Neuropolitica della Salute: Antonio Damasio, Mark Solms e la necessità di un dialogo tra neuroscienze e psicoanalisi

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5 febbraio, 2020 - 07:48

         Ho orrore di tutte le verità assolute,

      delle loro applicazioni totali,

         dei loro presunti detentori d’ogni risma.

         Prendete una verità,

         portatela con cautela ad altezza d’uomo,

         guardate chi colpisce,

        chi uccide,

         cosa risparmia,

         cosa elimina,

         annusatela a lungo,

        accertatevi che non puzzi di cadavere,

        assaggiatela

         tenendola un po’ sulla lingua,

         ma siate sempre pronti

         a sputarla immediatamente.

         L’uomo libero è questo:

        il diritto di sputare.

          

         L’UOMO LIBERO, Albert Camus.

 

“Sul piano delle possibili patologie, il XXI secolo appena cominciato non è caratterizzabile in senso batterico o virale, quanto piuttosto in senso neuronale. Malattie neuronali come la depressione, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), il disturbo borderline di personalità (BPD) o la sindrome da burnout (BD) connotano il panorama delle patologie tipiche di questo secolo.”[1] È da questa osservazione che il filosofo coreano Byung-Chul Han parte per parlare di una società in cui tali sintomi sono accomunati da un eccesso di positività. Non ci si ferma più: binge eating, binge watching, stress, ansia, sono solo alcuni dei termini che hanno colonizzato l’immaginario collettivo comune, producendo quella che Frank Furedi alcuni anni fa ha definito una mutazione pervasiva del sistema di significato, innalzando il nuovo linguaggio terapeutico a forza culturale determinante della società Occidentale. L’obiettivo è quello di abbattere qualunque barriera ostacoli il realizzarsi di questa nuova forma di conformismo, che, attraverso tale strumentalizzazione del linguaggio, tenta di prescrivere un’unica realtà sociale fondata sul controllo. In questo articolo si metterà in luce questo processo di cambiamento attraverso l’ormai attuale necessità di una alleanza tra psicoanalisi e neuroscienze, logiche da sempre considerate inconciliabili. Verranno prese in considerazione due eminenti prospettive teoriche interessate a tale alleanza: da un lato le neuroscienze degli affetti, di cui Antonio Damasio rappresenta il massimo esponente e dall’altro l’ibrido neuropsicoanalitico di Mark Solms. Entrambi interessati a fornire un fondamento materialistico alla mente umana, ultima frontiera delle scienze cognitive, il primo appartiene a quella corrente neuroscientifica positiva che tenta di oggettivare qualunque fenomeno psichico, sintomi inclusi, in circuiti neurali, il secondo tenta di formalizzare, attraverso parallelismi e analogie, il dialogo tra neuroscienze e psicoanalisi. Lo sforzo, dunque, sarà quello di approfondire questa nuova realtà teorico-clinica, individuando nelle contraddizioni e nei paradossi di questa manovra, il tentativo, non solo di svuotare la psicoanalisi della sua essenza rivoluzionaria, ma di inglobare tutto ciò che si fa promotore di un’alternativa al discorso dominante.

 

LA NEUROPSICOANALISI

Con il termine neuropsiconalisi si vuole indicare un progetto che mira a ricercare le basi neurobiologiche del comportamento attraverso l’osservazione psicoanalitica. Nel 2002 tale progetto si concretizza con l’uscita del manuale introduttivo sulla Neuropsicoanalisi redatto dal neuropsicologo Mark Solms.  Questo, prendendo le distanze dalla localizzazione anatomico-clinica, che mirava a localizzare i disturbi del sistema nervoso sulla base di segni e sintomi patognomonici visibili dall’esterno, si serve del lavoro di Aleksandr Romanovič Lurija, per realizzare l’ambizioso proposito di derivare la natura dinamica delle funzioni mentali da specifiche organizzazioni strutturali del cervello. Paradossalmente fu Freud stesso a tentare qualcosa del genere con il Progetto di una Psicologia (1895). In quest’opera rimasta incompiuta, il padre della psicoanalisi dovette scegliere se conformarsi al discorso scientifico-culturale dell’epoca seguendo la via del riduzionismo del fenomeno psichico a circuito anatomo-funzionale o superare tale logica staccandosi completamente da qualunque teoria meccanicista. La scelta di intraprendere la seconda strada portò alla nascita della psicoanalisi. È proprio dal progetto rimasto incompiuto dal padre della psicoanalisi che l’ibrido neuropsicoanalitico prende le mosse per finire ciò che Freud aveva abbandonato nel 1895. La scopo di Mark Solms, infatti, è quello di fornire un nuovo vertice fisico di osservazione alla metapsicologia tradizionale.

