I Peter Pan della globalizzazione
Dall'adolescenza all'età adulta oggi, nell'epoca del precariato e della globalizzazione
Per un counselling rivolto agli educatori di adolescenti “che non vedrò”
Dalla lunga intervista rilasciata all’amico Fabio Vanni emerge in maniera nitida la laicità del pensiero del prof. Pietropolli[1], la sua capacità di agglutinare in un discorso personale ad alto tasso di originalità tutto un insieme di discorsi sull’adolescenza provenienti dalla tradizione, non solo psicoanalitica.
All’interno di questo pensiero una parte non secondaria mi pare essere costituita da quell’insieme di considerazioni sulla molteplicità dei setting possibili in adolescenza che trovano nei vati tipi di lavori sull’ecosistema (famiglia e dintorni) in cui l’adolescente vive, un momento molto importante per chi come me ha la ventura di lavorare nel pubblico e di accogliere richieste provenienti spesso - più spesso di quanto possa avvenire nel privato - dai dintorni di quel complesso ecosistema cui si riferisce Pietropolli che parte dalla famiglia, passa per la scuola e si allarga a raggiera fino a raggiunge le maestre di danza, gli allenatori, etc.-
Due sono le ragioni in base alle quali, secondo Pietropolli, è possibile pensare a questo ecosistema non solo come ad una entità attenta, a volte addirittura allarmata, di fronte ai problemi che l’adolescente col suo comportamento presentifica, ma anche come ad un contesto facilmente motivato e disponibile al dialogo con lo psicoterapeuta e con il counsellor sui temi dell’adolescenza: da una parte appunto il fatto che, attraverso tutta questa serie di comportamenti sintomatici l’adolescente ‘parli’ all’ecosistema e, direi, si esprima attraverso di essi; dall’altra il fatto che chiudersi con l’adolescente “nella stanza delle parole” a volte, come dice Pietropolli, può significare non comprendere che “i cambiamenti nella mente dell’adolescente non sempre avvengono nell’ambito della relazione che si stabilisce con lui, qualche volta possono provenire dalla rete relazionale a cui egli appartiene: uno spostamento del punto di vista di uno dei genitori, per esempio, può determinare una trasformazione nel suo modello di funzionamento mentale, attenuare l’ansia e favorire la ripresa evolutiva”.
Il primo elemento testimonia di una propensione da parte di entità esterne al setting centrato solo sulla ‘stanza delle parole’ a darsi da fare per decifrare il testo provocatorio che l’adolescente propone loro in forma criptica, a ‘mettersi in crisi’ di fronte alla richiesta di aiuto e di cambiamento che da quel testo vien fuori una volta che sia stato decifrato.
Il secondo incita lo psicoterapeuta e il counsellor a decentrarsi, a ‘laicizzare’ il setting, a ramificarlo affinché, a fianco al lavoro sui ‘Sé’ da condursi con il giovane, o in sostituzione di esso (vedi il counselling rivolto ‘ai genitori di adolescenti che non vedrò“) sia possibile fare un lavoro sull’ecosistema. Lavoro che, come quello che avviene nella stanza delle parole, è lavoro sui ‘Sé’ volto a porre in evidenza da una parte la molteplicità di queste presenze interne alla mente del giovane ed i loro esoterici linguaggi, dall’altra le risonanze interne che il testo polemico che l’adolescente agisce sulla scena dei suoi rapporti con gli adulti provoca in essi, e la possibilità di riattraversamento che essi possono sperimentare se solo osano vedere la scena con altre parti presenti al loro interno anche se più eccentriche rispetto a quelle con cui solitamente dialogano, con altri ‘Sé’ presenti da lungo tempo in loro, e che solo i casi della vita hanno messo in sonno.
Da ciò la necessità di approntare il campo e approntarsi, come counsellor, a quell’insieme di lavori sull’ecosistema di cui parla a più riprese Pietropolli.
