiddetta psichiatria della crisi – ossia quella “speculativa” del periodo interbellico tra le due guerre mondiali del secolo scorso – di aver dato scarso rilievo all’età evolutiva.
 
In terzo luogo per rilanciare un antico e difficilissimo progetto. Un auspicio, più che altro, tuttora inevaso e dimenticato. Saldare l’area di competenza della salute mentale nelle tre età dell’essere umano: l’infante, l’adulto, il vecchio. Ma, in particolar modo, aumentare il livello di attenzione sui passaggi cruciali dell’esistenza, in particolare quello in cui si è alle soglie della vita adulta: l’adolescenza.
Una tempo, tra i transiti critici dell’esperienza dell’essere umano, c’era anche il pensionamento, ossia l’espulsione dal mondo del lavoro, ma oggi, qui tutto è stravolto, perché è addirittura problematico entrarvi, nel mitico “mondo lavorativo”. Si vedono solo macerie, quelle della disoccupazione, segnatamente giovanile, che ha ormai attinto livelli inusitati. Quanto al progetto unitario delle discipline psicologico-psichiatriche e sociali, debbo constatare il livello utopico di questa personale ambizione. Purtroppo persistono pezzi incomunicanti, tanto nel mondo universitario, quanto in quello del Servizio Sanitario Nazionale, che rispondono ai nomi di “Neuropsichiatria infantile”, “Psichiatria adulti” e “Gerontopsichiatria”. Strutture e Servizi – laddove esistano o sopravvivano funzionanti, malgrado i tagli forsennati alla “Sanità” spacciati per spending review – sono concepiti e organizzati con finalità che spesso attingono vette di eccellenza super-specialistica, ma talmente chiuse, così rigidamente osservanti il recinto delle classi d’età, da emanare il tipico odore stantio di hortus conclusus.
 
 
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2. La parola, le parole.
 
Le tre parole scelte dagli organizzatori del Convegno per titolare questo incontro, vulnerabilità, fragilità, crisi necessarie, contengono e descrivono con sufficiente chiarezza i mutamenti subentranti e le molte insidie che tratteggiano l’incerto, cangiante, ricchissimo panorama della vita umana che chiamiamo “adolescenza”. Non uno, ma molti volti, (è detto con efficace pregnanza) aspetti, travagli, storie di vita, infinite esperienze del divenire sul fronte del vivere per crescere, per diventare giovani donne, giovani uomini.
Dai nomi che campeggiano sul programma e dai temi annunciati, risulta una vera e propria koiné come dicevano i Greci antichi, per confrontarsi, conoscere, dibattere e riflettere; per avvicinare, comprendere e sostenere “l’adolescenza” –  quella a disagio, in particolare – secondo una corretta bioetica quotidiana. Specificazione ulteriore, quasi superflua, se non fosse che spesso, oggi, la locuzione, i termini, le parole, sono usati con significati lontani dalla semantica. Non raramente, soprattutto nei media, il verbo si è fatto urlo, minaccia, insulto.
Per interagire con gli oratori, e con l’uditorio, avevo in mente una conversazione, sulla base della mia esperienza, che riguardasse l’adolescenza dell’essere umano, le sue necessità di armonico sviluppo e i suoi portati culturali, proprio quando il corpo e la mente cambiano stato. Quella fase critica in cui si manifesta la muta del soma e del pensiero, in un succedersi di passioni, entusiasmi, eroismi talvolta, ma anche frustrazioni, disperazioni, sofferenze e fragilità, come, per l’appunto, si è sottolineato.
Tutto è comprensibile, tutto è nell’ordine naturale delle cose, nondimeno tutto è ingigantito dalla forza propulsiva della parte biologica di quel giovane Dasein, che si mondanizza pienamente nei modi e nelle forme di presenza adolescenziale. Viene facile pensare ad un vettore spaziale, sparato nella parabola della vita, che rotea fino a quando non siano compiute tutte le orbite che il destino ha assegnato a ciascuna esistenza. “Riti di passaggio”, spesso frenetici, in una società tecnologica digitalizzata. Crisi necessarie, è stato evidenziato. Sennonché la parola “crisi” oggi suona male perché è abusata, ma soprattutto utilizzata impropriamente per definire gli egoismi di pochissimi umani che hanno troppo, e la maggioranza dell’umanità che non ha di che sopravvivere.
Allora, tanto per ristabilire il senso e l’origine dei termini, dirò che la parola crisis (χρίσις = decisione, sentenza) nel greco antico degli asclepidi, risuonava a Pergamo, a Epidauro, più tardi a Coo (Ippocrate) e successivamente ancora, si poteva ascoltare anche nel latino di un medico illustre immigrato dall’Ellade: Galeno da Pergamo. La parola crisi, in quel contesto culturale, definiva un improvviso cambiamento (in meglio o in peggio) di uno stato di malattia per essere contrapposta alla parola “lisi” che indicava un decorso meno tumultuoso di attenuazione della patologia. Nondimeno, ove si faccia astrazione dalla fisiologia – che prevede nel ricambio organico del metabolismo un periodo anabolico e uno catabolico – tutti sanno che parlare di crisi dell’adolescenza significa evidenziare un cambiamento, un turbamento. Si vuole indicare il momento più critico della maturazione sessuale (la pubertà), ma anche attirare l’attenzione su uno stato transitorio di particolare difficoltà.
 
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3. La fenomenologia come indirizzo d’indagine dell’essere (sano o malato)
 
Specificando ulteriormente, diremo che il linguaggio qui utilizzato, è quello che più si adatta alle parole che raccontano gli esseri umani. Sarebbe meglio dire, che cercano d’illuminare l’umana presenza come ci sollecitava Danilo Cargnello; che tentano di gettar luce sul Dasein, come dicono i fenomenologi tedeschi. Noi cercheremo di raccontare, nella presente circostanza che si propone di dibattere il tema dell’adolescenza, in termini aderenti alla realtà, la nostra esperienza, maturata nelle istituzioni della salute mentale, su una popolazione di giovanissimi, in attesa di divenire adulti, nella loro metamorfosi più significativa. Soggetti umani (sani o malati, non fa differenza, perché vale il principio assoluto di intersoggettività), intenti a cogliere gli esempi migliori per definire la loro identità, quella che meglio corrisponda alle loro pulsioni, alle loro esigenze, ai loro desideri al loro equilibrio col mondo naturale e con quello della co-esistenza con l’alterità. Bruno Callieri, prendendo spunto dalla lezione di Gabriel Marcel (1889-1973), non perdeva occasione per ricordarci che esse est co-esse [6].
In esergo ho riportato il celebre aforisma ontologico di Heidegger Il linguaggio è la dimora dell’essere. Al suo riparo, abita l’uomo, contenuto nella sua controversa Lettera sull’umanismo. Il filosofo tedesco, passando dai temi esistenzialisti a quelli ontologici relativi alla verità dell’essere, diviene oscuro; usa una forma di linguaggio di tipo oracolare, che è più prossimo alla poesia ermetica. Sembra ispirarsi all’oscuro Eraclito, al suo “logos indiviso”, la legge segreta del mondo, che regola l’armonia e l’equilibrio dei contrari.
La follia, però, sorella povera della poesia come scrive Eugenio Borgna, è ancor più oscura dei poemi orfici e, la disciplina che si propone di studiarla, è la psichiatria, che di per sé è ambigua, come ci dice Danilo Cargnello; tanto per chiarire. Dunque, si rendono necessarie, almeno in via preliminare, alcune riflessioni di base. Cargnello, per l’appunto, in un suo vecchio saggio: L’ambiguità della psichiatria, riproposto e brevemente introdotto da Luigi Calvi sulla sua rivista “Comprendre” enunciava alcune di queste ambiguità. Ne riportiamo alcuni frammenti [7] 
 
“Le seguenti enunciazioni di Ludwig Binswanger (a cui dovrebbero essere affiancate non poche altre di importanti studiosi di similare orientamento) – scriveva Danilo Cargnello circa vent’anni fa – rese note tra gli alienisti specie subito dopo l’ultimo conflitto mondiale, ebbero una risonanza non lieve nel mondo della psichiatria:
«Se mi chiedete [...] quando il parlare [8] si presenta nel mondo come “espressione vivamente significativa”, come annuncio linguistico [9] e partecipazione di pensieri, come domanda e risposta su qualcosa [10] , (…) come colloquio, come dialogo ,[11] io vi rispondo: solo nell’uomo».
«Se c’è parola c’è mondo, e peraltro il linguaggio dell’uomo è anche – in un senso puntualmente definibile dopo Nietzsche e Heidegger – creatore di mondo [12]. Per comprendere questo significato di mondo dovete chiarirvi che l’ente, l’essente [13] non ci è immediatamente accessibile, ma sempre e solo come qualcosa, come questo o quello. In altri termini: ci è accessibile solo secondo come lo comprendiamo e ci interessa, secondo come ad esso ci rivolgiamo, come lo pratichiamo, come ci si offre, ci sorprende, ci corrisponde. In tutti questi modi in cui esso ci diventa accessibile, significativo e manifesto si costituisce per noi in primo luogo come mondo».
«L’essenza dell’essere-uomo è così intimamente connessa al linguaggio che anche oggigiorno possiamo dire con Wilhelm von Humboldt [14]: «L’uomo è uomo solo attraverso il linguaggio; ma per scoprire il linguaggio dovette già essere stato uomo».
«È primieramente nel linguaggio che l’essente perviene a un mondo non solo divisibile (reilbar), ma anche comunicabile (mitteilbar), per un insieme di appagatività (di destinazione) su cui è possibile intendersi, su cui è possibile un’intesa [15]».[16] 
 
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4. Anamnesi anche come ascolto di narrazione della storia interiore.
 
Non sempre è agevole indovinare la lunghezza d’onda, la giusta sintonia per mettersi con l’orecchio sulle frequenze del soggetto, quand’è in sofferenza. Specialmente se è in età evolutiva. I neonati, i piccini, i bimbi in età prescolare, per esempio, ma anche quelli che sanno leggere e scrivere e manovrare le consolle polimediatiche con abilità stupefacenti (facendo più cose contemporaneamente), usano linguaggi verbali e non verbali particolari. Gli adolescenti hanno un loro gergo e un loro mondo. O lo conosci, lo studi, o sei escluso dal processo interattivo.
Per interloquire coi piccoli, con gli adolescenti, coi giovani, ma anche con gli anziani, si deve praticare un’intersoggettività autentica e rispettosa di ciascun ruolo.
Lo stesso tipo di relazione che si usa col mondo dei sani, dev’essere perseguito col sofferente mentale, sul terreno della psicopatologia: è solo necessaria un po’ più di pazienza. In ogni caso, l’osservatore psicopatologo, deve tener conto che, a sua volta, è osservato, dai suoi piccoli pazienti. Essi colgono immediatamente le sue incertezze, le sue inautenticità, le assenze di entusiasmo e di convinzione. Più sono piccini, più le osservazioni partono dal basso per salire in alto, e più sono minuziose, inaspettate, sorprendenti.
Sul frontespizio della clinica Pediatrica del policlinico Umberto I di Roma – dove ho studiato medicina – ci sono incise tre parole di un’immagine folgorante di Leonardo da Vinci (1452-1519): In puero homo. Il talento universale dell’onnisciente maestro dal Rinascimento fiorentino aveva colto perfettamente il divenire dell’essere. Il suo pensiero ci propone una sintesi eidetica di straordinaria efficacia: nel bambino si intuisce come sarà da uomo e viceversa: nell’uomo si può immaginare come probabilmente sarà stato da bimbo. C’è però un dettaglio, per nulla irrilevante: quando l’Io si è formato, il gioco più importante della vita è fatto. L’adolescenza si è compiuta. Conoscere le dinamiche complesse che si succedono in questo eccezionale snodo dell’esistenza dell’essere è fondamentale. 
Va comunque sottolineato che, tra le due condizioni umane, dal punto di partenza al punto d’arrivo, c’è una distanza considerevole. Ciò che si trasforma, che cambia, che subisce metamorfosi, per l’appunto nel periodo dell’adolescenza, non dev’essere dato per scontato, progressivo, fluente, automatico, pacifico. Al contrario, è radicalmente discontinuo nella medesimezza dell’essere [17]. C’è un salto, nell’esperienza adolescenziale, tra prima e seconda adolescenza, che procede per balzi successivi; una trasformazione ingravescente, marcata dalla pubertà, che sconvolge anima e corpo, una magmatica eruzione di lava che inonda e trasforma la vita, il ruolo, la responsabilità e la prospettiva dell’umana presenza, femminile e maschile. Si pensi agli imbarazzi che possono provocare la comparsa del menarca nelle ragazze e le erezioni improvvise nei ragazzi
Un vero e proprio transito di mondi, spesso con slanci generosi, nobili ideali, inclinazione a compiere gesti eroici, atti temerari. Un tempo irripetibile. Quella sorta di leggendario “passaggio a nordovest” – o se si preferisce “doppiaggio di Capo Horn” – che chiamiamo adolescenza. Tutta l’umanità è convocata ad esperisce questo cimento naturale: ragazze e ragazzi che diverranno giovani donne e giovani uomini.
 
