SUL TAMBURELLO E DINTORNI

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21 ottobre, 2018 - 16:27

“Se vuoi capire un popolo ascolta la sua musica. E cos'è la pizzica se non il battito del Salento? E cos'è il tamburello se non il ritmo del cuore? Metti la mano sul cuore e ascolta la musica del Salento. Allora capirai”.

Così mi raccontava Luigi Cervelli, tarantato di Acaja. E così sembra. O così è, se vi pare.

Negli ultimi anni il tamburello ha segnato il ritmo del Salento. Ne ha scandito i battiti vitali e ritmato i tempi. E c’è da chiedersi perché. Questo piccolo, semplice strumento, costruito sullo scheletro del farnaro (setaccio), che serviva alle donne per scernere la farina, contiene nella sua semplicità simboli complessi e densi, che rimandano a significati estesi, universali e di spessore arcaico.

Oggi il tamburello sembra stia diventando l'icona di questo pezzo d'Italia.

Occorre distinguere tra quello che alcuni hanno voluto individuare come un simbolismo universale e quello che il tamburello concretamente significa come oggetto familiare per quanti, come me, lo hanno vissuto al pari di uno strumento della quotidianità. Forse agli occhi degli studiosi di antropologia il tamburello salentino rievoca le magnifiche sorti del tamburo sciamanico, oggetto rituale e insieme mitico, che serve cioè per il rito della trance estatica ma che anche incarna la visione del mondo delle popolazioni la cui vita religiosa si fonda sullo sciamanismo, su questo rapporto fra un mondo terreno e un mondo altro, invisibile, sacro. In fondo, non dimentichiamolo, il nostro tamburello si colloca al centro del fenomeno della “possessione” da tarantola, del tarantismo, e però ancora non sappiamo, se dovessimo stare alle opinioni varie di studiosi e specialisti di questi argomenti (ormai in numero sempre crescente), se la sua funzione sia di provocare la trance o di disinnescarla, di “curarla”. In entrambi i casi il tamburello salentino ha dunque una sua funzione rituale, cui non si può sottrarre: sembrerebbe anzi che, quando la tecnica tende alla ottima esecuzione, anzi solo quando l’esecuzione è perfetta per uso del corpo e tecnica del suono, solo allora, questa forza rituale si sprigioni dallo strumento percosso dalla mano, nonostante la performance sia decontestualizzata, cioè sottratta allla destinazione rituale e rifunzionalizzata in contesti spettacolari e ludici. Il che, in fondo, può accadere con tutti gli strumenti, quando sono in mano a grandi esecutori, essendo la musica del territorio una connessione emotiva con un mondo altro, che trascende la quotidianità. E allora qual è la “magia” del tamburello salentino? Quali le sue specifica qualità? Qual è la forza che rende vivo questo nostro strumento? Quale è insomma la sua “anima”? Non è facile rispondere a queste domande. Dato il mio amore viscerale per questo strumento che da sempre accompagna la mia vita come una cosa di famiglia carica di memorie, sarei portato anch’io a “mitizzare” questo “oggetto rituale”. E allora vedere nel cerchio in legno la rappresentazione dell'universo intero, all'interno del quale va in scena la vita. E nel cerchio che si sovrappone alle estremità, il segno dell'Uroboros che si morde la coda. E la pelle, elemento animale e della razionalità apollinea e della scansione ritmica. E i sonagli a rappresentare l'infimo, tirato fuori dalle viscere della terra, a gettare sull'uomo l'intero e immenso disordine dell'universo. Sono simboli che ho anch’io esplorato e tentato in più occasioni di sondare. Ma ora preferisco, qui, rievocare la “storia”, più che il mito, la storia concreta di questo strumento. Storia di cui, me lo consentirete, non posso anch’io non sentirmi parte.