Con questo mio scritto mi propongo di evidenziare un ambito particolare dell’attività di counselling in adolescenza che potremmo definire “counselling rivolto agli educatori di adolescenti che non vedrò“: educatori motivati a causa della situazione di allarme derivante dal loro rapporto con uno o più adolescenti loro affidati, educatori disposti a farsi carico anche di questi aspetti inerenti la loro relazione con essi e quindi non ridotti alla loro condizione di istruttori[2].
E la prima cosa che mi preme di sottolineare in proposito è che con il termine ‘educatori’ non intendo solo riferirmi ai docenti che lavorano con gli adolescenti all’interno della scuola, ma anche a tutti coloro che, come dice Egle Becchi, a vario titolo operano all’interno del “sistema educativo”[3].
Ebbene, se noi guardiamo laicamente alla scuola, vediamo che oggi essa, come tutto il sistema educativo, sia attraversata, ormai da un trentennio, da un insieme di cambiamenti che lentamente hanno modificato la vecchia gerarchia di funzioni in base alla quale essa tradizionalmente operava e, conseguentemente, anche se con qualche resistenza iniziale, i livelli di autorappresentazione. Un processo in base al quale si è passati nel tempo da una unilaterale enfasi sugli apprendimenti ad una situazione in cui l’attenzione alle relazioni prende sempre più spazio.
Peter Fürstenau, in un suo saggio apparso significativamente intorno al sessantotto, ci proponeva un’immagine della vecchia scuola in cui prevalevano la rinuncia all’informalità, la spersonalizzazione dei rapporti, “l’aggressione contro le tendenze alla familiarità sia negli allievi, sia nel maestro”, la presa di distanza dai problemi inerenti alla relazione, la conseguente tendenza ad assumere sulla scena scolastica difese incentrate sul “rituale pedagogico”, cioè difese di tipo ossessivo, ed un’analisi del fallimento di questo tipo di difese a partire da una lettura dei contenuti aggressivi e erotici innescati nel docente dalla situazione di squilibrio di poteri presente in classe.
Oggi, per ragioni che qui non è il caso di riprendere, tutto questo praticamente non c’è più: l’opzione per la formalità e la distanza nei fatti[4] è stata abbandonata in direzione di una opposta opzione per l’informalità e per la vicinanza sia nel rapporto verticale docente – discente, sia in quelli orizzontali fra discenti e fra docenti.
Ciò ha provocato una isterizzazione della scena scolastica con conseguenti scelte sul piano difensivo che vanno sempre più trasformando la classe da luogo liminare e nascosto in cui vigeva la tematica dell’allontanamento e della dissimulazione dei sentimenti in un vero e proprio scenario in cui vengono previsti ed esaltati sia la teatralità ed i drammi legati ai vari problemi scolastici sia quelli originati nei docenti e nei discenti dalle problematiche relazionali inerenti la crescita ed i processi di identificazione che, in adolescenza, diventano anche, come dice Octave Mannoni, processi di più o meno ostentata, ambivalente e sofferta disidentificazione.
In una situazione di questo genere è indubbio che anche le modalità difensive prevalenti in tutti gli attori presenti su questo scenario siano molto diverse da quelle fobico-ossessive che contraddistinguevano la situazione precedente. Il quadro di fondo è quello volto alla teatralizzazione[5], innescata dalla situazione di estrema vicinanza all’oggetto. Su questa modalità isterica, che fa da timbro, da canovaccio, si dispiegano varie strategie difensive, più o meno efficaci ai fini del mantenimento di un’atmosfera operativa.
Innanzitutto una tendenza ad assumere su di sé la colpa derivante dai problemi della crescita, che ora, nella scena attuale ‘B’, il docente vede e nei quali ora si riflette con un dolore ed una sofferenza che sono pari a quelle da loro sperimentate nei luoghi ‘A’ in cui per la prima volta l’hanno provato come bambini e come discenti sulla propria pelle, in un tempo lontano che dai loro predecessori tendeva ad essere rimosso o agito nella fredda esecuzione del rituale pedagogico, e che loro ora, in base alla attualizzazione dei nodi problematici innescata dai processi di identificazione, non possono eludere.