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5. Metabletica come storia dei cambiamenti in adolescenza.
 
L’adolescenza, è sostantivazione del verbo latino adolescĕre, che significa «crescere» e, come tutti sanno, consiste in quella lunga fase biopsicologica trasformativa dell’età evolutiva che, con molta variabilità di genere e di culture, si considera svolgersi tra i 13 e 20 anni.
Meno noto è il fatto che nelle istituzioni deputate al trattamento delle patologie pedopsichiatriche, il compimento del diciottesimo anno costituisce un dramma per i giovani assistiti, in quanto il raggiungimento della maggiore età obbliga la struttura ospitante, titolare della cura in quanto pertinente alla “Neuropsichiatria infantile”, ad espellerli, indipendentemente dalla guarigione, senza che sia prevista la prosecuzione della presa in carico del soggetto in presidi psichiatrici per adulti. 
Metabletica è parola erudita introdotta dallo psichiatra olandese Jan Hendrik van den Berg nel 1956. Nato nel 1914 a Deventer, città anseatica dei Paesi bassi, lungo le rive del fiume Ijssel, dopo aver compiuto gli studi di medicina si era specializzato in psichiatria e aveva abbracciato l’indirizzo di psicopatologia antropofenomenologica tracciato da Ludwig Binswanger. Gli olandesi non sono stati famosi soltanto come esploratori di mari [18] o per aver creato imperi commerciali di sfruttamento delle colonie con la Compagnia omonima delle Indie Orientali, ma anche per aver dato i natali a Spinoza [19], straordinario pensatore che anticipa l’Illuminismo e in un certo senso la psicoanalisi freudiana: artigiano delle scritture antiche che inizia l’esegesi biblica moderna, oltre che abilissimo tornitore di lenti per rendere la visione delle cose più chiara.
La Metabletica è un pretesto per parlare di anamnesi nella sua forma più elevata  di ascolto dell’altro; di consentire al paziente di raccontarsi, quando sia sicuro di essere ascoltato e compreso dal terapeuta. Metabletica è trasformare una successione di notizie cliniche nella narrazione di una storia interiore: l’Innere lebensgeschichte degli autori di lingua tedesca. Specialmente in psicopatologia, significa anche fare terapia, vuol dire ricostruire – qualora riesca – una identità frantumata dalla prima esperienza psicotica. Quando Jan Hendrik Van den Berg introdusse la nozione di metabletica (1956) nel campo delle scienze umane, non proponeva una novità in assoluto.
Era nota la posizione olista: “Teoria biologica secondo la quale l'organismo può essere considerato solo nella sua totalità e completezza e non come somma di parti irrelate” (Sabatini e Colletti, 1963). Era nota la visione olistica nelle applicazioni psicoanalitiche di Karen Horney (1885-1952) [20] e nella teorizzazione dello statista sudafricano Jean Smuts (1870-1950).
Ma la scrittura biografica era appannaggio degli storici, seppure non proprio materia di primo piano [21]. Comunque sia, gli storici, (grandi e piccoli, di qualunque corrente), non hanno mai inteso rinunciare anche a questo loro dominio, quello sulla psicostoria.
Peraltro già si stavano sagacemente interrogando se valesse la pena sostituire il termine di Psicostoria, che conoscevano perfettamente, con quello di Metabletica, questa parola inventata dal greco e suggerita da uno psicoterapeuta che, dopotutto, storico non era [22].
Lo psichiatra, psicopatologo e psicoterapeuta Van den Berg, partiva da un dato elementare, ma obbligatorio, nelle procedure medico-psicologiche (e psicoterapeutiche): la raccolta anamnestica (fisiologica e patologica prossima e remota) relativa, non solo allo sviluppo psicomotorio, alla dentizione, lallazione, locomozione, alle malattie esantematiche (quelle sessualmente trasmesse ove prescritto), altre eventuali, di una certa importanza, interventi chirurgici, la scolarità, il servizio militare (se previsto) e quant’altro del soggetto, ma non si fermava qui perché l’atto medico prevedeva anche la ricostruzione di una piccola storia (ossia una biografia) ossia un’inchiesta sui familiari concernete ascendenti collaterali, ecc. (ora la biotecnologia, la mappatura genetica consentano indagini molto sofisticate).
Per quanto riguarda la “clinica” e, in alcuni aspetti anche la “terapia”, della medicina mentale, Jan Hendrik van den Berg è stato uno dei pochi psichiatri che sia riuscito a trasformare l’anamnesi in una piccola biografia – quella che i clinici di lingua anglosassone chiamano case story, un miniracconto esistenziale: una narrazione della presenza, del Dasein dei propri pazienti, ma anche delle persone normali. Questo suo approccio lo ha chiamato metabletica e, a mio modo di vedere è utilissimo per cogliere tutte le sfumature di quel rito di passaggio che porta i ragazzi a diventare giovani adulti: l’adolescenza.
Uno degli aspetti da sottolineare nel tema in discorso è che Jan Hendrik van den Berg è stato uno psichiatra, psicopatologo e psicoterapeuta, di impostazione fenomenologica. Egli usava lo stesso linguaggio di Ludwig Binswanger, il medesimo di un piccolo gruppo di maestri della psichiatria italiana del Novecento, esclusi dall’insegnamento universitario [23]. Maestri Senza cattedra, hanno felicemente titolato un loro testo recente Mario Rossi-Monti e Francesca Cangiotti. Essi hanno compiuto una lodevole indagine su “Psicopatologia fenomenologica e mondo accademico”, intervistando “Arnaldo Ballerini, Eugenio Borgna, Bruno Callieri, Lorenzo Calvi, Luciano Del Pistoia, Filippo Ferro, Ferruccio Giacanelli, Giovanni Gozzetti, Carlo Maggini, Clara Moscatello, Fausto Petrella”, ossia i protagonisti della psichiatria fenomenologica italiana della seconda generazione [24].
 
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6. La psicopatologia antropofenomenologica guarda all’infanzia e all’adolescenza.
 
Per riprendere la questione sulla neuropsichiatria infantile, che era sorta, agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, tra due (Antonucci e Mellina) dei tre primari di salute mentale della psichiatria riformata, nell’area sud ovest di Roma, dirò che essi presiedevano alla organizzazione dei servizi delle municipalità nell’ordine seguente: Fausto Antonucci (V), Antonino Lo Cascio (VII) e, chi scrive, (VIII e X).
Ciascuno proveniva da una impostazione psicodinamica della psichiatria e da differenti esperienze antimanicomiali: il primo possedeva una visione psicosociale maturata inizialmente nella neuropsichiatria infantile di Giovanni Bollea, successivamente a Pisa (Istituto “Stella Maris”) e infine in Umbria. Il secondo aveva una solida formazione junghiana acquisita con Ernst Bernhard (di cui era stato allievo diretto), inoltre era “didatta” dell’AIPA (di cui era stato anche presidente). Chi scrive, infine, possedeva una visione antropofenomenologica della sofferenza mentale, ispirata da Bruno Callieri, ritenuto non solo Maestro, ma fratello maggiore, essendone ricambiato in stima e affetto.
Con Fausto – che ricordo affettuosamente per la sua primigenia ed appassionata competenza in neuropsichiatria infantile collegata alla psicoanalisi e il suo progetto, coincidente col mio, di far continuare l’attività dello psichiatra dell'età evolutiva in quello dell'età adulta – la querelle, più che altro teorica, consisteva nel velato rimprovero da lui rivolto alla psicopatologia antropofenomenologica di non aver saputo attrarre gli neuropsichiatri infantili e, sostanzialmente, di aver trascurato l’infanzia e l’adolescenza a vantaggio esclusivamente degli adulti. “Jaspersiani” “binswangeriani” – a suo modo – attendevano la formazione dell’Io per poter parlare coi loro pazienti,  un’imperdonabile perdita di tempo.
Mi ero ripromesso di smentirlo e di provargli il contrario con una revisione approfondita dell’argomento a partire dal “Simposio di Rapallo” del 1960 sulle sindromi depressive, dove “per sbaglio” (si malignava tra noi giovani specialisti romani di Gozzano e Reda del triennio 1958-60) era uscito un tema sulle sindromi depressive dell’età evolutiva anziché dell’età involutiva [25], per cui si era dovuto trattare forzatamente la questione infanto-adolescenziale.
Successivamente, durante le turbolenti vicende del contestatissimo Convegno della SIP a Milano, nel 1968, c’era stata la fulgida “Relazione” di Aldo Giannini sull’esordio psicotico schizofrenico in adolescenza, con la narrazione di due casi struggenti: una sedicenne di nome Maria e un ventenne di nome Claudio al secondo anno d’ingegneria [26]. Il clima rivoluzionario della contestazione di quell’epoca era nettamente in contrasto col rispetto che Giannini riservava ai propri pazienti verso i quali si giustificava pubblicamente di rivelarne i sentimenti più intimi con queste parole introduttive.
 
«Permettetemi ora di presentarvi succintamente alcuni casi, di cui non tenteremo una riduzione organicistica né una riduzione psicologico sociologica. Ritengo che essi, i malati, abbiano diritto di comparire in questa assise, nella loro irripetibile singolarità al di fuori di sterili prese di posizione aprioristiche».
 
Il tono vibrante, giustamente drammatico dell’oratore, come si conviene alle vicende enigmatiche e dolorose della follia, ricordava quello pirandelliano dei Sei personaggi. Il rispetto dovuto alla persona malata, alle parole che pronuncia, alle sue scelte e alle sue costrizioni esistenziali – al suo destino, se si preferisce questo termine e alle categorie imperscrutabili cui esso rimanda – era totale, quasi sacro. Non solo un sentire umano e paticamente vicino alla persona malata, ma addirittura in risonanza empatica con quella presenza, che è già un comprendere, un illuminare terapeutico.
La descrizione, con l’efficace linguaggio fenomenologico, è tesa soprattutto ad individuare ”le peculiarità del «typus» schizofrenico” cercando di coglierlo da “specifiche situazioni prepsicotiche obbiettivamente non appariscenti e generalmente non afferrabili tramite l’anamnesi oggettiva, che si sono dimostrate suscettibili di condizionare il mutamento psicotico endogeno”.
Entrambi i ragazzi avevano rivelato, con piccoli segni, un graduale impedimento alla relazione intersoggettiva, già difficile e sospettosa per la loro indole. Entrambi, avevano perseguito una progressiva distanziazione dell’altro, fino ad innalzare una vera e propria barriera col mondo esterno. Esso veniva percepito come ostile, intrusivo, minaccioso, spossessante dell’intimità. Un’arcana entità esterna s’era impadronita del pensiero e, leggendolo, lo rendeva automaticamente palese, “un attimo prima” che si fosse potuto formulare anche il minimo proposito. Un furto intollerabile del pensiero, vanificava la volontà, riduceva la persona in schiavitù che si trovava, inerme, in balia dell’alterità e del mondo. Una condizione soverchiante, implacabile, senza via di scampo se non quella di uscire dalla propria storia di mondo, che definiamo destoricizzazione, a partire da Ernesto de Martino.
Ma, qualche frammento (p. 267-268) del testo originale di quella lezione indimenticabile, renderà questa narrazione, tragica, della follia più evidente.
 
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7. Maria, di cui ci parla Aldo Giannini, ha sedici anni.
 
«… Il serbatoio delle possibilità comunicative di Maria – dice Giannini – si era esaurito in una unione stretta, seppure ambivalente colle figure parentali e con una zia eccessivamente premurosa. La ragazza, cessati gli studi inferiori, si impiega come apprendista segretaria in un ufficio legale della sua città, affrontando il mondo schivo e sfuggente. […] non si sofferma per la strada, non indugia colle compagne, ella salta da casa all’ufficio e dall’ufficio a casa. In ufficio sta per conto suo, non entra a contatto colle altre colleghe […] presa dalla nuova attività si sente tranquilla e relativamente sicura anche fuori casa. In questo spazio dell’ufficio, nello spazio orientato e pragmatico così come nella propria dimora, […] però non avanza nel suo progetto di mondo, […] non si apre all’incontro interumano non si declina in veridica coesistenza».
 