Attraverso parallelismi e analogie strutturali, il neuropsicologo sudafricano ricerca le basi neurali dei meccanismi metapsicologici descritti da Freud. Questo lo porterà a individuare i correlati strutturali del sogno e a dire che il meccanismo di rimozione attorno cui ruota tutto il sapere psicoanalitico, dipenda da una specifica funzione neurale situata nel lobo parietale destro. Tramite l’osservazione di soggetti anosognosici Solms, infatti, ritrova qualcosa che fenomenicamente somiglia a tale meccanismo. Il paziente anosognosico è un soggetto che, a seguito di una lesione al lobo parietale destro, non solo risulta essere incapace di utilizzare l’intera controparte sinistra del suo corpo, ma ne nega anche questa condizione, affermando ad esempio che il braccio sinistro non gli appartiene, o, al contrario, ne diviene ossessionato (misoplegia). Solms, estrapolando dalla metapsicologia freudiana l’idea che dietro un determinato sintomo si cela una verità opposta a quella direttamente osservabile, tenta di dimostrare empiricamente, attraverso l’esperimento del neuroscienziato indiano Vilayanur Subramanian Ramachandran, come, a impedire la consapevolezza della propria emiplegia sia il meccanismo di rimozione che avrebbe agito a seguito della lesione cerebrale. L’esperimento del neuroscienziato indiano consisteva nel versare dell’acqua ghiacciata nell’orecchio di una paziente con anosognosia in modo che, facendo ciò, essa avrebbe preso consapevolezza della propria condizione. La paziente, non solo riconobbe di non riuscire più a muovere il suo braccio, ma otto ore dopo, quando ormai l’effetto era svanito, aveva distorto il ricordo dell’evento in cui aveva acquisito consapevolezza del suo stato per ritornare alla condizione di negazione anosognosica classica. Le conclusioni furono che dietro il sintomo anosognosico aveva agito il meccanismo di rimozione. È curioso come la confutazione di tale ipotesi provenga dalle neuroscienze stesse. Antonio Damasio si chiede molto semplicemente come sia possibile che questa condizione penosa del soggetto di non riuscire più ad essere padrone di una parte del proprio corpo, si verifichi solo in caso di lesione al lobo parietale destro e non se la lesione è in qualche altra zona del cervello. Nel caso in cui la lesione avviene al lobo parietale sinistro, infatti, il soggetto è perfettamente consapevole della propria menomazione. “I pazienti affetti da anosognosia hanno una lesione all’emisfero destro, in una regione che include le cortecce dell’insula, le aree citoarchitettoniche 3, 1, 2 della regione parietale e l’area S-II, anch’essa parietale, situata nelle profondità della scissura silviana. La lesione colpisce la sostanza bianca al di sotto di queste regioni, distruggendone le interconnessioni e le connessioni con il talamo, i gangli della base e le cortecce motorie e prefrontali. Se la lesione riguarda soltanto alcune parti di questo sistema a molti componenti non provoca anosognosia.”[2] Quindi la negazione dell’infermità, tipica dell’anosognosia, causata dalla perdita di una particolare funzione cognitiva, dipende da un particolare sistema cerebrale che viene leso a seguito di un ictus o di un incidente. Il punto della questione non è confutare una intuizione apparentemente avanguardista e di per sé attraente, quanto mettere in luce il meccanismo attraverso cui la psicoanalisi viene svuotata di senso. Norman O. Brown dice che “la rivoluzione freudiana è quella radicale revisione delle teorie tradizionali sulla natura umana e sulla società che diviene necessaria se si riconosce la rimozione come un dato di fatto. Secondo la prospettiva freudiana, l’essenza della società consiste nella repressione dell’individuo e l’essenza dell’individuo consiste nella rimozione di se stesso.”[3] Quindi la rimozione di cui parla Freud è un meccanismo che con l’ausilio della coscienza mira a tenere lontano qualcosa di moralmente penoso per il soggetto, ma, essendo la morale una conseguenza culturale dell’esser-umano in quanto tale, la rimozione diventa necessaria a spiegare tutte quelle manifestazioni psicopatologiche (e non) che sono i sintomi e i segni, non di una lesione o disfunzione cerebrale, ma della condizione umana propriamente detta. “Come dice Freud, la superiorità dell’uomo sugli altri animali consiste nella sua capacità di essere nevrotico; e la capacità di essere nevrotico è semplicemente l’altra faccia della sua capacità di svilupparsi culturalmente.”[4]Il filosofo sloveno Slavoj Zizek mostra come la spiegazione di tale brutale parallelismo non derivi solamente dal disperato atteggiamento del “Se non puoi batterli unisciti a loro”. Di fatto, ci si aspetta che il cognitivismo legittimi scientificamente la psicoanalisi.[5] Quest’ultima, vedendo che le neuroscienze forniscono una spiegazione chiara e veloce a meccanismi che la psicoanalisi ha spiegato con molta più fatica e con un linguaggio molto più complesso, pare stia cercando un posto in questa nuova forma di cultura dominante. Elevando Scienza e Tecnologia a divinità, infatti, si sta compiendo un processo di ri-significazione ideologica di usi, costumi, arte e persino teorie. In tal caso la psicoanalisi stessa viene tradotta in un linguaggio di parallasse che ne distorce l’essenza divenendo, in maniera subdola, un feticcio di cui anche la neuropolitica odierna può servirsi per diffondere la propria verità. Esse, infatti, non dicono più che la psicoanalisi è eretica, priva di senso e totalmente astratta come facevano un tempo, ma al contrario, ne esaltano la straordinaria predittività in un’epoca in cui le neuroscienze erano ancora tecnicamente grezze.