Tale tendenza potrebbe essere definita come un rovesciamento adialettico della precedente concentrazione sul curricolo e sulle materie, rovesciamento centrato sul tema della assunzione, all’interno dei compiti che il docente deve svolgere in scuola, di tutti i problemi che la società, la famiglia e il giovane stesso nella sua intierezza, ora che sono vicini, vicinissimi al docente, impongono in lui: è per questa strada che nascono quegli atteggiamenti ‘bulimici’ che portano i docenti ad interessarsi dell’universo mondo, alternando spesso a questi momenti di interesse e di entusiasmo, momenti di nausea e di rigetto.
Un altro elemento che emerge fin dalla scuola elementare in questo clima isterico è un atteggiamento mirante a negare la presenza della distanza generazionale e dello squilibrio dei poteri e dei saperi in favore dell’affermazione di una vicinanza di interessi e di un iperdemocraticismo che esercita a volte la sua funzione non solo sul piano dei metodi di rapporto, ma anche nella fissazione dei contenuti e dell’O.d.G. della classe. I rischi, allorché si esagera su questo piano specialmente in adolescenza, sono quelli di estendere l’area della negoziazione che si instaura in quest’età anche fra docente e discenti fino alla messa in crisi degli elementi strutturali fondanti del fare operativo, e di definire il percorso di crescita come una strada lungo la quale il fare operativo emerge solo di tanto in tanto, in maniera quasi rapsodica, mentre la quotidianità è intrisa di un volersi bene aspecifico, pre-operativo che ben presto fa slittare la classe verso quella dimensione di familiarità che era il babau della scuola vecchio stampo analizzata da Fürstenau.
Una terza ed ultima strategia che ho riscontrato spesso in classe in questi ultimi anni - ma che sicuramente non esaurisce l’insieme delle strategie possibili oggi - è quella basata su una sorta di idealizzazione che ammette, sia nella dimensione verticale che orizzontale, solo la presenza di contenuti e stili di rapporto basati sui buoni sentimenti, su una sorta di storia edulcorata della crescita che lascia fuori dall’uscio della classe i nuclei più problematici. Si tratta di una strategia che è presente spesso in tutto il sistema educativo, che comprende cioè scenari quali l’oratorio, la squadra giovanile, etc., e non solo la classe. E’ per questa strada che spesso ed in maniera paradossale emergono poi in forma mitologica e angosciante tutte le dicerie sui giovani poi amplificate dai media[6].
Se poi noi concentriamo lo sguardo sull’adolescenza ci troviamo di fronte ad uno scenario che - oltre queste caratteristiche di novità riscontrabili nelle scuole di ogni ordine grado - presenta alcuni elementi di specificità che penso valga la pena prendere in considerazione.
Innanzitutto nella nostra società il passaggio all’età adulta - che nelle società tradizionali era concentrato nel tempo, altamente cerimonializzato ed affidato alla comunità degli adulti – come dicono Vanni e Sacchi, continua funzionalmente ad essere cerimonializzato in massima parte ad opera della scuola e degli adulti in essa operanti, ma in maniera scarsamente autocosciente. Di modo che spesso non vi è negli adulti operanti nella scuola alcuna precisa sensazione del significato che la cerimonializzazione del passaggio assume per il giovane; alcuna riflessione sui risvolti inerenti la crescita psicologica impliciti nelle peripezie che lungo il tragitto il giovane ha modo di sperimentare; alcuna coscienza di essere, come comunità degli adulti operanti nella scuola, fra le poche entità sociali che concretamente svolgono la funzione di sacerdoti officianti il passaggio (Angelini, 2001). Per cui anche nei pur molti casi in cui intuitivamente i docenti che operano con gli adolescenti compiono passi significativi sul piano dell’aiuto nel doloroso e luttuoso processo di passaggio, lo fanno senza rendersi pienamente conto di ciò che fanno: non riescono cioè a passare da una conoscenza intuitiva ad una appercezione piena e, direi, programmatoria su questo piano.