Ed ecco il crollo, gli argini che saltano, nulla più “si tiene” e l’Io va in pezzi.
 
«… Il primo incontro coll’altro, lo farà un giorno di Estate quando si reca all’ufficio indossando un vestito attillato che pone in evidenza le sue acerbe ma provocanti femminilità. Quel giorno per la prima volta coglie nello sguardo del capoufficio un significato sconvolgente; il suo capoufficio l’ha guardata come «si guarda una donna», l’ha spogliata collo sguardo. Da quel giorno Maria diventa trasparente agli sguardi degli uomini. A nulla vale lasciare il lavoro, sfuggire la gente, ritirarsi in casa e quivi appartarsi ed isolarsi. Anche nella propria casa è raggiunta dallo sguardo del padre che la osserva in modo immondo come gli altri uomini, e così pure la zia con le sue premure accresciute suscita conturbanti pulsioni omosessuali. La sua ritrosia, l’esserci fisicamente appartata dal mondo, non sono più sufficienti e capaci di mantenere la distanza esistenziale. Maria ora è divenuta scoperta, nuda, trasparente, tutti possono leggere i suoi pensieri, tutti possono scrutare negli angoli più segreti della sua anima; ha perduto la propria intimità. Il suo corpo non è solo un «indifeso campo su cui passeggiano gli occhi della gente» […] il suo corpo ora è addirittura toccato, afferrato, posseduto, violato e violentato».
 
***
 
8. Claudio, l’altro paziente di Giannini, ne ha venti.
 
L’altro caso (pp. 268-270) riguarda un ragazzo ventenne molto intelligente al secondo anno d’ingegneria con una carriera scolastica eccezionale che dopo qualche giorno da un insuccesso sportivo, ha presentato un quadro schizofrenico ad esordio acuto. È di famiglia borghese benestante: il padre è un affermato professionista, la madre una donna colta che si occupa prevalentemente della casa.
 
«… prima di ammalarsi ha portato a termine tutti gli esami del biennio di Ingegneria, al primo appello, conseguendo il massimo dei voti e la lode. Coltiva un hobby sportivo: quello della vela. Fin da piccolo il padre l’ha condotto con sé e ne ha fatto un provetto velista, capace di competere da primatista in gare nazionali ed internazionali. Le ore libere dallo studio, le vacanze, le giornate di festa, le trascorre a mettere a punto la barca, e a studiare i percorsi di gara ad allenarsi col padre. Dal padre ha appreso che non conta solo partecipare alle gare, è importante anche e soprattutto vincere».
 
Dalla famiglia di Claudio, non giungono segnali di concordia, ma, al contrario, sollecitazioni contrastanti talune perfino di quelle cosiddette a “doppio legame” come: sforzati di essere naturale. A frugare nelle dinamiche familiari, particolarmente nelle scissioni genitoriali, lo avevamo imparato dalla Scuola psicoterapeutica di Palo Alto sugli assiomi della comunicazione umana,  dalla lezione dell’antipsichiaria inglese di Laing e Esterson sull’ipocrita perbenismo piccolo borghese della vita familiare degli anni Sessanta, dalla filmografia di Ken Loach (Famly Life, 1971).
 
«… L’ambiente familiare di Claudio non è affatto armonioso: la madre vorrebbe che il figlio si riposasse, andasse con gli amici a fare gite, a ballare come fanno tutti i ragazzi della sua età […] lo considera tuttora un bambino bisognoso di tenerezze e di amorevoli cure; lo vorrebbe proteggere dal padre che ritiene un infatuato, un fanatico e che ha imposto un assurdo modello di vita spartana al figlio. Di contro il padre è fermamente convinto di esercitare una salutare opera educativa sul figlio e in ogni occasione tenta di allontanarlo e di proteggerlo dalle soffocanti cure della madre, affetta a suo dire da una forma inguaribile di mammismo».
 
Uno dei classici del double bind: «il bue che dà del cornuto all’asino» recita un adagio. La mamma mammista, a detta del padre, è un controparadosso, un’antifrasi della più bell’acqua come oggi si sente spesso dire in una certa Padania (o Padanìa): «sunt minga mi razzista, l’è lu’ che l’è neger».
 
«… Claudio può essere giustamente considerato l’ovvio risultato della contraddittorietà, inconciliabilità degli atteggiamenti e dei messaggi familiari.
Così viene definito il suo profilo caratterologico: ha una volontà di ferro, dimostra una sicurezza folle in tutto ciò che fa; è alla continua ricerca della perfezione; è un programmatore instancabile ed indefesso, su un taccuino annota tutti i suoi programmi concernenti lo studio e l’attività agonistica, programmi che sistematicamente ed infallibilmente vengono poi eseguiti nei minimi dettagli e nei tempi stabiliti […] sempre serio difficilmente è stato visto ridere o sorridere; ha pochi compagni, non ha mai avuto un vero amico, non ha mai avuto accesso al mondo femminile né ha ancora programmato di avere esperienze amorose nel prossimo futuro […] coi suoi coetanei […] si mostra  impacciato e timido e diviene addirittura balbuziente, [li trova] banali, sciocchi e superficiali; «in genere» dice «trattano argomenti futili.
Poche settimane prima della malattia il padre gli regala una nuova imbarcazione e […] non ha il tempo sufficiente per armarla e metterla a punto: sbaglia l’altezza della deriva ed in una regata importante arriva ultimo.
Non sa dapprima capacitarsi dell’accaduto non riesce a tollerare la sconfitta, sente perdere la fiducia in se stesso, gli sta crollando il mondo addosso. Si sente abbattuto, affranto, sopraffatto».
 
Giunge inatteso, inspiegabile, stupefacente, l’imprevedibile scompenso di Claudio. Come lo squarcio del lampo e il rombo del tuono improvvisi, irrompono a ciel sereno e fanno rabbrividire, così la crisi psicotica erutta lava incandescente nel mondo convenzionale, trabocca da una zona sismica sottovalutata, misconosciuta o piuttosto cocciutamente ignorata, fino a quando “tutto si tiene”, come con una felice espressione Mario Rossi-Monti, in Psicopatologia dell’esordio psicotico [27], condensa l’attimo prima della tracimazione dell’Esser-ci, fuori dai confini del leib.
È quando ancora l’Io tiene incollati tutti i propri pezzi come un puzzle ideo-affettivo nella cornice somatica del körper, un unicum bios/eidos. Poco prima che lo specchio io/corpo vada in pezzi, frantumato dal maglio dell’esperienza psicotica. Il momento limite, strategico, cruciale, una sorta di “codice rosso”, di difficile individuazione, che non si riconosce quasi mai, se non “a posteriori”. È l’amletico nodo da sciogliere (Aye, there's the rub) di una prevenzione precocissima. È il timing ultimo, in cui bisognerebbe poter intervenire – avverte Rossi Monti – per fare vera prevenzione psicopatologica prima che si verifichi quello che gli anglosassoni chiamano il break down psicologico che annuncia l’introito alla psicosi  bleuleriana.
 
«… Improvvisamente Claudio è crollato: fino ad allora aveva primeggiato a scuola e nelle competizioni sportive, aveva considerato gli altri contendenti non come suoi partner, ma come strumenti della propria affermazione e dei suoi successi. Ora inaspettatamente è caduto dalla sua elevata posizione di dominatore ritrovandosi al livello e sullo stesso piano degli altri anzi addirittura al di sotto di questi.
Ora è un dominato, i partner sportivi compaiono nel suo delirio con fisionomie piene di sarcasmo e di disprezzo, ode le loro voci calunniose. […] sceso dal suo piedistallo, e confusosi tra la folla delle comparse, non ha saputo reggere al confronto, l’incontro con gli altri sullo stesso piano esistenziale è stato distruttore e travolgente».
 
Questi sono i vissuti di sconfitta, le inattese esperienze esistenziali nella dimensione della perdita, che la clinica indubbiamente appalesa e registra, di cui, però, avverte acutamente Giannini
 
«… non interessa tanto discutere sulla eventuale genesi del carattere di Claudio, sull’importanza dell’identificazione col padre e sul rifiuto della figura materna, né tanto meno vale porre in rilievo il peso patogenetico della condizione di scisma familiare e del carattere contraddittorio ed incongruente dei messaggi parentali sulla successiva evoluzione schizofrenica, aspetti questi di cui siamo stati ampiamente informati dagli AA. Americani e di cui recentemente in Italia è stata fatta una lucida messa a punto da Gentili e Rebecchi. A noi interessa soprattutto fissare alcuni punti circa i rapporti ed i rimandi significativi che intercorrono tra modalità di esistenza prepsicotica e situazioni immediatamente precedenti l’esordio dell’episodio dissociativo».
 
Attenzione, perché nel caso in discorso, quello di cui ci parla Giannini, ci troviamo nel pieno delle mutazioni adolescenziali, ossia siamo più vicini all’approdo sulla sponda adulta, di quanto si sia lontani dal punto di partenza puberale.
 
«… Claudio è un esempio di sproporzione antropologica; egli è salito troppo in alto, ha teso verso un irrigidimento ascensionale per una assoluta prevalenza dell’altezza della decisione nei riguardi «dell’ampiezza dell’esistenza». La presenza di Claudio come opportunamente afferma Castellani «si è smarrita nell’adesione cieca, incondizionata da una idea, ad un ideale, ad una rigida impostazione di vita, per cui gli è stato impedito ogni ulteriore movimento esistentivo e coesistentivo». L’esistenza di Claudio avrebbe detto Binswanger si è preclusa l’accesso alla patria e all’eternità dell’amore e dell’amicizia, si è isolata, e si è preclusa lo scambio cogli altri e quindi l’espansione e l’arricchimento che solo in questo ambito sono possibili.
 
Gli elementi caratterizzanti questa fase prepsicotica del Dasein, che emergono nell’esperienza del ragazzo, sono
 
«… Il crescente irrigidimento e la fissazione dello schema vissuto di programmazione coprono e mascherano la frattura e la dissociazione esistenziale di Claudio, la sua impoverita e raggrinzita Mitwelt (essere con i suoi coetanei). È bastata una sconfitta perché il confronto cogli altri l’abbia fatto cadere dal suo fragile piedistallo, perché il venirsi a trovare sullo stesso piano esistenziale degli altri, gli fosse fatale».
 
***
 
9. Prima dell’Apocalisse.
 
La distanziazione, più esattamente, la regolazione della prossimità dell’altrui presenza, nelle falde più periferiche dell’Io, viene eretta a strumento di difesa, diventa modello di vita. Vita agra, coartata, angusta. L’esistenza terribile dell’Io smarrito, ma ancora vivibile perché ancora “tutto si tiene” (Rossi Monti, 2013).
Ma un punto merita di essere rilevato con speciale attenzione. Quel particolare passaggio dell’adolescenza in cui tutto è in espansione, proiettato verso traguardi ambiziosi, progettato (più o meno) meticolosamente per un futuro grandioso, dove anche il più piccolo mutamento dell’Io (spesso umbratile, in adolescenza), non deve essere sottovalutato. Giannini approfondisce circostanziatamene l’indagine psicopatologica di questi aspetti dell’adolescenza, proprio perché spesso la fragorosa festinazione di entusiasmi, della “carne che cresce”, come dicevano i miei nonni, fa passare inosservata qualche defaillannce psicologica, del ragazzo.
Il clima eroico e solitamente spericolato dell’età evolutiva in adolescenza, rende estremamente difficile l’individuazione di un indizio di significato prepsicotico. Una breve pausa, una minima delusione, una piccola escoriazione narcisistica, può capitare senza creare allarme. Altre volte invece, fortunatamente di rado, cela il dramma. Sarebbe, dunque, strategicamente importante, per la prevenzione psicopatologica, cogliere e valutare l’evoluzione di quella apparentemente “insignificante” anomalia. Nel caso di Claudio, l’anomalia sembra consistere in questa tenuta a distanza dell’alterità, non cercarla più, anzi, rendersi furtivamente periferico da essa, allontanandosene progressivamente. Scrive Giannini
 
«… Lo stile di vita all’insegna del rigido mantenimento della distanza nei rapporti interumani rappresenta un radicale strutturale fondamentale del candidato alla schizofrenia.
La vicinanza dell’altro non è tollerata, poiché l’altrui presenza è oscuramente avvertita in una univoca qualificazione di minacciante intrusione o invadenza».
 