Una storia locale, ma anche universale, e antica. Questo piccolo strumento nel Medio Oriente è ben documentato. L'arco temporale a cui si fa riferimento data dal III millennio A.C. fino alla fine metà del I millennio A.C. E a partire da IV millennio A.C. l'utilizzazione è documentata fra le maggiori civiltà del vicino Oriente (Melissi 2002). Sicuramente lo stesso arco storico è possibile documentare nella penisola salentina di cui ampie e svariate tracce si trovano nei racconti degli storici e soprattutto sui vasi Apulo-Lucani e in qualche sito archeologico.

Mai come negli ultimi anni, il tamburello ha avuto una diffusione così vasta in quest'area, tanto da farla diventare, nel bene e nel male, "un'isola sonanate, un'isola danzante", come è stata definita.

Ma non è stato sempre così.

All’inizio degli anni Settanta con i primi movimenti della riproposta musicale era difficile sia ascoltare il suono dei tamburelli alla maniera tradizionale sia incontrare costruttori di questi strumenti.

Strettamente legato al rito del tarantismo  e alla musica della taranta il tamburello aveva seguito il corso storico sociale e culturale del rito: si era nacosto agli occhi della comunità che guardava a queste rituali non più con gli occhi della conoscenza ma della curiosità e della morbosità.

Il Tarantismo e tutti i suoi corollari musica colori, terapia ecc, sono considerati alla stregua di una malattia di cui vergognarsi e nascondersi.

In questo clima ripensare una musica di riproposta e al tamburello che ne rappresentava uno degli aspetti più dinamici e più intriganti era difficile e quasi impraticabile.

Il mio primo approccio con il tamburello e la sua funzione più importante, cioè strumento che produce la musica del tarantismo, l'ho avuta nel circolo culturale" Giannino Aprile" di Calimera.

Cosimo Surdo (grande interprete della “Passione” di Cristo, Canto in lingua grica di sessanta e più quartine, eseguito nella settimana delle Palme da due cantori che si avvicendavano nell’esecuzione delle strofe e da un suonatore di fisarmonica o organetto. I tre preceduti da un grande ramo di ulivo decorato con arance o nastrini rossi, simboli della fertilità, si recavano nei paesi di lingua grica e ai crocicchi delle strade, cantavano e recitavano la Passione tò Cristò), aveva un piccolo tamburello di plastica comprato nelle bancarelle della fiera della madonna di Roca. Cosimino, che allora aveva già sessanta e passa anni, frequentava il Circolo e suonava questo suo piccolo strumento. Erano già i tempi in cui la ricerca sulla cultura orale cominciava a svilupparsi. A furia di osservare, chiedere e provare, dopo vari tentativi e diverse sbucciature della mano imparai a suonare. Alla maniera di Cosimino. Un suono tutto tondo, senza interruzioni, senza sottolineature di timbri. Creava un cerchio musicale, una specie di linea circolare in cui la voce del cantore narra di virtù e d'amore, di dispetti e di disperazioni.

Altri grandi suonatori che ho incontrato sono stati i Mighali (Zimba) di Aradeo.

Li incontrai per la prima volta dopo uno spettacolo in quel paese. Fu subito amicizia. Appena sceso dal palco mi circondarono e vollero a tutti costi i  miei tamburelli.

Io avevo un po' di ansia e di paura. Erano (sono) tamburelli costruiti da mesciju Ninu di Nociglia. Uno degli ultimi, o forse l'ultimo costruttore di tamburelli.

Nino l'avevo conosciuto qualche anno prima. Dopo vari tentativi mi aveva costruito dei bellissimi strumenti: leggeri, robusti e "sonanti". Di questo si erano accorti gli Zimba.

Una volta avuti in mano gli strumenti hanno cominciato a suonare e a batterli come fosse una questione di vita o di morte. Non volevano dimostrare niente a nessuno, nemmeno esibirsi, erano in perfetta simbiosi con gli strumenti e con il suono che producevano. Per loro il tamburello non era e non sarebbe mai stato uno strumento ludico, ma sembrava rappresentasse davvero il "mezzo sacro" attraverso il quale esorcizzare i mali della vita, ridurre le angosce, scacciare le paure, soddisfare le aspirazioni lasciando scaturire le idee. Era con questo strumento e il ritmo da esso sprigionato che i Mighali trovavano il loro modo di esserci, di stare  nella comunità. Il loro suonare era lieve e forte allo stesso tempo: sul ritmo e al tempo della pizzica trovavano il modo di dirsi, raccontarsi, narrare le loro storie e personali e comunitarie.

