Ricordi di settembre. L’importanza di saper scrivere e chiamarsi Ernesto.

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2 settembre, 2020 - 18:06

«... che cosa è l’arte  

se non  

l’assimilazione della realtà  

e la sua rappresentazione  

attraverso il filtro  

dell’immaginazione?» 

Ernesto Mellina. Fascino del Sud   

 

 

Questo settembre 2020, mi è particolarmente caro. Mese dannunziano per eccellenza, mese di transumanza dei pastori abruzzesi dagli stazzi verso il mare, mi compete per nascita, ma è anche quello dell’amico e collega di studi Antonino “Nino” Lo Cascio, maestro di “Psicologia del profondo” e allievo di Ernst Bernhard. Però è prima di tutto - e soprattutto - il mese di mio padre, Ernesto Mellina, scrittore scoperto e valorizzato da Ernesto Oliva - una firma televisiva d’inchiesta del Tg3 - poco più di un lustro appena. Dunque, colgo l’occasione per ricordarlo. Anche perché mi è capitata tra le carte che affiorano dagli “scatoloni”, una bellissima recensione di un altro Ernesto, Ernesto Oliva come dicevo, giornalista in video, scrittore, fotografo e critico d’arte.

1. Una originale e curiosa recensione, apparsa, il 9 febbraio 2013, sul suo blog «“ReportageSicilia” uno spazio aperto di pensieri sulla Sicilia, ma soprattutto una raccolta di immagini fotografiche del suo passato e del suo presente» con un razionale sacrosanto «Da millenni, l'Isola viene raccontata da viaggiatori, scrittori, saggisti e cronisti, all'inesauribile ricerca delle sue contrastanti anime» che si concludeva con un gioioso augurio al turista «All'impossibile fine di questo racconto, come ha scritto Guido Piovene, "si vorrebbe essere venuti quaggiù per vedere solo una delle più belle terre del mondo"». Come non andare subito con la mente - dopo codesti entusiasti propositi di Ernesto Oliva - al Goethe di Viaggio in Italia ... Conosci il paese dove fioriscono i limoni, / tra scure foglie le arance d’oro risplendono…? («Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn, Im dunkeln Laub die Goldorangen glühn ... »). Era un sabato, quel 9 febbraio 2013 e sul blog di Oliva dedicato a Ernesto Mellina, si srotolavano splendide immagini fotografiche, riquadrate e commentat e anche con citazioni del testo Fascino del Sud, ma tutte cucite tra loro dall’agile racconto del suo rinvenimento certamente casuale, ma non incomunicante ad uno sguardo attento. Oliva era stato quasi sicuramente attratto dalla copertina rutilante e fantasmagorica del pittore Nicola Coppola, autore, fra l’altro anche dell’impaginazione. Volendolo richiamare, il servizio di Ernesto Oliva, lo faremo riportando solo il testo scritto depurato delle immagini fotografiche che il lettore interessato potrà eventualmente cercare nel blog sopracitato.

Dal blog di Ernesto Oliva - sabato 9 febbraio 2013

Mellina e l'inettitudine siciliana

«Una fotografia di Ernesto Mellina, saggista palermitano autore del libro "Fascino del Sud", edito da Signorelli Editore Roma nel 1958. La figura letteraria di Mellina, allievo di Salvatore Riccobono - docente di Diritto Romano all'Università di Palermo dal 1898 al 1931 - e legato alla corrente interventista del primo conflitto mondiale - è semisconosciuta alla critica letteraria siciliana. In "Fascino del Sud", Mellina dedica alcune pagine alle più note località turistiche isolane e critica l'incapacità riformista ed imprenditoriale dei siciliani» 

«Fra tanti scrittori e saggisti siciliani che impegnano pagine fondamentali negli studi critici della letteratura italiana, ve ne sono alcuni completamente dimenticati o mai considerati dagli stessi critici. 

Uno di questi è il palermitano Ernesto Mellina, il cui nome è rimasto sconosciuto a ReportageSicilia fino a quando l’autore di questo blog non ha recuperato da una bancarella romana una copia di un saggio a suo nome intitolato “Fascino del Sud”, edito nel 1958 da Signorelli Editore Roma. 