LE NEUROSCIENZE DEGLI AFFETTI: ANTONIO DAMASIO

Nonostante per Freud la sessualità fosse il motore di tutto il suo impianto, egli non diede mai una definizione esaustiva di essa. La sua concezione di sessualità oscilla tra una dimensione scientifica intesa come principio ordinatore (il Freud delle topiche) e una dimensione che eccede quest’ultima ritrovandosi ogni volta nell’inesorabilità del non-senso e nella necessità di stabilire un nuovo ordine. Questo nuovo ordine, oggi, ci viene esposto dalle neuroscienze degli affetti. La teoria di Damasio ha inizio da quello che secondo lui è l’Errore di Cartesio (1994). Questo errore, secondo il neurologo e saggista portoghese, consisteva nell’aver concepito l’essere umano diviso in due domini di funzionamento differenti. Il dominio del corpo non pensante dotato di estensione e parti meccaniche, e il dominio della mente o della “cosa pensante”.  Siccome non si può spiegare la res cogitans con gli stessi criteri con cui si spiegherebbe la res extensa nonostante, paradossalmente, facciano parte della stessa e unica sostanza, Cartesio ipotizza un punto di incontro tra le due realtà nella ghiandola pineale. Secondo Damasio, questo errore nel concepire l’essere umano scisso in mente e corpo, è alla radice di molti filoni di ricerca sviluppatisi successivamente. Come fare dunque a riportare emozioni, sentimenti e coscienza in un unico dominio? Damasio propone un modello filogeneticamente gerarchico sviluppatosi in virtù del raggiungimento, via via migliore, di un equilibrio omeostatico. Emozioni, sentimenti e coscienza in questa teoria divengono: “uno stato di emozione, che può essere innescato e realizzato non consciamente, uno stato del sentire, che può essere rappresentato non consciamente, e uno stato del sentire reso conscio, cioè noto all’organismo soggetto all’emozione e al sentimento.”[6] Le prime sono risposte chimiche e neurali che formano una configurazione volta a disporre l’individuo nelle migliori condizioni possibili rispetto al fenomeno. Il loro ruolo è assistere l’individuo nella conservazione della vita. Sono processi determinati biologicamente, dipendenti da dispositivi cerebrali predisposti in modo innato. Dall’influenza che esse hanno sul cervello, si genera lo stato del sentire o quelli che comunemente vengono chiamati sentimenti[7]. “Per sentire un’emozione è necessario ma non sufficiente che i segnali neurali provenienti dai visceri, dai muscoli e dalle articolazioni e dai nuclei neurotrasmettitori (tutti attivati durante il processo dell’emozione) raggiungano certi nuclei sub-corticali e la corteccia cerebrale.”[8] Infine, da emozioni e sentimenti si genera la coscienza, intesa dal neuroscienziato portoghese come conoscenza di qualcosa che è già avvenuto a livello corporeo. La coscienza a sua volta viene suddivisa in due: una coscienza nucleare, ossia una prima forma grezza di coscienza che realizza, all’incirca nello stesso istante, un’unica configurazione neurale che comprende l’oggetto, l’organismo e la relazione tra i due; e una coscienza estesa che scaturisce dalla costante e reiterata presentazione di alcuni dei nostri ricordi personali che possono facilmente dimostrare, istante per istante, la nostra identità e il nostro essere-persona. Il materialismo si direbbe compiuto, ma il nucleo omeostatico su cui si regge l’intera teoria è davvero qualcosa che esaurisce l’esistenza? La posizione anti-cartesiana pone Damasio a scontrarsi con la natura del soggetto. Se questa è inglobata nella sua natura biologica che agisce in virtù della regolazione omeostatica, come mai il soggetto emerge proprio quando questa omeostasi è disturbata? Freud chiamò il principio secondo cui il Reale perturba l’omeostasi pulsione di morte. È proprio questo che nella teoria di Damasio viene a mancare. Quando, infatti, egli deve giustificare l’esistenza della coscienza, i propositi di ricercare spiegazioni tecniche per il suo funzionamento perdono tutta la loro aura materialista, sfociando in una qualche forma di esistenzialismo. Damasio infatti dice: “Il dramma della condizione umana deriva dalla coscienza perché riguarda la conoscenza ottenuta grazie a un affare che nessuno di noi ha concluso: il costo di un’esistenza migliore è la perdita dell’innocenza nei confronti di quella stessa esistenza. Il sentire ciò che accade è la risposta a una domanda che non abbiamo mai posto ed è anche la moneta riscossa per un contratto faustiano che non avremmo mai potuto negoziare. L’ha fatto la natura per noi.”[9]