Questo è il passo immediatamente precedente l’esordio psicotico schizofrenico, quello successivo sarà l’introito al delirio. Cosa possiamo evocare, per tentare di comprendere lo stato d’animo di questo ragazzo che sta perdendo contatto con l’evidenza del mondo naturale. Quali parole si possono usare per cercare di raccontare la sua disperazione, l’angoscia smondanizzante, per trovarsi senza scampo, in questa tremenda esperienza di solitudine, a fronte dell’irreparabile che sta per abbattersi su di lui. Forse quelle delle Sacre Scritture? [28].
Come raccontare quella che intuiamo essere una inaudita esperienza di perdita di senso del mondo, delle cose, delle persone; una lancinante trasfigurazione del reale, del tempo, dello spazio, del colore, del rumore, della luce; di tutto quanto sta fuori di lui, del suo mondo interno, eppure lo invade, lo penetra, lo ferisce, lo frantuma, poi lo immobilizza, lo imprigiona, allagando la sua sensorialità.
Esperienza di fine del mondo (Weltungangserlebnis), ebbe a definirla Bruno Callieri, in un lontano lavoro, apprezzato anche da Ernesto de Martino. Questa, più o meno, può essere immaginata come fenomenologia dello stato d’animo che precede l’introito alle esperienze psicotiche più conclamate, quelle deliranti, quelle allucinatorie, quelle smondanizzanti della schizofrenia.
Sulla base di racconti di pazienti adolescenti possiamo dire che – ma un clinico, di sufficienza esperienza, può confermarlo – l’insorgere di malattia conclamata, ossia l’introito all’esperienza delirante, tanto per fare un esempio concreto, può essere paragonato ad un sentire esasperato al limite dell’umano (il discusso “dolore psichico”), ad un trovarsi investito e risucchiato nel vortice di un “tornado”, oppure essere circondato da un silenzio irreale e terrifico, come quello che precede una catastrofe.
Può capitare – quando ormai gli ormeggi siano stati strappati dalla burrasca degli eventi prepsicotici, quando ormai non più “tutto si tiene” (Mario Rossi Monti 2013) – che il tuo stato d’animo sia quello di chi si sente minacciato da una punizione divina, annunciata dalla radio, dalla televisione, dalla “rete”, dal minischermo del tuo cellulare che s’illumina stranamente e la suoneria non emette più il suono abituale… può capitare… ed è proprio quello il punto di virata… il momento in cui ti accorgi, d’un tratto, l’attimo in cui il tuo stato d’animo ti avverte, improvvisamente, che tutti questi mezzi meccanici estranei al tuo corpo, all’unisono “fanno proprio il tuo nome”. Magari, “pronunciano il tuo immondo peccato” o rivelano “altre tue colpe inequivoche”… La tua colpevolezza è accertata senza ombra di dubbio, perché tutte codeste strumentazioni esterne l’annunciano concordemente fra loro (come fanno a saperlo, chi li ha avvertititi?). Le “macchine” che seguono la tua presenza o la precedono, sempre malevolmente, la perseguitano e non la mollano ovunque essa si tenti di nascondersi. È proprio questa sorta di ombra che non si stacca da te, che tramuta il dubbio in incrollabile certezza… verità assoluta, prefazionale, delirante, per l’appunto.
Questo particolare aspetto della psichiatria, della medicina mentale o, se si vuole, della psicologia del patologico con un connotato fortemente legato all’umano, supporta e giustifica il particolare linguaggio suggestivo, usato spesso da quegli autori ad indirizzo fenomenologico che parlano di “abisso”, “vertigine”, “baratro”, e aggettivano l’esperienza della follia come “inaudita”, “smondanizzante”, “destoricizzante” e così via.
Il linguaggio della follia, per quanto se ne sa, difficilmente può essere inteso, al di fuori della poesia, indubbiamente la sua sorella aristocratica e melodiosa. Difficilmente può essere raccontato senza l’ausilio del paradosso pirandelliano (Uno, nessuno e centomila), senza le spietate indagini dostoevskijane che seguono i gesti umani più inspiegabili, soppesandone le conseguenze, gli effetti emotivi, mentali e fisici (Delitto e castigo). Senza il registro fenomenologico, il mondo dell’alienazione mentale, avrebbe molte minori possibilità di essere esplorato, compreso, studiato e curato. La psicopatologia, a nostro avviso, non può che essere fenomenologica.
Per il clinico, per lo psicopatologo ad indirizzo fenomenologico, per chiunque si debba (o si voglia) porre all’ascolto della follia, in età adolescenziale, il problema centrale non è tanto quello di tradurre codesti segni preliminari che abbiamo cercato di tratteggiare, in una diagnosi corrispondente alla tassonomia dei moderni manuali diagnostici. L’obbiettivo è semmai quello di cercare di comprendere e dare senso a quella giovane presenza umana (femminile maschile) che, nel suo tragitto maturativo per diventare adulto, abbia ad esperire una dimensione altra, non-più-con-noi, quella dell’alienità. 
 
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10. La Lebenswelt del bambino.
 
Callieri, più volte si è occupato di bambini in qualità di psicopatologo. Ma anche come nonno, è tornato ad occuparsi approfonditamente e con passione dell’infanzia. In buona sostanza, non ha mai smesso d’interrogarsi anche sull’adolescenza, come in fondo ha fatto per tutta la vita, sulle molteplici stagioni dell’umana presenza. Per il tema in discorso, sarebbe utile richiamare le sue analisi minuziose intorno al mondo del bambino, alla sua Lebenswelt, alla sua oggettualità transizionale, al suo relazionarsi intersoggettivo col suo mondo fantastico e simbolico. Tuttavia, poiché esse sono copiose e disseminate nella sua sterminata produzione scientifica, sarebbe impresa titanica, anche solo richiamarne i titoli o darne una succinta bibliografia. Nondimeno, una specie di summa delle sue opinioni al riguardo, una citazione, fra le sue più recenti, che mi balza alla mente, è il lungo capitolo che Bruno Callieri dedica all’infanzia nel testo Corpo esistenze, mondi [29] .
L’ho molto apprezzato, questo capitolo, annotato sottolineato e più volte riletto. Si tratta di una delle sue ultime opere, sulla vita dell’essere umano, qui rischiarata soffusamente, senza abbagliare e colta delicatamente, proprio in quella declinazione esistenziale in cui il piccino esplora i sentieri, valuta, scarta, riprova, sceglie il cammino più confacente al suo procedere nella vita, che è soprattutto conoscere, apprendere, essere-con.
Un lascito intellettuale di impareggiabile nobiltà d’animo, questo suo scritto maturo, sereno, sensibile, avvolgente. Un testo che conservo preziosamente anche perché contiene una dedica autografa «al “fratello” Sergio», che allude alla compiaciuta complicità per il titolo d’un mio libro “Medici e sciamani. Fratelli separati“ che molto aveva apprezzato.
Al pari di tutti gli altri, anche il mondo dei più piccini, la loro Lebenswelt [30], è scrutata con cura amorevole. L’osservazione è silenziosa, paziente, proprio come quella che fanno i naturalisti appostati nascostamente, nei casotti, tra le frasche, nella savana… soltanto che Bruno la faceva, come del resto la faccio io, meno avventurosamente e senza nascondersi, nelle stanze domestiche o in giardino. Qui, nelle proprie dimore, i nonni più fortunati, che dispongano di molti nipoti, hanno l’opportunità e il piacere di ospitarli, di giocarci, di guardarli e di parlare con loro. Difficilmente i nipoti disertano una visita dai nonni. I vecchi suscitano curiosità, nei bimbi, raccontano il passato, lo tirano fuori dagli scaffali della memoria. Essi stessi sono un pezzo di storia.
 
Di codesto libro di Callieri, voglio richiamarne alcuni passi, perché l’accesso al mondo del bambino attraverso l’indagine della sua Lebenswelt, colta tanto nella sua esteriorità, quanto nella sua intimità, attraverso la relazione oggettuale, è di una evidenza solare dal punto di vista didattico straordinariamente efficace. 
 
«… Uno dei modi più accessibili della Lebenswelt nella sua pratica applicazione ci pare costituito dal mondo del bambino; […] sia nella stanza che egli abita, sia all’esterno, in una pregnanza ed in una assoluta specificità che si impongono d’emblée. L’orsacchiotto da una parte, la palla dall’altra, cuscini gettati per terra, palline che scivolano via, in una parola tutto ciò che può essere oggetto di giuoco, apparentemente indicano un disordine ed una trasandatezza che si discostano profondamente da quella che può essere la disposizione oggettuale dell’adulto. Tutto questo potrebbe essere inteso falsamente come Lebenswelt, in realtà è il mondo sociale e culturale proprio dell’infanzia, che di per sé non rimanda a quella presenza singola. In effetti, noi semplicisticamente estraiamo delle configurazioni particolari, non tenendo nessun conto dell’intenzionale e singolare articolarsi dell’oggetto agito con l’agente».
 
Sotto certi aspetti può ricordare il mondo dello psicotico, quello del bambino che, nei suoi giochi, va diretto allo scopo senza mediazioni. Realizza immediatamente i suoi desideri, le sue pulsioni, le sue fantasie di sparizione. Ipso facto attua le sue verifiche sulla sua realtà. La vita e la morte non hanno lo stesso significato che per gli adulti. I compagni di giochi, i rivali, i nemici (spesso i fratelli, le sorelle), possono essere eliminati, sic et simpliciter, magari per strozzamento, che è il metodo più pratico.
Nel bambino – che va sorvegliato a vista, perché lui sì che è “pericoloso”, non il “malato mentale” dipinto dalla vecchia Legge 36/1904 [31] – questa condotta è fisiologica, mentre diviene patologica se persiste nell’adulto. Come che sia il bambino normale, fondamentalmente gioca, vive giocando e, giocando, esprime la sua personalissima modalità di mondanizzare la propria individualità.
 
«… Dobbiamo lasciar da parte tutto quello che è già scontato, pre-dato e convenzionalmente inerente alla puerizia per cercare di cogliere quell’irripetibile connotato che rinvia ad essa nella sua essenza. Ad ogni fase di sviluppo del bambino corrisponde inevitabilmente anche una diversa strutturazione del mondo oggettuale. Ad esempio un vagoncino lasciato con lo sportello aperto pone di più l’accento verso una condizione di scarsa capacità di utilizzazione dell’oggetto, che invece viene fruito nella completa individuazione quando si passa a dominarlo e comprenderne i limiti e le possibilità della sua utilizzabilità. Ogni singolo oggetto manifesta una maggiore o minore capacità indicativa, indubbiamente legata alla nostra capacità a decifrare e, latamente, a1l’intenzione, più o meno espressa, di comunicare. Certi oggetti infantili sono vettori univoci di messaggi: ad esempio un gioco di pazienza sfasciato. Altri invece ci restano, muti ed enigmatici nel loro significato preciso, anche se genericamente possono denunciare qualche cosa sul contatto più o meno immediato tra il bimbo ed il suo oggetto, ad esempio una palla od un triciclo».
 
Splendida la tecnica di osservazione sulla “puerizia” del “nonno” Callieri che fa della fenomenologia pura, soltanto entrando nella stanza del nipote a curiosare. Egli guarda da lontano gli oggetti che manipola e dissemina il bimbo, i balocchi di cui si circonda; traguarda in prospettiva l’insieme del mondo del piccolo bambino, di come ad esso egli vi si relazioni.
Ma poi, inappagato, Callieri scende nel dettaglio, e zumma sul particolare dell’oggetto, come i vecchi neuropatologi, che gli sono e mi sono stati maestri, quelli della mitologia cerebrale [32], tanto per intenderci. Costoro, fochettavano con la micrometrica sul vetrino di tessuto nervoso del preparato cromoargentico di Golgi o l’impregnazione argentica di Nissl, per evidenziare il nucleo del neurone gigantopiramidale, l’assone, l’albero dendritico, la glia, le neurofibrille, per distinguere il parenchima, tessuto aristocratico, nobile, e differenziarlo dal mesenchima, il tessuto plebeo, lo stroma adibito alle funzioni di sostegno… Ciò che nel corpo umano è raffinato da ciò che è bruto: l’epicritico, dal protopatico…  Ciò che tra gli umani presiede da ciò che esegue, come nell’antico apologo delle membra di Menenio Agrippa ai plebei in sciopero sul Monte Sacro [33]. Un’astuta metafora organicista del patrizio romano che si guadagnerà la consolatura dieci anni dopo (503 a.C.).
E più oltre Callieri
 
«… In questo mondo oggettuale l’impronta dell’uso anzi, meglio, il segno della corporeità impresso dall’uso, può costituire un indizio, a volte prezioso, di un determinato modo di strutturazione mondana. Una palla di gomma con i segni dell’addentamento, certo, ci rimanda ad un uso ancora inadeguato di essa ed alla preminente strutturazione orale della presenza che l’ha così trattata; mentre una serie di soldatini messi per bene in ordine rinvia ad una capacità di manipolare ed ordinare che è propria di un’età superiore. Anche la disposizione degli oggetti (l’apparente ordine o l’apparente disordine) rimanda alla segnalazione di un approccio molto prossimo, e quindi all’avvicinamento del mondo a portata di mano, o viceversa sta ad indicare un distacco, un allontanamento, una presa di possesso sempre meno perentoria ed impositiva».
 