Il libro – scriveva Mellina nella prefazione – “è una rassegna di escursioni storiche, estetiche, archeologiche e folcloristiche fatte turisteggiando per la Penisola”». 

«La copertina del saggio di Mellina, del quale ReportageSicilia ripropone alcune fotografie dedicate all'isola. Collaboratore di vari quotidiani nazionali e della "Sicilia del Popolo", pubblicò anche due saggi di carattere artistico letterario: "Dante nella pineta di Classe ed altri racconti" (1954) e "Vita di A. Canova" (1961)» 

(commento di Oliva alla copertina)   

«Il “Sud” cui si riferisce il titolo è appunto quello dell’intera Penisola italiana rispetto ad altre nazioni europee, perché le escursioni di cui ha scritto Mellina - oltre che Palermo, Caltanissetta, Taormina, Agrigento, Siracusa e l’Etna - riguardano anche luoghi come i castelli valdostani, Trento, Bassano del Grappa o Venezia. 

La narrazione di Mellina - frutto di un viaggio condotto da Nord e Sud d’Italia a bordo degli “elettrotreni” - non consente di ricavare notizie precise sull’autore». 

«Il porto di Palermo e monte Pellegrino in una delle fotografie siciliane pubblicate in "Fascino del Sud". Lo scatto - al pari degli altri riproposti da ReportageSicilia - risale agli inizi degli anni Cinquanta dello scorso secolo». 

(commento iconografico di Oliva)   

«Nella quarta di copertina, una scheda fornisce queste indicazioni generiche, che permettono di indicarlo come allievo di Salvatore Riccobono - docente di Diritto Romano all’Università di Palermo dal 1898 al 1931 - e come intellettuale schierato su posizioni interventiste: “Nato a Palermo, ha formato la propria personalità letteraria in un’epoca in cui una schiera di artisti siciliani, quali il Verga, il Capuana ed il Pirandello, apportava nuovo vigore e nuove idee alla cultura italiana.  

E’ questo il tempo in cui è allo zenith la poesia di Carducci, del Pascoli e del D’Annunzio, sul cui esempio egli affina la propria sensibilità artistica. Preso dal vortice della prima Guerra Mondiale, non si contenta di partecipare alla lotta, ma ardente come la sua terra, sente il bisogno di rincuorare le truppe in armi con discorsi e manifesti».  

(Segue una foto di Paestum, cosi commentata da Oliva) 

«La valle dei Templi».  

«Scrive Mellina che "c'è in essi un contenuto ieratico come se una sacerdotessa li alimentasse ad onta della consumazione dei secoli 

«Si rivelano, in tal periodo, le sue particolari doti oratorie e letterarie. Uscito dalla Scuola di Salvatore Riccobono, intraprende la carriera amministrativa senza tralasciare gli studi umanistici. Scrive nel “Gazzettino di Venezia”, nel “Resto del Carlino”, nel “Sicilia del Popolo” e collabora alla Rivista “L’Italia”. Critico letterario, si ferma volentieri a descrivere paesaggi con l’occhio della persona cui piace fermare le immagini in una prosa d’arte limpida e scorrevole”». 

(poi la foto del Chiostro dei Benedettini di Monreale affiancato al Duomo commentata da Oliva) 

«Nelle pagine di Ernesto Mellina dedicate a Monreale, emerge chiaramente l'influenza letteraria di Carducci e Pascoli: "Il chiostro estasia con la melodia delle 216 colonnine binate lavorate ad intarsio, e una fontanina da cui zampillano, da una colonna moresca a fusto di palma, getti d'acqua iridescenti nel cielo d'ametista... 

«Oltre a “Fascino del Sud”, Ernesto Mellina ha lasciato le sue tracce letterarie in almeno altri due saggi artistico-letterari: “Dante nella pineta di Classe ed altri incontri”, edito nel 1954 a Siena da Ausonia e “La scultura di A. Canova”, pubblicato nel 1961 ancora da Signorelli Editore Roma». 