Mettendo in scena un sistema logico deterministico che richiama la più nota credenza degli ambienti medici secondo cui l’essere umano agirebbe esclusivamente in virtù della sua sopravvivenza, Damasio, così facendo, si schiera in una posizione conservativa. Nell’impianto freudiano, invece, attraverso l’ammissione della pulsione di morte, viene infranto tale dogma permettendo allo psicoanalista viennese di identificare fenomeni che agirebbero contro la conservazione stessa. Essa, infatti, si situa nella possibilità di eludere la conservazione in virtù di un martirio che rappresenta il minimo di libertà, di comportamento isolato dall’atteggiamento utilitarista-survivalista. Freud a riguardo dirà che “l’aver riconosciuto come tendenza dominante della vita, e forse della vita nervosa in genere, lo sforzo che si esprime nel principio di piacere, sforzo inteso a ridurre, a mantenere costante, a eliminare la tensione interna provocata dagli stimoli, è in effetti uno dei più forti motivi che inducono a credere nell’esistenza delle pulsioni di morte.”[10]  Tali pulsioni sono intrecciate con la vita stessa ma bisogna anche ammettere che sono quelle più difficili da riconoscere. “Ancora una volta, vita e morte si abbarbicano l’una all’altra e l’esistenza risulta uno slancio vitale che dentro di sé serba la morte.”[11] 

LA CULTURA TERAPEUTICA: UN NUOVO ORDINE

Abbiamo visto come a un esame più approfondito le due eminenti teorie si dimostrino essere verità parziali dinanzi al modello psicoanalitico, eppure entrambe sono promotrici di un dialogo con essa. Se con Mark Solms, il tentativo è quello di legittimare scientificamente la psicoanalisi, quello di Damasio è di riportare l’entusiasmo dalla parte delle scienze cognitive. Nella prima parte si è anche accennato a come il linguaggio terapeutico sia diventato il linguaggio dominante del XXI secolo. Le neuroscienze sono in prima linea nell’affrontare problemi come stress, ansia, depressione. Con la nascita dell’uomo neurale, questi problemi vengono facilmente oggettivati con i loro corrispondenti circuiti neurali. Si è trovato il correlato neurale della felicità, dell’empatia, del trauma, delle emozioni, dei sentimenti, ecc. La psicoterapia dal canto suo non può prescindere dalle scoperte neuroscientifiche poiché le diverse prospettive (cognitive, sistemico-relazionali, integrazioniste, ecc.) non concordano sulla natura di molti disturbi portando a percorsi terapeutici totalmente differenti, nonostante tutte risultino essere efficaci allo stesso modo. Ci si trova nella situazione paradossale in cui l’individuo è uno e le psicoterapie sono tante. Si pensi alla psicosomatica: come curare un malessere fisico senza che vi sia una causa apparente nel corpo? In una delle scene del film The Wolf of Wall Street, Jordan Belfort, agente di borsa di Brooklyn interpretato da Leonardo di Caprio, per testare la bravura di un venditore, chiede a costui di riuscire a vendergli la sua stessa penna. Il modo migliore per farlo, dirà Belfort, non è convincerlo che quella penna sia più bella o più speciale delle altre, ma fare in modo che ne abbia bisogno. Se la necessità è riconosciuta, non importa quanto sia fantastico il prodotto o il servizio, l’importante è individuare un bisogno urgente e soddisfarlo. È adottando questa strategia che le neuroscienze si impongono come scienze forti nel derivare la natura dei disturbi psicopatologici. Se nel caso di Belfort la necessità dei suoi clienti è fare soldi in maniera semplice e veloce, nel nostro caso la necessità (riconosciuta dalla maggior parte dei clinici, a prescindere dall’ orientamento) è quella di curare il malessere psichico nel modo più semplice e veloce possibile. Se tutti siamo dotati del circuito neurale dello stress, allora tutti siamo potenzialmente stressati. Diffusa la vulnerabilità (la necessità di guarire), la cultura terapeutica si è appropriata della salute così da poter venderla in modo semplice e veloce. A questo punto il lettore si chiederà il motivo per cui non bisogna credere nei progressi neuroscientifici. Perché a un certo punto i conti non tornano. Per quanto questi diano una spiegazione facile e veloce a problemi quotidiani, ci sarà sempre un resto dinanzi al quale il loro discorso si farà autoreferenziale e privo di quell’aura scientifica sicura e autorevole. Si pensi al discorso sulla coscienza. Vi è lo strano fenomeno secondo cui tutti dicono qualcosa di diverso sulla coscienza senza che nessuno ancora ne riesca ad afferrare l’essenza. Secondo Fichte, il soggetto (della coscienza) non è l’organismo la cui omeostasi precede ogni interferenza; il soggetto emerge proprio attraverso il disturbo dell’omeostasi. Ciò che disturba l’omeostasi, in sostanza, è la pulsione di morte.