Molto efficace e soprattutto profondamente fenomenologica questa narrazione del mondo del piccolo bambino, dell’infante, che prende fisicamente il suo mondo e rivela la sua vita: ghermita come preda, conquista, afferrata per le maniglie che trova a portata di mano, morsicata coi denti. Ma il bimbo sa anche esprimere – sol che si riesca a coglierle e si resti in paziente attesa – intenzionalità, colorabilità, ordinabilità, collegialità, sequenzialità, altrettanti progetti di mondo …
 
«… La stessa capacità più o meno dinamica dell’oggetto (ad esempio un giocattolo caricato o un bamboccetto qualunque di gomma) – prosegue Callieri sulla puerizia – implica una diversa movimentazione del progetto di mondo e contiene implicite capacità dinamiche estremamente diverse. Alcuni caratteri, come ad esempio la consistenza ed il colore, appaiono di particolare rilievo […]: i colori accesi e compatti, le consistenze uniformi, la semplicità di superficie rivelano strutture corporali ancora fragili, poco differenziate, mentre colori sfumati, oggetti polimorfi e polimaterici, superfici più complesse e possibilità di agganci e collegamenti tra l’uno e l’altro pezzo si riportano a strutture non solo più differenziate, ma che già rivelano la possibilità di progettare un senso multicategoriale. Il coesistere stereotipo di oggetti pressoché simili o comunque scarsamente differenziantisi tra loro da un lato, e dall’altro l’affiancarsi dì forme plurime e di qualità ludiche diverse stanno ad indicare momenti di costituzione di mondi legati […] a stadi diversi di organizzazione nervosa. L’uniformità o meno di sequenze ripetitive temporali può esserci testimoniata dal modo come gli oggetti coesistono l’uno accanto all’altro e dal tipo di questi».
 
C’è anche la modalità di leggere la Lebenswelt dell’infante (o dell’adolescente), in chiave gestaltica o costruttivista, ma anche di architettura decostruttivista, e Callieri, con la sua grande cultura, la indica nel dado, nella tessera, nella figura, sempre nell’alea del gioco, che nell’osservazione infantile diviene la caratteristica essenziale.
 
«… Ad esempio, una serie di dadi posti l’uno accanto all’altro, senza comporre una figura oppure anche parzialmente ricomposti nella ricostruzione di un giuoco di pazienza stanno ad indicare modi diversi di temporalizzazione. Nel primo caso si tratta di una temporalità ancora amorfa e scarsamente movimentabile e plasmabile; mentre il secondo caso è più indicativo per una capacità di realizzazione di forme molteplici, secondo progetti temporali già abbastanza ben definiti, consequenziali e ricchi di prospettive, anche se mutevoli».
 
Ed ecco la lezione fenomenologica sull’infanzia.
 
«… Da questi brevi accenni si può desumere che il mondo vissuto del bambino è ricco di rimandi significativi da analizzare attentamente; e ciò in perfetta adeguatezza alla vivace dinamicità propria di questo periodo di sviluppo, di questa età della vita che, antropomorfizzando al massimo, riesce a dar vita e significazione a larve di oggetti destinati, in altre età, a restare nell’ombra del non essere o all’indifferenza più assoluta».
 
Una riprova palese che la psicoanalisi, non era la sola scienza a vantare il suo ruolo nella scoperta dell’evoluzione infantile. I grandi corifei del trattamento psicoanalitico dei bambini: Melanine Klein (1882-1960), Joan Riviere (1883-1962), Anna Freud (1895-1982), Donald Winnicott (1896-1971), John Bowlby (1907-1990), ecc., non erano i soli a poter proclamare che il metodo elettivo nell’intervento sul bambino triste, depresso, infelice era unicamente quello psicoanalitico. Facile dunque per Callieri, dall’alto della sua lunghissima esperienza clinica (e anche di quella complessiva di padre e di nonno, certamente extraclinica) concludere, legittimamente che:
 
«…  il bambino si trova “naturalmente” in una situazione di continue scoperte e riscoperte di mondi che non sono affatto ovvii, generici e banali. In tale atteggiamento il bambino è talmente libero e spontaneo che non si perita di scoprire ed accettare nuovi significati anche per lo stesso oggetto, in una contraddittorietà che è solo apparente o, meglio, che appare tale solo al pensiero obbligato dagli schemi della logica tradizionale.
C’è proprio un continuo incontro dell’oggetto secondo adombramenti molteplici in cui primeggia appunto il costituirsi percettivo del mondo, cioè la sua capacità di offrirsi sotto angolature di volta in volta diverse, in un continuo fluire iletico di energie».
 
***
 
11. Qualcosa di personale sull’infanzia, sull’adolescenza sull’etica familiare e sulla sepimentazione dei servizi di salute mentale del SSN.
 
Professore, io ho sempre fatto i bambini, vuol dire che con gli adulti mi adatterò!” Non è una battuta spiritosa ma un’affermazione testuale – per la verità un po’ snob e anche un pizzico burbanzosa – che una collega neuropsichiatra infantile mi fece agli inizi degli anni Ottanta in Via di Torre Spaccata 157.
Ricordo perfettamente il SDSM dell’Ottavo Municipio di Roma che, come ho detto, ho diretto come primario psichiatra per una ventina d’anni. All’epoca era totalmente sprovvisto di specialisti di ruolo. Questo di cui parlo era il primo aiuto tangibile che mi giungeva dalla Regione Lazio, per trasferimento, nei primi anni Ottanta. Figurarsi con quanta trepidazione aspettassi dei collaboratori per attivare compiutamente il Servizio di territorio nella nuova prospettiva di psichiatria senza manicomio. Inutile aggiungere, che ciò incrinò i miei rapporti con la neuropsichiatria infantile, peraltro ottimi (e interessati per via dei figlioli) fin dall’epoca del mitico “Seminterrato” di Giovanni Bollea col suo straordinario team [34]. L’antenato, pensate un po’, di Via dei Sabelli 108. L’epoca d’oro della “Clinica Neuro” di Viale dell’Università 30, diretta da Mario Gozzano, mio maestro.
Presentemente sono e faccio il nonno, dopo aver passato circa mezzo secolo nelle istituzioni psichiatriche pubbliche. In passato aggiungevo «Sono stato anche in manicomio, per circa dieci anni», ma mi affrettavo subito a chiarire che nelle istituzioni della follia c’ero stato “per lavoro”. Ho smesso di farlo, da quando, chi mi ascoltava, commentava incerto: ─ “Eh? Ah!”─.
Dirò di più. Sono un nonno medico (di formazione neurologica e psicopatologica), che è in servizio di guardia permanente; guardia medica generale, pediatrica, psichiatrica, e, forse anche pedopsichiatrica e psicologica.
 – “Di guardia?” – Sì proprio di guardia! – “A cosa?” – A una microcomunità molto personale, che è anche un minuscolo Kinderheim: la mia famiglia, piuttosto abbondante.
Sento di dover dettagliare ulteriormente. Da circa un decennio, con i miei nipoti – maschi e femmine da “zero a dieci anni”, come si dice nel linguaggio degli epidemiologi – mi sto cimentando nella baby observation. Compio, cioè da nonno, un’utilissima esercitazione che non mi era stata possibile effettuare a suo tempo, da padre, coi miei cinque figli (attualmente tre donne e due uomini). Assieme a mia moglie – con cui condivido questa privilegiata fatica domestica di gestire il nostro piccolo kindergarten, con tanto di vicendevole reciproca supervisione – mi capita di ragionare sull’osservazione diretta dei nipoti che trascorrono molta parte della loro giornata coi nonni (e nella casa dei nonni) a motivo degli impegni lavorativi dei genitori.
Si tratta di un’osservazione a tutto campo che riguarda anche l’interazione scolastica dei più grandicelli, nonché quella interpersonale dei rispettivi padri e madri che vengono a riprenderseli. Il clima è quello di un’operosa e turbolenta convivenza promiscua che, lungi dall’essere il luogo ideale per le osservazioni scientifiche, almeno nelle intenzioni, avrebbe la pretesa di fare della prevenzione primaria sulla salute mentale dei componenti di un gruppo familiare numeroso.
Un’incursione diretta, dunque, la mia, nel mondo infantile e genitoriale, che trovo affascinante e ricchissimo di osservazioni: solo che le si vogliano osservare e cogliere allo stato nascente. Fatta la tara sulle inevitabili indulgenze affettive che legano i componenti di questa microcomunità e ad essi mi legano (bimbe/i, giovani adulte/i, anziane/i) e, che in ogni caso, fanno velo all’obbiettività di giudizio (assolutamente parziale) sull’insieme di questo particolare gruppo familiare, ritengo che codesta convivenza (tutto sommato piacevole, ancorché impegnativa) costituisca, almeno per me e mia moglie, un osservatorio straordinario (e privilegiato) con varie finalità, di cui ne elenco almeno cinque, fra le principali.
(a) L’esplorazione bidirezionale delle relazioni intersoggettive dei bambini/e tra loro e con gli adulti, e verificabile a tutto campo nell’area parentale: incroci tra genitori, figli, cugini, fratelli, cognati, generi, nonni, suoceri, nuore. (b) Il tema della prevenzione sulle situazioni potenzialmente ansiogene è assolutamente centrale in special modo per i bambini e le presenze più fragili. (c) L’attenzione a favorire la libertà di espressione, di gioco, di simbologie. (d) Lo studio della condotta, della motorica, dell’aggressività, degli agiti, ecc.; in particolare, nella puerizia, la relazione con gli oggetti, l’uso e la scelta di quelli transazionali (orsacchiotti, bambole, cuscini, e così via). Naturalmente va tenuto conto dell’età degli osservati, della loro situazione: se preverbale o verbale, della scolarità, ecc. (e) La fruizione della televisione e del computer sono accompagnati e sorvegliati, e soltanto come attività succedanee di frequentazione di parchi, palestre, gite che restano l’impegno principale. Si pratica la lettura recitata ad alta voce: da Pinocchio a Tom Sawyer, passando per Cecov, Gogol, Dickens. Raramente è richiesta di trattare argomenti religiosi, mentre numerose sono le domande su “come siamo nati?” oppure “come si sono conosciuti la mamma e il papà?”.
In buona sostanza, per quanto abbia sempre lavorato nella psichiatria degli adulti e mi consideri soltanto un rispettoso collega-ospite della neuropsichiatria infantile, ritengo che proprio questo autoinvestimento funzionale di nonno di guardia mi consenta di affermare con ragionevole approssimazione che il gruppo familiare da me osservato abbia un ridottissimo tasso di violenza, valutabile nei limiti di una fisiologica aggressività. Se io faccio il nonno di guardia medica e mia moglie quello di guardia psicosociale, entrambi siamo nella condizione privilegiata di apprendimento permanente. Tengo anche un diario dei fatti salienti. Tutti i componenti della comunità familiare danno i loro contributi e se vengono dai più piccoli, sono perle di rara saggezza. “Nonno, ciascuno è chi è!”. Quando emise questa “sentenza”, la nipote Francesca Romana, frequentava la prima elementare.
 