Uno su tutti fra questi grandissimi ed inimitabili suonatori colpì la mai fantasia e la mia curiosità: "Cola Brindisinu".

“Cola” aveva una mano veloce, elegante, dalle dita lunghe e affusolate che sembrava dovessero rompersi ogni volta che colpivano il tamburello, Energiche e fattrici di suoni rotondi, costanti, a volte con sottolineature e passaggi difficili, ma mai prevaricanti nel contesto sonoro in cui avveniva la "sonata".

Erano personaggi unici. Con loro il mio rapporto è durato (e dura) a lungo con grande intensità e grande affetto.

Da questi fatti, ma anche da altri verificati e constatati in quasi tutto il Salento, si evince che in questo periodo (siamo fra gli anni settanta-ottanta) il tamburello viene usato  solo e soltanto in ambito "rituale", cioé trova modo di essere e di esprimersi al massimo solo nelle ritualità canoniche: il taratismo e la danza scherma di Torrepaduli.

Al di fuori di queste due ritualità, che da sempre hanno permeato la vita e l'immaginario salentino, il tamburello non viene utilizzato.

Le sonorità salentine sono quelle dei canti polivocali (alla stisa): stornelli, canti religiosi, canti d'amore.

Anche qui però, da un'attenta analisi metrica, emerge che i canti, anche quelli con arie e melodie complicate e difficili, sono costruiti con versi endecasillabi, cioè con una scansione metrica che può essere suonata sul tamburello, a modo di pizzica-pizzica.

Il tamburello fino a questo periodo rappresenta lo strumento d'amplificazione della sofferenza, di un’ “ansia salentina” che sembra debba opprimere l'animo. Attraverso i suoi simboli e la sua stessa struttura, questo strumento dà voce a una cultura della sofferenza e dell'affermazione del sé espressa e richiesta dalla gente del Salento.

Mi raccontava "Ntinu" (un altro grande vecchio) che il tamburello può essere paragonato al ventre delle donne, alla sua rotondità. E' lì, nella pancia, nello stomaco, che si focalizza e si amplifica la sofferenza, la rabbia, l'angoscia dell'esistenza quotidiana del vivere, e che poi travalica in ritualità: quella del tarantismo. Così come le grida, le angosce trovano amplificazione nel ventre delle donne e invadono il corpo, non solo del soggetto in preda a queste ansie, ma di tutta la comunità di appartenenza,  e da lì si amplificano fino a trovare soluzioni - a volte temporanee, altre definitive - così il tamburello amplifica, con la sua musica e la sua presenza, nei rituali del tarantismo e della danza scherma, l'angoscia, la gioia, la lotta fra l'esserci e il non esserci. Segna e sottolinea l'esistenza degli individui che lo suonano o che lo ascoltano: insomma "scorcia l'anima" (graffia, incide l'animo).

E ora voglio esplorare così, con brevità e immediatezza di riflessione, i momenti rituali centrali da cui il tamburello proviene e in cui trova la sua funzione “elettiva”, per usare un aggettivo di chiaro stampo demartiniano.

 

Tarantismo

Solo la pizzica-tarantata (la musica usata come terapia per guarire o alleviare le sofferenze delle donne o uomini pizzicati dalle tarante o altri animali striscianti) è l'unica musica salentina che non può essere eseguita senza il tamburello. Può mancare la chitarra, il violino, l'organetto, ma non il tamburello. Da questo strumento si dipana un tappeto (pedale) di note e suoni che rappresentano la base, le fondamenta, su cui si costruisce tutta la struttura musicale che porterà le sofferenti alla guarigione.