(una foto rituale delle sue “spedizioni” di viaggi e scoperte alla de Martino, che Oliva commenta) 

«Personaggi di una processione dei "Misteri" a Caltanissetta» 

«In “Fascino del Sud”, i capitoli dedicati alle località della Sicilia si intitolano “Mandorli nella Valle dei Templi”, “I misteri di Caltanissetta - Il Giovedì Santo”, “Zagare nella Conca d’oro”, “La città di Aretusa”, “Taormina, bella Signora” ed “Appuntamento con le stelle sull’Etna”; a corredo di queste pagine, sono pubblicate alcune fotografie che ReportageSicilia ripropone nel post». 

«In navigazione sul corso del fiume Ciane. 

"I papiri! I papiri! fa il nostro Caronte,  

diventato improvvisamente loquace..."» 

«Nel capitolo introduttivo, intitolato “Verso la Sicilia”, Ernesto Mellina esprime alcune attualissime considerazioni sui siciliani, tanto più lucide perché pubblicate 12 anni dopo il riconoscimento all’isola di quello Statuto autonomo che avrebbe dovuto assicurarle sviluppo economico e sociale: 

I siciliani, che lamentano d’essere stati abbandonati nello sforzo di risorgere, non hanno nulla da rimproverarsi per tale abbandono? Possono affermare obiettivamente d’aver dimostrato, nella loro storia, di possedere quelle qualità d’iniziativa e di organizzazione necessarie a realizzare, alla stregua delle altre regioni, un programma costruttivo di lavori e di riforme sì da portare la loro isola su un piano di progresso uguale a quello delle altre regioni? I siciliani, pensosi sopra di ogni altra cosa di sé stessi, sono negati a tutelare un interesse collettivo e a far valere congruamente i diritti della loro regione. Assenti dalle pubbliche discussioni, sono alieni dal rischiare i capitali per le industrie più lucrose; diffidenti e tal volta presuntuosi nel ritenersi furbi, non fanno che attendere la manna dal cielo. Per altro anch’essi sono responsabili del mancato avanzamento di civiltà in Sicilia. Provvisti d’ingegno, poco valgono in casa loro, e soltanto riescono a farsi apprezzare quando vanno fuori dalla loro terra…”» 

(Pubblicato da Ernesto Oliva il 9 febbraio 2013 ore 14:52) 

 

2. Dunque, questo di Ernesto Oliva è stato un prezioso lavoro di ricerca letteraria tra le bancarelle romane di libri dimenticati. Da lì è partito - con la passione del bibliofilo e la perizia del filologo - per ricostruire e raccontare la biografia di Ernesto Mellina, appena un arco-baleno, come io figlio non era mai riuscito a vedere. Ha scoperto un suo libro Fascino del Sud. Una perla e l'ha lucidata, poi incastonata tra le opere dei più grandi Autori della Sicilia. Gli sono doppiamente grato non soltanto perché Ernesto Mellina è stato mio padre, ma perché mi ha permesso di ritrovare un testo che io stesso avevo smarrito. Fascino del Sud, è un libro che usciva credo nel 1958, quando io mi laureavo in Medicina e chirurgia all'Università di Roma e lui cessava il suo alto incarico di Presidente del Consiglio di Disciplina al Ministero delle Ferrovie dello Stato presso il Ministero dei Trasporti. Questa opera leggera e briosa, aveva ricevuto moltissime recensioni entusiaste da personaggi importanti come Raimondo Manzini (allora Direttore de l'Osservatore Romano), Pietro Jahier (Con me e con gli alpini), anch'egli direttore del Servizio Commerciale delle Ferrovie dello Stato presso il Compartimento di Bologna. Tutti lodavano di mio padre per il suo modo poetico di raccontare la prosa, di osservare la natura "Biferique rosaria pesti", le piccole cose, i dettagli, ma anche i grandi fatti sociali, come la grossa piaga del "Latifondo siciliano" e le grandi ingiustizie, per non dire altro, che ha prodotto. Mio padre - Ernesto Mellina - lo ricordo al Teatro Politeama (dodicenne con mia madre) in una infuocata conferenza sociale, subito dopo la seconda guerra mondiale, dove era stato chiamato per parlare della lotta agraria contro il latifondo. Faceva parte di un gruppo di giovani cattolici sturziani che si battevano per l'applicazione della "Dottrina sociale della Chiesa”. La sorella maggiore (dei Mellina), Rosalia, detta la "Zia Rosina" curava personalmente l'istruzione dei 4 fratelli maschi portandoli al "Giusino", quello che una volta era il “Collegio Massimo” dei Gesuiti di Palermo. Poi venne la "Grande Guerra" e come ufficiale di complemento (quelli che compirono un’opera sociale imponente, alfabetizzando la truppa analfabeta e incolpata di viltà da generali imbelli e crudeli) fu destinato a Valstagna, in Val di Brenta, poco sotto il confine austro-ungarico di Primolano, patria dei miei avi materni, ricchi boscaioli della “Serenissima”. Il Tenentin dae scarpe giae, di bell’aspetto, che sapeva parlare bene e scrivere meglio, veniva da Palermo, capitale (araba) di una delle due Sicilie,quella scelta dall’Imperatore Federico II, che preferì restarsene in Italia tra la Puglia e la Trinacria, alleandosi con gli arabi piuttosto che fare “Crociate” e tornare nel regno degli Hohenstaufen. D’altronde, lo stupor mundi, puer Apuliae, era un marchigiano di Jesi, dunque italico, figlio dell’italica normanna di Palermo Costanza d’Altavilla, politica di raro talento e di colto sapere. 