Questo coinvolgimento diretto e questa esperienza personale nelle vicende di bambini/e, di coppie di giovani genitori e di mondo scolastico, giustifica ulteriormente il mio appassionamento e qualche competenza nelle tematizzazioni dell’adolescenza. Quanto ho fin qui cercato di raccontare, in modo autobiografico e confidenziale, potrebbe essere assimilato ad una sorta di expertise di “nonno CTU” [35]. Avendo inoltre dimestichezza, ormai da molti anni, con la psicologia transculturale e con l’etnopsichiatria – discipline perfettamente applicabili anche alla psicopatologia dell’età evolutiva oltre che a quella genitoriale e scolastica – ritengo di essere legittimato non solo a trattare quest’area specifica, ma anche a ribadire il mio antico progetto di unificare l’assistenza psichiatrica dall’infanzia alla senescenza. Le prossime grandi sfide del nostro futuro bio-psico-sociale potrebbero essere essenzialmente due: 1) La tutela della salute mentale per l’intero arco di vita progettata dal SSN; 2) Il ringiovanimento della popolazione nazionale con sangue meticcio, per accogliere e integrare virtuosamente la parte migliore dal fenomeno migratorio
 
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12. La letteratura
 
La letteratura – non quella medica specialistica – la narrativa (classica e contemporanea), è spesso più illuminante e istruttiva di qualsiasi testo di medicina, di psicologia o di psicologia del patologico. La comunicazione di esperienze e visioni del mondo, raccontate in una prosa sapiente che riferisca dei fatti accaduti, quelli che maggiormente abbiano colpito la vita degli autori, o che a costoro siano risultati degni di narrazione per la loro particolarità, attinge livelli didattici ineguagliabili per descrivere le passioni. Talune forme di scrittura popolare e divulgativa, giungono più facilmente al cuore del vasto pubblico, che non il caso clinico. Solo la cinematografia sa essere più diretta. Il racconto, per esempio, offre numerose opportunità di riprovare quelle sensazioni e quelle curiosità che ci destano le pagine di Cecov, Daudet, Gogol, Dostoevskij, Pirandello.
Il romanzo – in specie quello psicologico, di formazione, storico, mitologico, biografico, ecc. – è una forma meno sintetica e più articolata di narratività. Non raramente c’imbattiamo in autori che raccontano storie di giovani personaggi: la pubertà, la prima, la seconda adolescenza e tutto quanto ne consegue nella relazione col mondo e con gli altri. Personaggi che salpano da una condizione d’incertezza e dipendenza domestica, per veleggiare verso la maturità. Questa sarà raggiunta, come meta di responsabilità etica e decisionale, al prezzo di cimenti rischiosi e temerari. Ecco che allora, le vicende narrate, avvincono indelebilmente il lettore e s’imprimono a fuoco nella memoria.
 
12.a Conrad e il suo primo comando
Il romanzo Linea d’ombra di Joseph Conrad (1857-1924), nasce dall’esitazione di lasciare tutto e tornarsene a casa, quasi un capriccio, oppure giocare col suo destino e proseguire rilanciando la propria vita. “Fu in un porto d’Oriente. Era una nave orientale”. Singapore, gennaio 1888. L’autore vive l’avventura di ispirazione autobiografica intorno ai trent’anni. È giovane, ma evidentemente non si sente ancora maturo. “… lo scopo di questo mio scritto era di presentare alcuni fatti certamente connessi con il passaggio dalla giovinezza, spensierata e fervente, al periodo più consapevole e mordace della maturità”. L’epoca di ambientazione del romanzo breve è il biennio 1887-1888. Il protagonista di Conrad sbarca dal cargo Vidar, con le insegne della marina britannica (Red Ensign), perché stufo della vita di mare decide di tornare a casa. È insoddisfatto, ma ne ignora le ragioni.
 
“… improvvisamente abbandonai tutto questo. Lo abbandonai nel modo, per noi irragionevole, con cui un uccello vola via da un ramo dove sta comodo. Fu come se, senza averne chiara coscienza, avessi udito un sussurro o visto qualcosa. Già – forse è così! Il giorno prima, tutto mi andava a genio, e il giorno dopo tutto era sparito – fascino, gusto, interesse, piacere – tutto. Era uno di quei momenti, capite. Il malessere acerbo della seconda gioventù si era impossessato di me, e mi trascinava via. Via da quella nave…”.
 
Sul Vidar, è stato il secondo del capitano James Craig, il quale non comprendendone i motivi, al momento dello sbarco, lo fissa “come perplesso su che malanno mi fosse capitato” ancorché fosse “ un marinaio, e anche lui un tempo era stato giovane”.  Poi, “ad un tratto … con un tono strano e pensoso aggiunse che mi augurava di trovare tutto ciò che cercavo e per cui ero così ansioso di andar via. Parole pacate e misteriose che sembrarono penetrare più profonde di un bulino dalla punta di diamante. Deve proprio aver capito il mio caso”. 
Poi la decisione inversa. Accetta il comando dell’Otago, un vascello con una cattiva fama, che ha perso il capitano, di cui si mormora fosse impazzito, in circostanze misteriose. Forse lo accetta per mettere alla prova il suo coraggio. A chi deve dimostrarlo? È proprio di coraggio che si tratta, o d’altro?
Quando decide di pubblicare Linea d’ombra (avrebbe voluto titolare il racconto Primo comando) è sulla sessantina (1917). La prima guerra mondiale non è ancora conclusa ma i numeri delle vittime del grande massacro si stanno avvicinando ai diciassette milioni di morti. Questo, in ogni caso, è lo zeitgeist in cui affiora il ricordo narrativo del Conrad trentenne che decide di abbandonare e poi riprender la vita di mare sull’Otago. L’incipit è apodittico e fa al caso nostro.
 
«Solo i giovani hanno di questi momenti. Non intendo dire i giovanissimi. No. I giovanissimi, per essere esatti, non hanno momenti. È privilegio della prima gioventù vivere in anticipo sui propri giorni, nella bella continuità di speranze che non conosce pause né introspezione.
Uno chiude dietro di sé il cancelletto della fanciullezza – ed entra in un giardino incantato. Là persino le ombre rilucono di promesse. Ogni svolta del sentiero ha un suo fascino. E non perché sia una terra tutta da scoprire. Si sa bene che l’umanità intera l’ha percorsa in folla. È la seduzione dell’esperienza universale, da cui ci si attende una sensazione singolare o personale un po’ di se stessi.
Si procede riconoscendo i traguardi raggiunti dai nostri predecessori, eccitati e divertiti, accettando la buona e la cattiva fortuna insieme – le rose e le spine, come si dice – la variopinta sorte comune che tiene in serbo tante possibilità per chi le merita o, forse, per chi è fortunato. Si. Si procede. E il tempo pure procede – finché si scorge di fronte a sé una linea d’ombra, che ci avverte che bisogna lasciare alle spalle anche la regione della prima gioventù.
È il periodo della vita in cui possono capitare di quei momenti cui ho accennato. Che momenti? Ebbene, momenti di tedio, di stanchezza, di scontento. Momenti di irriflessione. Parlo dei momenti in cui chi è ancora giovane è incline a commettere atti inconsulti, come sposarsi all’improvviso o abbandonare un lavoro senza motivo». [36]
 
12.b Törless e i suoi turbamenti.
Un’altro classico della letteratura mitteleuropea sull’adolescenza è I turbamenti del giovane Törless. Il carinziano, Robert Musil [37], in questo primo romanzo del 1906, si ispira ad esperienze autobiografiche. Si sa che per ragioni familiari il giovane Musil trascorre, tra convitti e collegi militari, buona parte della sua prima e seconda adolescenza. All’accademia-convitto di Mährisch-Weisskirchen [38], vi passerà ben quattro anni (1894-1897) dal quattordicesimo al diciassettesimo, praticamente quelli cruciali della sua adolescenza, senza contare che proveniva da due anni trascorsi nel convitto militare di Eisenstadt: il dodicesimo e il tredicesimo.
Le complesse tematizzazioni adolescenziali che si dipanano e s’intrecciano attraverso crisi d’identità, esperienze sado-masochistiche, affermazione di dominio e sudditanza, coinvolgono quattro cadetti: Törless, Reiting, Beineberg e Basini. Eccone qualche squarcio d’impareggiabile abilità narrativa.
Un ricordo lontano, dell’infanzia:
 
« … gli si destò sulla pelle, per tutto il corpo, una sensazione che all’improvviso divenne un’immagine dei suoi ricordi. Quando era un bimbetto… ecco, si, era stato proprio allora… quando portava ancora i vestitini e non andava ancora a scuola c’erano stati dei periodi in cui lui provava un ineffabile struggimento di essere una bambina. E anche quello struggimento non lo aveva avvertito nella testa… oh no, e nemmeno nel cuore… gli formicolava per tutto il corpo e gli vagava sotto la pelle. Si, c’erano dei momenti in cui si sentiva una bimbetta con un’intensità tale da pensare che non potesse essere altrimenti. […] allora non sapeva nulla dell’importanza delle differenze anatomiche, e non capiva come mai tutti quanti gli dicessero che adesso doveva rimanere un maschietto per sempre. E quando gli chiedevano come mai lui ritenesse preferibile essere una bambina, allora sentiva che non c’erano parole per dirlo» [39]
 
E, in questa navigazione incerta, lontano da casa, dai genitori (ancorché inadeguati), senz’altro aiuto che il suo discernimento e la sua volontà, ecco le emozioni  confuse affiorare prepotenti e pulsanti nel turbinio sentimentale della crescita.
 
« … anche se Törless si abbassava al suo livello, il suo desiderio, lungi dal rimanere appagato, si dilatava al di là di Basini in una nuova fame priva di oggetto.
 
«Gli altri desideri esistevano già da un bel pezzo, sin dal tempo di Bozena […] Era la sensualità misteriosa, senza né mete né oggetto e carica di malinconia propria dell’adolescente, simile alla nera e umida terra primaverile, ricca di germogli, oppure a un’oscura fiumana sotterranea che ha bisogno solamente di un’occasione qualsiasi per rompere gli argini.
«[…] l’episodio che Törless aveva vissuto aveva costituito […] una sorpresa, un malinteso, un’interpretazione errata dell’impressione ricevuta, avevano spalancato i nascondigli riposti in cui si era raccolto tutto quanto nell’animo di Törless v’era di segreto, proibito, greve, confuso e solitario, convogliando verso Basini quegli impulsi oscuri. […] essi si imbattevano per la prima volta in un qualcosa dotato di calore, in un qualcosa che respirava, che odorava e che era carne, a contatto con il quale quei sogni fluttuanti acquisivano forma e diventavano parte della sua bellezza, invece dell’acre bruttezza con cui Bozena li aveva fustigati nella solitudine. D’un tratto, questa esperienza aveva spalancato loro una porta sulla vita, e nel chiarore aurorale tutto si mescolava: desideri e realtà, fantasie dissolute e impressioni che recavano ancora i segni cocenti della vita stessa, sensazioni che gli provenivano dall’esterno e vampate che le investivano dal di dentro avvolgendole sino a renderle irriconoscibili.
[…] non riusciva più a distinguerlo […] si fondeva in un unico sentimento inarticolato e oscuro che […] nel primo momento di sorpresa, poteva magari scambiare per amore» [40]
 
L’analisi introspettiva dei sentimenti adolescenziali è condotta con la precisione di un bulino dalla punta di diamante, per dirla con Conrad, cui aggiungerei, dato che in fondo si parla dell’anima del ragazzo che si scruta dentro, e prova il sentimento della vergogna, con la spietatezza e l’implacabilità di un giudice severo.
 
« … Si domandava che cosa gli avrebbero detto gli altri – i genitori, i professori – se avessero conosciuto il suo segreto.
Ma immancabilmente con quell’ultima ferita le sue pene cessavano. Una gelida spossatezza s’impadroniva di lui; la pelle ardente e afflosciata del suo corpo tornava a tendersi in un brivido benefico. Allora senza perdere minimamente la calma, lasciava che gli passassero avanti tutti quanti. Ma per tutti provava un certo disprezzo. In segreto sospettava le cose più orrende di tutti coloro con i quali parlava.
Gli pareva inoltre di cogliere in loro una carenza di vergogna. Non credeva che essi soffrissero come sapeva di soffrire lui. Gli sembrava che fossero privi della corona di spine dei suoi rimorsi.
Lui invece si sentiva come uno che si risvegli da una profonda agonia. Come uno che sia stato toccato dalle mani silenti del disfacimento. Uno che non riesca a dimenticare la quieta saggezza di una lunga malattia».
 
Musil, in Törless, a mio avviso, raggiunge e compete, per profondità d’indagine psicologica, col Dostoevskij di Delitto e castigo. Le esperienze di vita dei due uomini sono diverse, ma entrambe non sono stati risparmiati da prove violente. Certamente Törless non è Musil, anche se lo sfondo autobiografico traspare. Lo scrittore ha sperimentato direttamente le rigidità istituzionali dei collegi e delle accademie militari austriache di fine Ottocento, dunque, potrebbe essere venuto a conoscenza di qualche episodio di violenza sessuale tra cadetti, che poi ha trasferito nel libro. Egli stesso, riferì che le vicende da lui narrate erano veritiere, in quanto riprese da un fatto realmente accaduto.  L’elemento più interessante, ci pare, però, il giudizio anaclitico dell’autore, rispetto ai comportamenti adolescenziali, quando siano filtrati e soppesati a distanza di tempo. La valutazione etica è più serena.
 