Gli anziani chiamano questo tappeto di note "fumo": una specie di suono, leggero, denso, costante e insinuante. Su questa struttura musicale gli altri strumenti, soprattutto il violino e l'organetto, fanno una serie di variazioni (svisamenti li chiamava Stifani) che servono a sottolineare gli stati d'animo, la gioia della percezione dei suoni, la noia, la sofferenza.

Questo, a mio avviso e secondo la mia personale esperienza, è il ruolo del tamburello in questo rito (che è superfluo esplicitare in questa sede e si rimanda alla ricca letteratura sull'argomento).

C'è da sottolineare che, proprio la funzione "guaritrice" della musica e la sua appartenenza ad una ritualità, fanno della musica del tarantismo una musica “atemporale”, non assoggettabile ai cambiamenti del tempo e delle mode. Per ottenere i risultati richiesti deve essere quella e non altra. Questo le conferisce una staticità e una sacralità rituale.

Ora è chiaro che se questa musica viene usata fuori dal rituale e dalle modalità per cui è stata pensata e tramandata fino ai nostri giorni, può assumere modi e caratteristiche diverse, ma non otterrà sicuramente gli effetti di musica "liberatrice".

Per esempio negli ultimi cinque, sei anni, i giovani tamburellisti hanno inserito il "controcolpo". Questa tecnica, non propriamente salentina, più indicata per le tarantelle di Montemarano, di Carpino e altre, non fa altro che interrompere l'esecuzione della musica circolare della pizzica-pizzica.

S'interrompe il "fumo", s'interrompe quel "possedere", attraverso la musica, il corpo e la spiritualità di coloro che "ballano".

In questa prospettiva e in tutto questo periodo (anni ‘70-88) il tamburello è appannaggio dei suonatori tradizionali. Di coloro che all'interno della comunità hanno sempre svolto questo ruolo: terapeuti sonori dei mali sociali e culturali della comunità.

Se si ha bisogno di un intervento di questo tipo la comunità sa a chi rivolgersi e le modalità esatte con cui si svolgerà il rito. Non ci sono scuole dove si insegna, solo chi ha la possibilità di "vedere" i suonatori di tamburello tradizionali o chi ce l'ha in casa impara a suonare, per uso e diletto  proprio, il tamburello, almeno così come era necessario farlo nella pizzica-pizzica.

La musica nel tarantismo è codificata secondo una ritualità statica e precisa, tesa alla piena espressività del soggetto. Le spose di san Paolo sceglievano la loro modalità sonora e cromatica. Danzavano scegliendo la personale scansione vitale, tese a risolvere la propria  energia conflittuale di soggetti razionali e irrazionali, creativi e devianti.

Torrepaduli

La notte del quindici agosto migliaia di persone si danno appuntamento a Torrepaduli, piccola frazione di Ruffano.

E' la notte dei tamburi, la notte della danza dei coltelli, la notte delle "ronde". Torrepaduli oggi raccoglie e sintetizza, nel bene e nel male, le energie musicali, questa voglia irrefrenabile di suoni e balli del Salento.

Anticamente (e fino agli anni settanta) Torrepaduli e le sue ronde, con il loro cerchio, rappresentavano un luogo sacrale deputato alla risoluzione di problematiche sociali, di potere e di comando legate soprattutto alle comunità dei Rom stanziali nel Salento.

Avveniva che di fronte al sagrato di San Rocco si decideva ogni anno chi fra le varie comunità Rom dovesse comandare i vari clan. Queste decisioni avvenivano e si consumavano attraverso un duello rusticano, con i coltelli, quando era vero, con il dito l'indice e il medio a simboleggiare il coltello, quando assumeva sembianze teatrali.

Mi raccontava Luigi di Alessano che i vari gruppi Rom che poi si davano appuntamento la notte del 15 a Torrepaduli, durante tutto l'anno allenavano i loro "campioni", coloro che dovevano difendere e imporre il comando di un clan sugli altri.