Ma torniamo a mio padre Ernesto. Conobbe mia madre giovanissima. Il regio esercito italiano le requisì la casa e lei, risolutamente, lo attese sbarrandogli la strada senza esitazione: «Lo sa signor tenente che lei dorme nella camera mia?». Fu un coup de foudre improvviso ed eterno. La scintilla dell’amore nel tempo dell’odio. Per Ernesto, divenne la sua "Giannina" Zannoni. Quasi immediatamente, però, arrivò Caporetto, la storica sconfitta nella dodicesima battaglia dell'Isonzo. Dovettero scappare. Il Sindaco di Valstagna, li venne a prendere in fretta e furia, alle 4 di notte di quel fatale 24 ottobre 1917, perché quelli di Cecco-Beppe (i crucchi) avevano sfondato e stavano precipitando su Vicenza. Tutti i civili di quello scorcio della Val Brenta tra Primolano, Cismon («El Brenta no sarìe el Brenta se 'l Cismon no 'l ghe dése na spénta») e San Marino, andarono profughi a Benevento ("chillo paese", diceva mia madre), perchè sapevano coltivare tabacco. La sua passione giovanile si riaccese ancor più, quando vi ritornò, a Sapri, nel 1928, col primo figlio Aldo, veneziano, e il marito Ernesto, Ispettore FS della “tratta Paola-Battipaglia” (165 km), per confortare le “teste calde” ferroviarie - capistazione, per lo più - colà confinate dal fascismo, per punizione. 

  

3. A questo punto, ritengo che la cosa migliore, per festeggiare settembre, i nati in questo mese, quelli che si chiamano Ernesto, gli amanti del golfo di Sapri, del Cilento, dell’archeologia, dei ruderi mediterranei dei Greci e dei Latini, per gli appassionati della poesia in prosa e del Mezzogiorno d’Italia, sia quella di regalare ai lettori di Pol. It. una delle 35 perle di questo Fascino del Sud di Ernesto Mellina, trascrivendo per intero il racconto fantasioso di Pesto, luogo incantato. 

 

 

L’incantesimo di Paestum (pp. 55-60) 

 

di  Ernesto Mellina 

 

"Biferique rosaria pesti". 