«… Più tardi, quando ebbe superato le vicende della propria adolescenza, Törless divenne un giovane di animo assai fine e sensibile. Era una di quelle nature estetico-intellettuali che nell’osservanza delle leggi, e in parte anche della morale comune, trovano una certa tranquillità in quanto ciò le solleva dall’obbligo di riflettere su cose volgari, ben lontane dai più sottili eventi psichici, ma che a questa grande e un po’ ironica correttezza esteriore uniscono un’annoiata indifferenza non appena si richieda loro un interesse più personale per i loro oggetti. Giacché l’unico interesse capace di catturarli realmente è volto alla crescita dell’anima, dello spirito, o comunque si voglia chiamare ciò che di tanto in tanto viene arricchito in noi da qualche idea scaturita tra le parole di un libro o dinanzi alle labbra chiuse di un ritratto; ciò che talvolta si desta quando da noi si leva una melodia solitaria e bizzarra che – allontanandosi – si trascina appresso, con moti a noi estranei, il sottile filo rosso del nostro sangue; ma questo scompare sempre quando scriviamo documenti, costruiamo macchine, andiamo al circo o ci dedichiamo a cento altre occupazioni del genere» [41].
 
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13. L’esperienza del tempo in Agostino di Tagaste.
 
Che il tempo scorra, ce lo dicono meccanicamente gli strumenti di misurazione che abbiamo inventato; empaticamente, ce lo raccontano i poeti, gli scrittori, che narrano gli eventi, le cose, i miti, le storie … «Ma intanto fugge, irreparabilmente fugge il tempo» canta Virgilio [42]. Ce lo dice il nostro pensiero, quello dell’uomo, l’unico, tra i bipedi evoluti, in grado di immaginar-si, di creare simboli, di pensare la propria fine. Il solo tra i viventi capace di provare nostalgia del passato, la rammemorazione vicina del lontano, quello struggimento dolente che la cultura romantica tedesca chiama Sensucht.
La locuzione latina tempus fugit, tradotta letteralmente, significa che il tempo fugge. Nell'italiano corrente diciamo che "il tempo vola". Giosuè Carducci nel Ruit hora, delle “Odi barbare” ci trasmette un senso malinconico sulla fugacità della vita, con tonalità parnassiane.
La poesia è lo spartito più bello per cantare il tempo dell’essere, il trascorrere dell’umana presenza, in special modo, nel momento in cui fiorisce. Tutti conoscono la Silvia di Leopardi, “… quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, / e tu, lieta e pensosa, il limitare / di gioventù salivi …”
Il tempo, quello che deve ancora trascorrere per giungere alla maggiore età, spesso viene spasmodicamente bramato; spesso è un bieco pretesto istituzionale per potersi liberare dell’obbligo di assistere ragazzi in difficoltà, non appena abbiano raggiunto la maggiore età, senza aver potuto compiere il tragitto terapeutico prefissato; per mancanza di tempo, per negligenze istituzionali o perché l’intenzione terapeutica sia stata vanificata dalla severità della patologia.
La temporalità dell’umano, nondimeno, è una sfida improba essa stessa, non appena ci si ponga il problema di esprimerla in termini concreti, dall’alfa all’omega, nelle coordinate dell’esistenza. Minkowski ci ha insegnato che non c’è solo il tempo cronologico, ma anche “il tempo vissuto” [43].
E allora quando si pensa all’esperienza di tempo dell’infanzia, si scopre che esso è diverso da quello della pubertà, che non è il tempo più incisivo dell’adolescenza, bensì quello dove si aggiunge anche l’intenzionalità e si affaccia l’identità. Forse è il momento dove comincia a porsi il principio di “individuazione”, per dirla con Carl Gustav Jung. Momento delicato, quando non si è né carne né pesce, quando si è esclusi dalle decisioni degli adulti, nondimeno si ambirebbe dire una parola, esprimere la propria opinione. Periodo fragile, irto di difficoltà, che può, prevedere pause, incertezze, regressioni, balzi: reculer pour mieux sauter, ammoniva il maestro svizzero [44].
Che il tempo scorra, fugga, passeggi, oppure voli è stato oggetto anche di aneddoti faceti per farci dimenticare la certezza della conclusione della conditio humana. Ma cos’è poi il tempo dell’essere? È quello cronologico? L’affanno quotidiano? Le angustie del presente? Il «tempus fugit» delle Lettere di Seneca, che Gellio, definisce epistulae morales? Sono le nostre angosce virgiliane, carducciane, di cui s’è detto sopra? O  non piuttosto il quieto ragionare di Agostino che s’interroga sul tempo interiore, il tempo vissuto, l’esperienza del tempo, il vissuto interiore del tempo in ciascuno di noi.
 
«Che cos’è dunque il tempo? Quando nessuno me lo chiede, lo so; ma se qualcuno me lo chiede e voglio spiegarglielo, non lo so. Tuttavia affermo con sicurezza di sapere che, se nulla passasse, non vi sarebbe un tempo passato; se nulla si approssimasse non vi sarebbe un tempo futuro se non vi fosse nulla, non vi sarebbe il tempo presente. Ma di quei due tempi, passato e futuro, che senso ha dire che esistono, se il passato non è più e il futuro non è ancora? E in quanto al presente, se fosse sempre presente e non si trasformasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità... Questo però è chiaro ed evidente: tre sono i tempi, il passato, il presente, il futuro; ma forse si potrebbe propriamente dire: tre sono i tempi, il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Infatti questi tre tempi sono in qualche modo nell'animo, né vedo che abbiano altrove realtà: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione diretta, il presente del futuro l'attesa... Il tempo non mi pare dunque altro che una estensione (distensio), e sarebbe strano che non fosse estensione dell'animo stesso »
Agostino d'Ippona. [45] 
 
Una lunga riflessione sul tempo, quella di Agostino, con una conclusione saggia e sapiente. In buona sostanza, esistono soltanto tre tempi, tutti declinabili al presente, malgrado quello cronologico scorra implacabile in avanti, distanziandoci dalla nostra origine. Tre tempi presenti: l’intuizione (il presente del presente), l'attesa (il presente del futuro), la memoria (il presente del passato).. Tre tempi interiori, del nostro tempo cronologico, tutti presenti; essi si attivano nel momento in cui noi esseri umani, nella relazione Io-mondo pensiamo il tempo intuendolo, attendendolo, ricordandolo.
 
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14. Conclusioni provvisorie.
 
Nel saggio di Cargnello, precedentemente citato, sull’ambiguità della psichiatria, vi è un passo fondamentale con cui vorrei terminare provvisoriamente. Esso mi pare perfettamente centrato sulla questione se la medicina psicologica, o la psicologia medica, se si preferisce, codesta auspicabile alleanza, con le altre discipline sorelle, concernenti l’area delle scienze umane, debba stipularla prudentemente, centellinando partitamene i singoli argomenti della trattativa uno alla volta, oppure discuterla a tutto campo, attraverso un dialettico confronto epistemico. In uno dei passi più convincenti del suo argomentare Cargnello così s’interrogava.
 
«… Si tratta di rigorose “applicazioni” (Anwendungen) di questo o di quell’indirizzo fenomenologico filosofico alla psichiatria o, piuttosto, di “sollecitazioni” (Anregungen) perché la psichiatria si ripensi con più consapevolezza, alla ricerca di un metodo e di un linguaggio veramente adeguati all’assunto di essere una scienza dell’uomo? È troppo presto per rispondere a una questione del genere, che comunque così di sovente riemerge. Pare a chi scrive che solo attraverso un protratto colloquio tra filosofi, da un lato, e alienisti, dall’altro – anche se ognuno restando fedele alle proprie esigenze di fondo – si potrà pervenire a quella trasparenza di enunciazioni di cui abbisogna urgentemente la psichiatria, una disciplina oggi forse come non mai disposta a ripensarsi ab imis. Il che non dovrebbe essere impossibile, dato che essa si è sempre vantata della propria disponibilità. In proposito, un grande clinico bleuleriano-jaspersiano, Cornelius Henricus Rümke, al Congresso di Psichiatria, a Parigi nel 1950, diceva dello psichiatra che «il prend son bien où il le trouve»[46] .
 
Non solo lo psichiatra, ma chiunque si occupi della salute mentale degli individui che compongono la società o sia impegnato nelle “professioni di aiuto” (psicologi, psicopatologi, antropologi, sociologi, educatori, mediatori culturali, operatori delle RSA, soccorritori marini del Canale di Sicilia, ecc), dovrebbe far tesoro della esortazione di Rümke e trovare le risorse intellettuali per il proprio impegno quotidiano ovunque egli le trovi, fra le migliori. L’idea di concorrere tutti a perseguire il medesimo obiettivo, senza porsi il problema delle “competenze”, delle “specializzazioni” e delle “classi d’età”, dovrebbe essere una sorta di stella polare.
 
 
 