Ciò avveniva in luoghi segreti e con tecniche di scherma segrete. Tutto il rituale aveva tempi e modalità di svolgimento precise. Solo alla fine, quando il duello assumeva i caratteri di una vera e propria disfida, e poteva scorrere il sangue, solo allora veniva suonato il tamburello salentino, quello con la pelle che loro chiamano "tamburo reale". E solo allora i duellanti-ballerini potevano affondare, sul ritmo scandito dal tamburo reale, le stoccate, a volte anche mortali.

Ora tutto questo non avviene più a Torrepaduli. Da diversi decenni. Ma in qualche maniera questo luogo, che da sempre è stato un luogo di devozione e di culto di tutta la Puglia, dove migliaia e migliaia di persone si recavano e si recano per ristabilire il contatto con la “Madre Terra”, (attraverso il rito dell'incubatio, retaggio di antichi riti presenti in quel luogo, ha conservato una sua centralità ed espressività per il tamburello salentino. E' qui che le persone compravano e comprano il tamburello, ed è qui che lo suonano tutta la notte fuori dagli schemi classici del tarantismo. E' qui che per trascorrere la notte, in attesa della fiera del bestiame del 16 agosto, le due comunità, quella salentina e quella rom, si incontrano sul ritmo della pizzica-pizzica. O come si chiama qui "pizzica-scherma".

E' qui che suonatori e schermitori danno vita a racconti sonori e gestuali formati da movenze e scenografie corporee che richiamano antichi duelli, antiche gesta, nuove esigenze e nuove epopee.

Nelle ronde, nel contatto con la terra, nel contatto de corpi accaldati, sudati, eccitati, si riscrive, forse in maniera inconscia, il rito dell"incubatio", questo trasmettere e ricevere energia dalla terra e dai suoi simboli. E il tamburello salentino è un simbolo della terra.

Oggi, più che ieri, si può assistere a questa " contaminazione" fra i vecchi suoni tradizionali e le nuove esigenze socio-culturali e ritmiche che portano a Torrepaduli migliaia e migliaia di giovani da tutta Italia e anche dall'estero.

Prima i suonatori di tamburello che accompagnavano gli schermitori avevano proprie regole e abitudini. Quando si formavano le ronde e qualche "nuovo" suonatore voleva accorparsi, i vecchi lo mettevano alla prova e se non rispondeva in maniera adeguata a queste sollecitazioni ritmiche, lo escludevano, con gentilezza, ma lo escludevano. Si davano degli ordini (a uno, due, a tre) a cui corrispondevano determinate varianti ritmiche.

A differenza del tarantismo la musica e l'uso del tamburello a Torrepaduli è stato ed è in movimento, si adatta e si adegua alle nuove esigenze, ai nuovi bisogni delle persone che qui si ricercano, si uniscono, per misurare le proprie energie dal tramonto del 15 agosto all'alba del 16, in un susseguirsi e formarsi di ronde, in un intreccio di suoni; coscienti di ricercare la necessità di esserci, almeno per una notte e forse per il giorno dopo.

Fino al sorgere del sole che mostra mani rosse di sangue quasi fosse un voto e fa brillare i sonagli dei tamburelli di nuove energie e nuovi percorsi.

Qui ogni anno "mescju Ninu de Nocija" portava i suoi bellissimi tamburelli, che ancora oggi non trovano eguali, e su questi tamburelli e sulle giovani pelli, i nuovi suonatori lasciavano e lasciano il loro tributo di sangue. 

Fino agli inizi degli anni novanta l’uso del tamburello è fortemente concentrato in queste due ritualità salentine. Raramente è utilizzato o viene insegnato fuor da questi contesti. Solo qualche raro esecutore di pizziche in uno, forse due gruppi di riproposta di musica popolare. C'è da sottolineare come da sempre nel Salento la tradizione della musica popolare sia stata appannaggio dei gruppi di riproposta, sia in passato sia soprattutto oggi.

Per decifrare questa situazione bisogna risalire agli anni cinquanta.

E' in questo periodo che nel Salento si verificano eventi che segneranno la società salentina profondamente, e forse in maniera irreversibile.