In secondo luogo, se noi tentiamo un’analisi delle ragioni di questo scarto fra effettiva pratica quotidiana sul piano della ritualizzazione del passaggio e mancata coscienza adulta dei significati, o dei meta\significati impliciti in tale pratica, emergono tutte le varie complicazioni che nella nostra società complessa sono connesse al lungo passaggio dell’adolescente all’età adulta.
Nella nostra società infatti innanzitutto esistono da una parte esigenze d’ordine materiale, connesse alla estrema complessità dei processi formativi necessari al fine di forgiare una forza-lavoro adatta alle attuali (e future) esigenze produttive, che rendono il passaggio all’età adulta lunghissimo, molto poco scandito sul piano delle sue tappe intermedie, insicuro nei tempi, nei modi e nell’assunzione dei livelli di autonomia connessi al suo esito: l’ingresso nell’età adulta (Laffi).
Dall’altra esigenze di tipo spirituale che influiscono sulla definizione dell’immagine di sé e sui livelli di autonomia e di originalità che l’adolescente ha o aspira ad acquisire. Mi riferisco soprattutto alla profonda discrasia che si verifica nell’adolescente che, per un verso è sospinto in una società complessa come la nostra ad espandere ed individualizzare oltremodo la propria soggettività e ad assumere un atteggiamento nei confronti della generazione che lo precede molto meno armonico ed organico di quello occorrente a diventare adulto nelle società più semplici; per un altro verso - come giustamente hanno messo in evidenza la Scabini e la sua équipe di ricercatori della postadolescenza - ad assumere un atteggiamento conformista, a comprimere ed mettere tra parentesi la sua individualità poiché, rimanendo in famiglia troppo a lungo, deve annegare la sua originalità e malgré soi rimanere in una posizione subordinata rispetto all’universo genitoriale.
In questo modo l’enorme dilatazione dei tempi del passaggio, l’enorme diluizione nel tempo dei vari aspetti del cerimoniale appaiono come le cause prime di questa mancata coscienza da parte del mondo adulto della funzione cerimonializzante che pure assumono molte azioni esercitate dagli adulti, e dai docenti in particolare sui giovani: pensiamo ai passaggi da una classe all’altra, da un ciclo scolastico ad un altro; così come dai giovani su se stessi e sul proprio corpo: pensiamo al significato della conquista di quel vero e proprio luogo liminare rappresentato dalla notte, al significato che assumono i tatuaggi, e tutti gli altri segni più o meno rischiosi con i quali il giovane marca le varie fasi del passaggio in solitudine(Le Breton, Pietropolli e Marcazzan), in assenza di adulti che lo confortino e lo confermino nella sua crescita, ed anzi spesso in presenza di un mondo adulto che si presenta ai suoi occhi in totale discrasia con i suoi tentativi autoterapeutici, e con l’aiuto sempre relativo che può derivare dal gruppo di pari.
In questo modo la dilatazione dei tempi in cui si esplica il cerimoniale semina lungo il tragitto di crescita tutto un insieme di segni che paradossalmente, pur diventando una componente evidente del paesaggio abitato dall’adolescente, risultano però invisibili al mondo adulto poiché troppo incombenti su di esso, troppo carichi di significati incomprensibili, che pure vedrebbero tutto l’ecosistema pronto a montar su in un modo o nell’altro, come dice Pietropolli, sul piano dell’interpretazione e dell’azione se solo ci fosse a portata di mano qualcuno pronto all’aiuto nell’opera scoperta e di decifrazione.