Note
1. Primo Convegno Internazionale sull’adolescenza (Frascati, 10-11 maggio 2014) dal titolo “I Volti dell’adolescenza, tra vulnerabilità, fragilità e crisi necessarie” Promosso dalla Pontificia Università della Santa Croce e dall’associazione Girasolestudi onlus e organizzato dai prof. Mario Russo (Presidente associazione Girasolestudi) e prof. Pietro Grassi (Docente di Storia delle religioni alla Pontificia Università della Santa Croce). Diamo qui di seguito i titoli della locandina: PER UNA BIOETICA QUOTIDIANA 10 CONVEGNO INTERNAZIONALE. I volti dell’adolescenza tra vulnerabilità, fragilità e crisi necessarie. VILLA TUSCOLANA www.villatuscolana.eu Frascati 10-11 Maggio 2014. confrontarsi, conoscere e riflettere per avvicinare, comprendere e sostenere “l’adolescenza” in disagio.
2. Mellina Sergio. (2014). Quando l’essere umano cambia condizione: a proposito di metabletica. Atti del primo Convegno Internazionale “Per una bioetica quotidiana” [Frascati 10-11 Maggio 2014 - Villa Tuscolana] I volti dell’adolescenza tra vulnerabilità, fragilità e crisi necessarie. Confrontarsi, conoscere e riflettere per avvicinare, comprendere e sostenere “l’adolescenza” in disagio. Curatori Pietro Grassi e Mario Russo. Edizioni Pioda Imaging, Roma, 2015, pp. 147-187.
3. Pietro Clemente. Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita. Pacini Editore, Pisa, 2013.
4. Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze, su autorizzazione scritta della propria ASL con l’obbligo di svolgere tale attività d’insegnamento “al di fuori dell’orario di servizio”.
5. («Sed quia veritas visu et mora falsa festinatione et incertis valescunt». Tacito, Annali II, 39). In epoca meno remota, era già successo che grande fama di burlone ne ricavasse l’eruditissimo bibliotecario di Hannover Rudolf Erich Raspe (1736-1794), pubblicando a Londra, in inglese, nel 1785, il testo tedesco di un anonimo del 1781, titolandolo Le avventure del Barone di Münchhausen. La festinazione era garantita dall’esagerazione, la risata dal paradosso del Barone che si salva dalle sabbie mobili tirandosi pei capelli. Oggi si ride meno e, tutto quello che appare nel circolo mediatico – come s’usa dire “in tempo reale” (una realtà parallela) – viene spacciato per vero a una massa irraggiungibile, perché assillata da gravi problemi di sopravvivenza, oppure ritenuto verosimile da una popolazione resa acritica dalla scarsa acculturazione e dalla dabbenaggine.
6. Cfr. Dora Ciotta. (a cura di). Elogio dell’ascolto in una società in crisi. Franco Angeli, Milano, 2013, p. 40 e infra, dove è citato un passo di Bruno Callieri che sostiene questa sua tesi dell’intersoggettività. (Quando vince l’ombra. Città Nuova, Roma, 1984; Astrolabio, 1997).
7.  Danilo Cargnello. Ambiguità della psichiatria. Comprendre N 9/1999 pp. 7-48; la ristampa, tratta dal volume: “Scienza, linguaggio e metafilosofia. Scritti in memoria di Paolo Filiasi Carcano”, Guida Editori, Napoli, Via Ventaglieri n. 83, 1980, è preceduta da una breve presentazione di Lorenzo Calvi.
8. Das Sprechen (il parlare), corsivo nostro.
9. Sprachliche Verlautbarung (annuncio linguistico), corsivo nostro.
10. Über etwas (su qualcosa, corsivo nostro)
11. Gespräch (corsivo nostro).
12. Weltschöpferisch, (il corsivo è nostro).
13. Das Seiende
14. Friedrich Wilhelm Christian Carl Ferdinand Freiherr von Humboldt (Potsdam, 1767-1835 Tegel); famoso linguista, filosofo, pedagogo, riformatore scolastico e diplomatico brandeburghese amico di Goethe e Schiller.
15. Verständigung
16. Humboldt. Über Sprache und Denken, 1946, pp. 30-32.
17. La “memeté” di Paul Ricoeur (1913-2005).
18. Resta famosa l’impresa di Jacob Le Maire (1585-1616) e Willem Cornelisz Schouten (1567-1625), i quali, a bordo dei vascelli Eendracht e Hoorn doppiarono il Capo Hoorn (città natale del secondo) il 29 gennaio 1616, dopo essere salpati dall’Olanda il 14 giugno 1615. Esplorando le isole del Pacifico Tonga, Grande Speranza, Molucche, tracciarono una nuova rotta commerciale per la Compagnia delle Indie Orientali. 
19. Baruch Spinoza (Amsterdam 1632-1677 L'Aia). Il filosofo olandese, fra i capiscuola del razionalismo del Seicento, anticipatore dell'Illuminismo e della moderna esegesi biblica era nato ad Amsterdam da genitori ebrei sefarditi di origine portoghese costretti a divenire “marrani”, in seguito alle persecuzioni religiose. (in Spagna e Portogallo, gli ebrei e i musulmani convertiti forzatamente al cristianesimo, che in segreto mantenevano la fedeltà alla religione originaria erano denominati marrani). Il padre, di nome Michael, era un mercante, la madre Hanna Debora, sposata in seconde nozze aveva lasciato orfano Baruch, ad appena sei anni (1638).
20. Pietro Cavalieri. (a cura di) Quale Horney influenzò F. Perls? Intervista a Vincenzo Morrone, in Quaderni di Gestalt n. 12, 1991, pp. 21-27.
21. La grande storia classica, la storiografia, comprendeva l’accertamento dei fatti accaduti, di pertinenza del diritto, distinta dalla storia dei fatti accaduti, di pertinenza della storiografia: ossia la ricostruzione dei fatti compiuti in una narrazione (logos). La grande storiografia italiana del Novecento espresse, tra i suoi maggiori rappresentanti, Adolfo Omodeo (Res gestae e historia rerum gestarum, "Annali della Biblioteca Filosofica", 11, 1913, pp. 1-28) e Benedetto Croce (Teoria e storia della storiografia, Laterza Bari 1917).  Poi vennero i francesi dell’École des Annales.
22. Sull’argomento, si può leggere nel Dizionario di Storiografia (Dizionari PBM Storia) un lungo articolo, una review (anche molto spiritosa), al lemma Psicostoria, redatto da Sergio Caruso, ordinario di sociologia politica all’Università di Firenze, da cui riportiamo “Indirizzo storiografico tendente a integrare nell'indagine storica gli approcci metodologici propri delle discipline psicologiche e storiche. Alcuni storici hanno parlato di metabletica per designare l'esigenza di scandagliare le questioni storiche, «al di là del dato», con la stessa sensibilità dello psicologo; ma questa proposta terminologica, avanzata da J. H. Van den Berg (1962) e ripresa solo da Alain  Besançon (Histoire et psychanalyse. À propos de Metabletica par Alain Besançon. “Annales”. Économies, Sociétés, Civilisations, Année 1964 Volume 19 Numéro 2, pp. 237-249) e da pochi altri, non ha avuto molto successo”.
23. Un manipolo di savants dell’alienistica, che s’interrogavano sul senso della follia, sugli aspetti costitutivi dell’umana presenza psicotica e sul vissuto delle più sconvolgenti esperienze psicopatologiche (deliranti, allucinatorie, ecc). Inaugurata in Italia da Giovanni Enrico Morselli, Danilo Cargnello e Ferdinando Barison, questa corrente di studio e di ricerca psicopatologica (in Europa denominata anche psichiatria della crisi ovvero dell’interguerra mondiale del Novecento) può forse essere accusata di essere stata criptica, scontrosa, esterofila, ma non certamente in autentica, rigorosa, scientifica e profondamente impegnata nella comprensione della follia.  Questo ristretto gruppo di intellettuali della “psichiatria filosofica”, per lo più dirottati dalle accademie neuropsichiatriche nei manicomi psichiatrici provinciali ed ivi confinati, hanno fornito grande prestigio internazionale alla alienistica italiana, prevalentemente schierata su posizioni di psichiatria biologica (Vito Maria Buscaino) e di terapie convulsivanti (Cerletti e Bini) nel medesimo periodo interbellico. È capitato, allo scrivente, che frequentava la Clinica delle malattie nervose e mentali di Roma, diretta da Mario Gozzano negli anni Cinquanta, di ascoltare il seguente aforisma: “il primo allievo succede al maestro nella cattedra, il secondo diventa primario neurologo in un grande ospedale, l’ultimo va a dirigere un manicomio provinciale di una grande città”.
24. Si veda anche Di Petta Gilberto, Cangiotti Francesca, Rossi Monti Mario (a cura di). L’ora del vero sentire: Corpo, Delirio, Mondo. La seconda generazione della psicopatologia fenomenologica italiana. Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2014. Resta inteso che quelli della “prima” sono Morselli, Barison, Cargnello, Callieri.
25. Danilo Cargnello tenne una relazione su La nosografia delle depressioni (pp. 47-71) in “Le sindromi depressive” Atti del Simposium (Rapallo 23-24 aprile 1960 a cura di Cornelio Fazio e pubblicati dalla Minerva Medica, Torino, 1960). Atti del Simposium (Rapallo 1960.
26. Aldo Giannini. Modalità esistenziali e situazioni prepsicotiche schizofreniche. in: Atti del XXX Congresso nazionale SIP, Milano, 12-17 ottobre 1968. Relazione letta il martedì 15 ottobre 1968 alle ore 11 al Palazzo dei Congressi dell’Amministrazione Provinciale di Milano. Pubblicata sul Volume I Relazioni (p. 264), “Il Lavoro Neuropsichiatrico”, Roma, volume 44, anno 13, fascicolo I, 1968.
27. Mario Rossi Monti. Quando tutto si tiene. Psicopatologia dell’esordio psicotico. 23 febbraio 2013, Seminario presso la sede della S.P.I.G.A. [Società di Psicoanalisi Interpersonale e Gruppo Analisi] - Via Poggio Moiano 34/c - 00199 Roma.
28. Non è difficile andare col pensiero al Cristo sulla Croce: “Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Matteo  27, 46)”; oppure “Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloà, Eloà, lamà sabactàni?” (Marco  15, 34)”. Marco riporta le parole in aramaico, la lingua parlata da Gesù e dalla maggior parte dei suoi contemporanei israeliti. A Marco, queste parole potrebbero essere state riferite da Pietro, come avvenne per la parola «Abbà» = Padre (cf. Mc 14, 36) nella preghiera del Getsemani. E diceva: «Abbà, Padre! Ogni cosa ti è possibile; allontana da me questo calice! Però, non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi». (Marco 14, 36).
29. Bruno Callieri. Corpo esistenze, mondi. Per una psicopatologia antropologica. EUR, Roma, 2007. Si vedano, in particolare, del Capitolo XIII “Il Mondo della vita” le pp. 177-181.
30. La nozione «mondo di vita (la Lebenswelt) cioè il costituirsi di una presenza in quanto presenza al mondo» – come la intende Callieri – richiama il mondo vissuto «nel senso di un qualcosa “tutto inconcludente” [l’Umfassende di Jaspers]». Esso ingloba questo ineffabile tramite della presenza che si mondanizza e si rivela, nei modi della corporeità vissuta, ostesa e storicizzata. «Il soggetto vivente, nella sua particolare prospettiva, comunque distorta, ma sempre… modalità soggettiva e relativa» , si declina nei percorsi esistenziali che marcano e segnano il passaggio mondano di quella data presenza: segni e datità che noi psicopatologi raccogliamo nelle anamnesi/biografie. Ibid., p. 177 e infra. Queste storie particolari, non importa se di bambini, di adulti, di anziani, ri-costruite dallo psicopatologo/terapeuta, cercando di collegarle al vissuto che ci riferisce il soggetto nei suoi passaggi esistenziali che più lo hanno segnato, (la metabletica, in fondo), avrebbero lo scopo di raccontare (illuminare jaspersianamente) la percezione del mondo (assoluta e relativa), i contenuti di coscienza (generali e particolari) di quel dato Dasein.
31. Legge 14 febbraio 1904, n. 36. Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati.
32. Anna Maria Accerboni Pavanello (a cura di). La Cultura psicoanalitica: Atti del convegno, Trieste, 5-8 dicembre 1985. Editore Pordenone: Studio Tesi, 1987. “«Mitologia cerebrale», ecco l'epiteto con cui Kraepelin avrebbe definito più tardi la psichiatria di Meynert”; p. 247.
33. Tito Livio. Ab Urbe Condita II 32.
34. Intorno a Giovanni Bollea – che stava inventando la neuropsichiatria infantile più innovativa e rivoluzionaria, dai tempi di Sante De Sanctis, Maria Montessori e Giuseppe Montesano – c’erano Novelletto, Benedetti, la Rosano, Lussana, Mayer, Giannotti, Antonucci e molti altri colleghi, più o meno coetanei, coi quali ho lavorato a stretto contatto di gomito fino a quando non hanno lasciato il seminterrato della “Neuro” per la sede autonoma di Via dei Sabelli, tirata fuori dal cilindro magico di un portentoso Giovanni Bollea.
35. CTU significa Consulente tecnico d'ufficio. Anche nonno CTP, mi andrebbe benissimo; vale a dire nonno che collabora, come ausiliario, nei Centri Territoriali Permanenti delle reti scolastiche di italiano per l’inserimento dei migranti, scolarizzazione e integrazione, due fra le più urgenti priorità sociali del presente.
36. Conrad Joseph. La linea d’ombra. Introduzione di Roberto Saviano. Nota introduttiva di Cesare Pavese. Prefazione dell’autore. Traduzione di Flavia Marenco. La biblioteca di Repubblica, Roma 2011, pp. 23-24.
37. Autore di primaria grandezza nella cultura germanofona, che sarà consacrato per l’incompiuto Uomo senza qualità come acuto osservatore psicologico del costume perbenista, della insensibilità sociale e della rigidità burocratico-militarista della borghesia dell’Impero Austro-ungarico del finis Austriae.
38. L’attuale Hranice, in Moravia
39. Robert Musil. I turbamenti del giovane Törless. Titolo originale Die Verwirrungen des Zöglings Törless Traduzione di Giulio Schiavoni. Oscar Mondadori, Prima edizione Oscar narrativa settembre 1987; Prima edizione “Oscar Classici moderni”, giugno 1992; Milano, ristampa anno 2013, pp. 21-22.
40. Ibid., pp. 157-158
41. Ibid., pp. 160-161.
42. «Sed fugit interea fugit irreparabile tempus». Virgilio, Georgiche, III, 284.  
43. Le temps vécu: études phénoménologiques et phychopathologiques, Paris: Collection de l'évolution psychiatrique, 1933; Neuchâtel: Delachaux et Niestlé, 1968; trad. it. di Giuliana Ferri Terzian, Il tempo vissuto: fenomenologia e psicopatologia, prefazione di Enzo Paci, Torino: Einaudi, 1968. Se la memoria non m’inganna, ricordo con piacere la collega Giuliana Ferri, una primaria di psichiatria colla quale, nel 1972, abbiamo lavorato insieme al “Cagliari2”, ossia al manicomio di Dolianova, nel Parteolla, basso campidanese.
44. Si veda Eugenio De Caro L'antropologia di Carl Gustav Jung: Saggio Interpretativo. EDUcatt, Milano, 1998.
45. Agostino d’Ippona, Confessiones XI, 14, 17: 20, 26; 26, 33.
46. Rümke Henricus Cornelius. Signification de la phénoménologie dans l’étude clinique des délirants. I° Congr. de Psychiat., Paris Hermann, Paris, 1950. 

 
 
 
 
 
 
 
 

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