Se le neuroscienze ammettessero l’esistenza della pulsione di morte, perderebbero tutto il loro potere persuasivo. Il problema dei sistemi sociali, infatti, è sempre stato quello di tenere in scacco tali pulsioni attraverso la gestione di quella che Freud battezzò con il nome di sessualità. Si pensi al progetto MKULTRA: a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 la CIA mise in atto questo progetto che aveva lo scopo di identificare droghe e procedure che mirassero a controllare la mente così da poter ricavare quante più informazioni possibili dai prigionieri di guerra o dalle spie nemiche. Nel 2002 gli scienziati della New York University inserirono un chip capace di ricevere segnali nel cervello di un topo così che questo potesse essere controllato per mezzo di un joystick cercando di capire che esperienza facesse di tale controllo. Da sempre, le innovazioni in campo scientifico e militare vengono poi assimilate in una sfera sociale più ampia, per cui il soggetto narcotico del progetto MKULTRA è l’antesignano del consumatore/lavoratore bombardato da farmaci, pillole per dormire e droghe pesanti. Che senso avrebbe, altrimenti, somministrare LSD e altri allucinogeni per controllare la mente, o impiantare degli elettrodi nel cervello di un topo per poterlo comandare dall’esterno? Insomma, nel nuovo regno della Salute, le neuroscienze hanno eretto un muro tra ciò che è materiale e oggettivo e ciò che è astratto, soggettivo e privo di senso. Scienza e tecnologia vengono elevate a divinità e, progetti come quelli menzionati sopra vengono legittimati in virtù del cieco progresso scientifico, alias adattamento-benessere-salute. Solo ciò che è materiale è degno di essere preso in considerazione e gli psicoanalisti, che, contro l’essenza stessa della psicoanalisi vogliono mantenere una qualche forma di potere istituzionale, sono disposti a tutto pur di rientrare nei ranghi di questa nuova cultura scientifica manifestando anch’essi la necessità di tale alleanza. Per concludere, se da un lato le scienze hardcore come le neuroscienze si stanno espandendo sempre più a macchia d’olio conquistando le più disparate culture del mondo e inglobando tutto ciò che di più diversificato può esistere, le scienze soft procedono con gli esperimenti sul controllo, non più in sordina come è avvenuto con l’MKULTRA, ma alla luce del sole, legittimati dalla nuova cultura terapeutica e con il benestare delle più prestigiose università del mondo.

 



[4] Ivi, p.27

[5] S. Zizek, La visione di parallasse, Il melangolo, Genova, 2013, p.264.

[6] A. Damasio, Emozione e coscienza, Adelphi, Milano, 1999, p.53.

[7] Insoddisfazione del termine sentimento poiché, secondo l’autore, nel senso comune viene spesso utilizzato come un sinonimo di emozione.

[8] A. Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano, 1994, p 210.

[9] A. Damasio, Emozione e coscienza, Adelphi, Milano, 1999.

[10] S. Freud, Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino, 1986, p.241.

[11] G. P. Cima, Eppur sublimo (Recensione a: “La morte dentro la vita. Riflessioni psicoanalitiche sulla pulsione muta” di R. Valdrè), in PSYCHIATRY online Italia, 2018.

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