Ed è proprio sulle caratteristiche di questo ‘montar su’ che vorrei proporre infine alcuni elementi di riflessione su alcuni aspetti della pratica nel pubblico.
L’erompere sulla scena della classe del polo dell’informalità ha senz’altro contribuito ad elevare il tasso di attenzione che il mondo degli adulti addetti ai lavori mostra nei confronti dei problemi dell’adolescenza, di modo che, come in tutte le altre componenti dell’ecosistema, c’è attenzione e allarme nel mondo nei docenti sulle componenti relazionali ed emotive dell’adolescenza. Ciononostante non è altissimo il numero dei docenti che segnala l’emergere di un proprio problema nato in rapporto con l’adolescente. Perché?
Perché è vero che l’informalità ha prodotto l’emergere di un flusso identificatorio che fa si che nella situazione ‘B’ della classe possano essere rievocati, nel rapporto con i discenti, elementi di una situazione ‘A’ precedente e riconducibile alla storia personale remota del docente ed ai suoi vissuti di adolescente e di discente. Ma è vero anche che lo squilibrio di saperi e di poteri, sia pure attenuato e isterizzato oggi nella scena scolastica, non elimina il problema, ma anzi spesso conferma la tendenza a scaricarne il peso sul giovane, vissuto come più debole e più sintomatico rispetto al docente. Ciò caratterizza molta parte delle segnalazioni che provengono dalla scuola o che, pur provenendo dalle famiglie, la coinvolgono.
Vi è però una parte - numericamente esigua, ma a mio avviso significativa - di segnalazioni che giungono al counsellor da parte dei docenti della preadolescenza e dell’adolescenza che, a volte in maniera criptica, a volte esplicitamente, esprimono una domanda di sostegno e di aiuto per sé.
La stessa cosa, in termini più contenuti, accade in latenza specialmente in rapporto con bambini a rischio dei primi anni delle elementari che fanno fatica ad entrare strutturalmente in questa nuova fase e richiedono l’assunzione da parte delle maestre di comportamenti e atteggiamenti troppo intrisi di contenuti arcaici che possono metterle in crisi.
Importante di fronte a questo tipo di domande è ancora una volta la laicità del counsellor che, ad esempio, in questi casi spesso deve rassegnarsi a rinunciare all’aura che lo ammanta allorché opera nel proprio ambulatorio, e deve attrezzarsi mentalmente a giocare fuori casa, sfruttando gli interstizi presenti a livello temporale negli orari mattutini dei docenti, a livello spaziale negli anfratti degli edifici scolastici.
Importante è la disposizione a farsi carico di tutti gli elementi che provengono dal racconto del docente che spesso assume come problematici non solo gli elementi che provengono dal suo rapporto verticale con il ragazzo, ma anche quelli che provengono sia dalla sua relazione orizzontale con i colleghi e le famiglie, sia da quella ancora verticale - anche in termini rovesciati - che proviene dalla sua relazione con la gerarchia scolastica. Farsene carico aiutando il docente a interpretare la natura dei problemi, a disappannare uno specchio in cui lui vorrebbe riflettersi, ma che non è in grado (momentaneamente) di fare da solo. Aiutarlo non al fine di uno sterile esercizio su se stesso, bensì al fine del recupero di una sua piena operatività e di una rinnovata propensione a spendersi nello scambio educativo, di modo che, parafrasando Pietropolli, si inneschi “uno spostamento del suo punto di vista” capace di determinare “una trasformazione nel modello di funzionamento mentale, attenuare l’ansia e favorire la ripresa evolutiva” non solo del giovane di cui abbiamo parlato e che non vedrò, ma anche degli altri giovani con i quali il docente è giornalmente in una situazione di scambio operativo.