Nel mio ricordo, nelle mie emozioni il sangue che macchia i tamburelli richiama il sangue delle lotte del movimento operaio e salentino.

Nel '50-'51 la popolazione salentina stremata dalla fame e dalla disoccupazione tenta di occupare le terre incolte. Ben due volte resiste all'attacco e alla violenza istituzionale e resiste sui luoghi occupati per quaranta giorni e quaranta notti. I risultati di tali lotte e aspirazioni alla dignità umana non saranno brillanti. E' vero che quasi mille ettari di terra, fra la meno coltivabile, saranno assegnati ai contadini, ma è altrettanto vero che gli stessi non avranno a disposizione aiuti economici e materiali per poter vivere della coltivazione delle terre conquistate.

Sono abbandonati a se stessi senza sostegni né dei sindacati, né dei partiti politici, con l'aggravante che neanche i proprietari vogliono farli lavorare a giornata, anzi faranno di tutto per ridurli alla fame.  Seguiranno angherie e soprusi di ogni genere.

La grande illusione finisce, e comincia un periodo che svuoterà i paesi e le campagne salentine: l'emigrazione.

Migliaia di persone emigrano. Con la valigia di cartone e la voglia di conquistarsi il diritto alla vita.

Partono in massa: Belgio, Francia, Svizzera, Germania. L'intero tessuto sociale delle comunità è devastato. Nei paesi restano i bambini e i nonni.

A contatto con realtà altre i "cafoni scarufaterra" (mangia terra) salentini, si sentono esseri umani. (Racconta Cristina in Morso d'amore: “Quando stavo in Svizzera e lavoravo all'ospedale, smettevo di lavorare, mi facevo la doccia, mi cambiavo e uscivo. Quando stavo qui, sporca stavo e sporca rimanevo. Come bestie”). Assumono nuovi modelli e nuovi stimoli.

Tutto questo porta al rifiuto globale, alla rimozione forzata di tutto ciò che era stata la loro vita prima dell'emigrazione. Più si vive in queste realtà, più si sfalda la memoria dell'appartenenza a una terra e a una cultura.

Questa situazione dura per più di vent'anni. Io ricordo che quando intorno al ‘72-‘73 andavo nei paesi a cercare il filo della memoria e chiedevo alle persone di cantare qualcosa di “tradizionale” o di "vecchio", attaccavano con Finché la barca va o semplicemente dicevano di non ricordare, di non sapere. Anche gi strumenti musicali e i rituali ad essi legati vengono abbandonati e subiscono una profonda lacerazione, e solo di rado si sente di qualche "sonata alle tarantate", e anche a Torrepaduli la partecipazione alla notte del 15 agosto era legata più alla devozione per il santo che alle "ronde" a cui solo i Rom davano vita.

In questo periodo suonatori e terapeuti del tarantismo come Stifani e altri svolgono ruoli non propriamente attivi, ma fanno da "guide culturali" ai vari studiosi che transitavano per queste terre.

Trovare un canto per intero o un'"aria" era difficile e richiedeva tempo e pazienza.

Non si voleva ricordare, ritornare anche solo con la memoria a quella difficile, inumana situazione, precedente gli anni '50. Era doloroso.

Cantare alla stisa significava ripercorrere e ripensare alle tredici, quattordici ore passate nei campi con in corpo una frisa, a volte con cipolla. Suonare il tamburello significava ridisegnare e rivivere la subalternità della donna e la sua antica sottomissione a tutti gli eventi, naturali o sociali.

 Chi in quegli anni tentava di riproporre la musica tradizionale prendeva pietre e sberleffi in faccia. Tutto questo ci consegnava una coscienza e una memoria spezzata. Tutti i tentativi fatti a cavallo degli anni '70-'80 dai vari gruppi e dagli intellettuali di riproporre la musica popolare si sono intrecciati con la ferma volontà di ricucire questo strappo, ridare dignità ad una storia,  ricostruire un percorso che aveva portato a tutto ciò.