Si tratta di setting limitati nel tempo, che raramente si istituiscono con una cadenza precisa, ma che spesso lasciano un segno profondo nel docente: gli indizi che ci lasciano presupporre che le cose siano state di una certa utilità è la tendenza da parte di chi già una volta ha chiesto il nostro aiuto a iterare la richiesta laddove riemerge un bisogno. Di modo che alla fine, quando le cose vanno sufficientemente bene, ciò che resta al counsellor è la sensazione di essere diventato come uno strumento di soccorso cui il docente ricorre nel bisogno, come una barca di salvataggio che è lì, di riserva, pronta a rassicurare di fronte alle tempeste più impreviste ed impetuose.
I luoghi ed i momenti in cui solitamente si esprime questo tipo di richieste da parte dei docenti che vivono e lavorano a fianco degli adolescenti sono quelli immediatamente successivi ai vari momenti di formazione, o quelli più discreti e casuali che si creano nei corridoi nel momento dell’arrivo del counsellor magari per altro tipo di consultazione, o quelli suggeriti dal tam tam dei docenti che già hanno assunto il counsellor fra i propri strumenti di soccorso, o infine – in casi più rari – quelli sollecitati da quei presidi che vivono il proprio mandato più sul piano pedagogico che manageriale.
E’ in questi luoghi e in questi tempi interstiziali che è possibile raccogliere le richieste, decifrarle - poiché all’inizio possono essere espresse in maniera alquanto criptica ed anzi appartenere al novero delle pseudosegnalazioni[7] - fissare gli appuntamenti. Aprire insomma una finestra tesa a far capire al docente la propria disponibilità al counselling e, qualora il counsellor si ritenga preparato su questo piano, anche alla supervisione degli aspetti più strettamente pedagogico - didattici del problema.
Si definisce così nel tempo, lungo un percorso spesso puntiforme e rapsodico, un’area di confidenza fra docente e counsellor che definisce implicitamente quel luogo e quel setting come adatti a rinfocolare la disposizione personale affettiva sublimata del docente nel fare operativo scolastico non solo, come dicevamo prima, nei confronti dell’adolescente ‘che non vedrò’ e che ha dato origine alla prima segnalazione, ma – da ora in poi, ed al bisogno – ogni volta che quel pezzo di ecosistema dell’adolescente chiamato ‘educatore’ dovesse rischiare di andare in crisi e per ciò di riflettersi negativamente sugli adolescenti di cui continuerà a prendersi cura.
Bibliografia:
- Angelini L., Affabulazione e formazione: docenti e discenti come produttori e fruitori di testi, UNICOPLI, Milano, 1998
- Angelini L., Dall’etica padana del lavoro all’estetica consumista: l’adolescente reggiano di oggi a confronto con quello di ieri e di avant’ieri, in: Gioco, scambio e alterità,, Quaderni di ‘Gancio Originale’, Provincia di Reggio E., 2001
- Becchi E., Introduzione, in: Becchi E. (a cura di), Storia dell'educazione, La Nuova Italia, Firenze 1987, pp. 1-34
- Fürstenau P., Contributo alla psicoanalisi della scuola in quanto istituzione, in: AA.VV. Educazione o condizionamento, Partizan Ed., Città di Castello, 1970
- Laffi S., Il furto: mercificazione dell’età giovanile, L’ancora del mediterraneo Ed., Napoli, 1999
- Le Breton D., Signes d’identité. Tatouages, piercing et autres marques corporales, Mètailié, Paris, 2002
- Mannoni O., Il difetto della lingua, Pratiche, Parma, 1988
- Pietropolli e Marcazzan, Piercing e tatuaggio. Manipolazioni del corpo in adolescenza, F. Angeli, Milano, 2000
- Scabini E. et al., Giovani in famiglia fra autonomia e nuove dipendenze, Vita e Pensiero, Milano, 1997
- Vanni F. Sacchi M., 1992, Rappresentazione e costituzione delle identità individuali nelle interazioni di gruppo, Milano, Cortina ed.