Ma, sia come sia, a parte qualche eccezione e un grandissimo impegno, il tentativo non è stato dei più brillanti. Il fatto più eclatante è stato che non si è saputo incidere, innescare un processo di rivisitazione critica fra il presente e ciò che il passato ci aveva consegnato.

Bisogna a spettare gli anni '90 per riprendere i fili di questi discorsi, nuovi punti di vista emergono, si rivelano attenti e ben disposti a sondare e studiare i fenomeni musicali e rituali, ma, purtroppo, il più delle volte estraniandoli dal contesto in cui la cultura della memoria si era sviluppata e arricchita, attribuendo significati e sentimenti che sicuramente mai nessuno aveva dato loro sin dall'origine. Tutto sembra diventare arbitrario.

Così ad esempio il tamburello e la pizzica-pizzica assumono un ruolo centrale nella musica di riproposta contemporanea, schiacciando e relegando in un ruolo marginale tutto il "corpus" musicale e poetico della musica salentina: canti polivocali, canti religiosi, di morte, stornelli... che racchiudono l'essenza e la sintesi della visione filosofica, estetica ed etica della gente che l'ha prodotto. E’ un’operazione arbitraria, fatta a tavolino come candidamente dichiara Edoardo Winspeare nell’intervista contenuta ne “Il ritmo meridiano” (ed Aramirè, 2002).

Stimolato anche dal movimento dell'Hip-op locale e nazionale il tamburello sembra dovere incarnare a tutti i costi questa frenesia di rappresentarsi. Questo fenomeno è dovuto anche a diversi fattori socio-politici verificatisi negli anni '89-90. Cade il muro di Berlino, e finiscono, almeno sembra, le contrapposizioni ideologiche, o diciamo che la cultura può spaziare a trecentosessanta gradi, senza barriere.

Si accentuano e si ingrossano i movimenti dell'immigrazione. I popoli si spostano, premono alle porte dell'Europa, e il Salento è una delle porte, per eccellenza, di questi movimenti, un luogo che è parte della memoria dei popoli che si affacciano di fronte alla penisola salentina.

Si riducono le illusioni dell'emigrazione interna verso Nord. Allora la gente si ferma nella propria terra, si interroga, si chiede, vuole sapere. A contatto con i nuovi immigrati che, nella loro miseria, conservano riti e modalità cultuali proprie, ci si chiede delle proprie.

E qui si riscopre il tamburello come sintesi di una cultura, e la musica della pizzica-pizzica, ripulita dalla sofferenza, ben si presta a rappresentare un'esigenza di teatralità e di rappresentatività. Si laicizza il fenomeno del tarantismo, sottraendolo all'influsso della chiesa cattolica e all'influenza di san Paolo e anche della riduzione medica e psichiatrica e di esso si considera solo l'aspetto musicale e quello gestuale. Nascono come funghi gruppi di riproposta; centinaia di scuole per insegnare il tamburello e la danza della pizzica-pizzica e centinaia di giovani, che nulla sanno o vogliono sapere della memoria salentina e danno poi vita sulle piazze ad una danza e ad un suono con caratteristiche molto vicine alla danza e alla musica da discoteca.

Si invadono le piazze e le curti, e ognuna è danzata e suonata.

Ognuno si sente libero, anzi forse anche un pò obbligato a intrecciare la propria esistenza con queste ritualità e gestualità.

I costruttori di tamburi salentini si moltiplicano, così i corsi nelle scuole, nelle associazioni private. Sembra una corsa contro il tempo per recuperare una cosa che si sa per certo sfuggita, molto spesso e per un lungo periodo, rifiutata.

Torrepaduli diventa allora la sintesi perfetta di tutte queste energie e voglia di rappresentarsi. Il 15 agosto sin dal primo pomeriggio si vede una teoria di giovani con variegati strumenti musicali a tracolla che viene ad occupare il posto di fronte al santuario di san Rocco. Appena buio si dà vita alle ronde e ai suoni, non più regolati, non più danzati dalla gente di un  tempo, ma da centinaia e centinaia di giovani con l'irrefrenabile voglia di rappresentarsi.

Il tarantismo a Galatina assume le caratteristiche di percorso turistico con tanto di guida che, al prezzo modico di un euro, ti mostra il posto esatto in cui Ester…, Cristina…, e quel tale che il 29 giugno prese a schiaffi un operatore. Con vari gruppi di musica "etnica" (così la chiamano) che inscenano il dolore e la ricerca di umanità negata che fu dei nostri genitori e dei loro, prima.

La pizzica-pizzica assurge alle cronache nazionali ed internazionali. Vengono organizzati festivals di musica etnica che ben presto diventano la sintesi espressiva, almeno nelle menti degli organizzatori, dell'intera comunità e dell'intera memoria salentina. Si creano mega raduni e mega strutture mass-mediali per rappresentare una realtà ben lontana dall'aver trovato una giusta dimensione e continuità storica, ancora dimezzata e spezzata. Anzi ancora di più.

Non dico questo per mera critica verso questi eventi, ma perché vorrei sommessamente segnalare che, a mio avviso, si stanno ripetendo gli errori degli anni '50. Si da più importanza ai risultati immediati che al futuro.

A tutt'oggi, ad esempio, non abbiamo una rilevazione sistematica, un “censimento” dei suonatori di tamburello, tradizionali e contemporanei, e non abbiamo, nonostante le nuove tecnologie, filmati o foto sulle loro tecniche di suono, che, se pur di poco, differiscono una dall'altra. C'è chi lo batte, chi lo pizzica, chi lo rulla.

Non abbiamo un archivio centrale della memoria dove poter visionare i vecchi materiali video e sonori e dove poter tracciare i piani di nuove ricerche di giovani studiosi.

Insomma stiamo ancora sfuggendo alle nostre responsabilità e ancora una volta stiamo contribuendo a costruire una memoria spezzata.

I giovani, soprattutto quelli che fanno la riproposta, non si accostano volentieri ai suonatori tradizionali, ai vecchi costruttori di tamburelli. Vanno nelle scuole di ballo, si inventano costruttori di tamburelli che il più delle volte sono "sordi" e si rompono al primo calore del sole, che usano sonagli impropri e inadatti ai tamburelli salentini, ma che soprattutto imparano a memoria testi e "arie" dei canti tradizionali, non dalla memoria tradizionale salentina, ma dagli stessi gruppi di riproposta che il più delle volte non sanno nemmeno da chi hanno copiato a loro volta. Si impara così come si impara, in quest’ultimo caso però in maniera naturale, i testi e le arie della musica contemporanea, quella che più appartiene alle loro generazioni.

E' evidente che nessuno di noi può fermare il progresso o l'evoluzione della società, ma è anche vero che ogni società possiede una storia e che l’emancipazione avviene per gradi.

E' anche vero ed incontestabile che anche i cantori tradizionali subiscono il cambiamento. Antonio, Lucia ecc... non cantano più come vent'anni fa, ma ciò che li distingue è che loro posseggono un codice estetico e musicale imparato ed assimilato per gradi, rispettando delle regole etiche imposte dalla comunità, all'interno delle quali non si perdono mai. Alla fine di qualsiasi esecuzione canora, o di affabulazione, trovano sempre, e in maniera naturale, il modo di "chiudere alla maniera salentina”.

Ora si è passati troppo rapidamente e velocemente da uno stato di quasi totale disinteresse a una sollecitazione impressionante che impone sempre nuovi e più mastodontici apparati estetici per cantare e suonare.

In definitiva si ha - almeno io ce l'ho - l'impressione che si voglia costruire una casa a più piani partendo dal tetto senza aver prima creato solide fondamenta, sulle quali si può costruire decine di piani che rispecchiano il piacere e l'estetica del costruttore, con la consapevolezza che le fondamenta siano ben salde e sulla roccia e consapevoli che dietro c'è un popolo che sollecita verso una politica dell'esserci e non del rappresentarsi.  

 
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