Virgilio 

 

Sorgono i Templi a Pesto, quando è primavera, da una marea ondeggiante di erbe, tra fiotti di margheritine maculati da rutilanti fiamme di papaveri, innanzi alle giogaie del Cilento, prossimi al mare che sembra un prato di pure viole. Sorgono accostati, il tempio di Nettuno e la Basilica, solingo quello di Cerere. Fissati nella loro immobilità millenaria, essi s’intitolano al verdazzurro dio del tridente e alle dee protettrici delle messi e del fuoco sacro. 

Fratello minore del Partenone, il Nettuno è veramente un capolavoro di tempio dell’ordina dorico. Costruito pazientemente da mani sicure, esso rivela la venustà dell’architettura ellenica, coeva di Pèricle misurata, proporzionata, armoniosa. Possente ma senza peso, slanciato eppure statico, scolpisce nell’aria il suo costrutto, modello insuperabile d’equilibrio. Più aggraziato, per euritmia di linee e di forme, è il tempio di Cerere, dirupato alquanto e melanconioso, mentre la Basilica, di stile arcaico, scolorita e consumata, pare abbia se stessa in gran dispetto. Hanno tutti per tetto il cielo, l’immensa calotta del cielo, tinta di cobalto. 

Le intemperie e gli uomini hanno devastato le navate e i muri che rinchiudevano le celle e le are su cui immolavansi, con riti ieratici, le vittime sacrificali. Il sole cocente e la mordente salsedine, hanno graffito lentamente la pietra a ricamo, imbiondendola con la vernice del tempo. Geni propizi alla contemplazione, vi regnano la solitudine e il silenzio; un silenzio vasto, che tiene l’aria con la levità di una carezza, e induce alla più sorprendente aspettazione. 

Stregati da quella bellezza che sembra rifiorire ogni giorno spontanea dalla terra, si cammina attoniti negli spazi solari dell’intercolunni, come pervasi dalla religiosa poesia dei templi, mentre un senso di grecità alto e solenne invoglia alla cetra e al canto. 

Quasi per una strana trasmigrazione nei secoli, riappaiono i fantasmi della città che fu. Sono fantasmi leggiadri, fatati, un po’ nostalgici per le nostre generazioni superstiti. Se non proprio la vita, essi risvegliano le rimembranze del mondo greco, da cui quello di Pesto nacque, e che il tempo ha reso adorabili. Rimembranze di miti e di fatidiche strofe, di marmi bianchi e di architetture splendide, di agili forme e d’eterne trascendenze, onde nacque un’arte intrisa di luce, come i cieli dell’Ellade sotto i cui auspici assurse all’immortalità: un’arte apollinea di grazia e di gioia, di equilibrio e di armonia, di profumi e di sorrisi, e tuttavia innervata nell’«humus» come la radici degli olivi contorti e degli aranci olezzanti delle prode mediterranee. Senonché la bella persona, già adorna di ori e di porpora, vibrante di grazia e di fascino, un giorno sentì il peso della vetustà, il torpore e l’anchilosi. I vaghi miti si sono involati; e involati si sono il pulsante moto, le gaie musiche e le sue vermiglie rose ... 

Nel corso d’infinite stagioni, la brughiera invase la pianura circostante, tuttavia selvaggia verso Ogliastra  dove un tempo regnava la malaria ed ancora scorrazzano i bufali dalle corna storte e dal mantello nero. Le vampe del sole e il salso del mare, lo scirocco languido e la tramontana dell’Appennino - che già avevano stimolato una vita di dovizie di grandezza - convertitisi col tempo in altrettante forze dissolvitrici, demolirono case e ville, sepolcri e templi, con furia ostinata. Non più cocchi dorati nelle vie, trofei sulle porte, fasti e roghi di luci per la città, ma l’abbandono: non più tinnule voci nei peristili, ma il silenzio. Dopo gli scalpori dionisiaci e l’anfanare di fiorenti commerci, Pesto s’addormentò sulla sua pietra, all’ombra della sua gloria. Così l’oblio cancellò il ricordo di lai dalla memoria degli uomini, e l’inselvatichimento la rese straniera alla vita. 

Pesto, dove son le rose, le tue rose vermiglie? Quelle che inghirlandavano le chiome delle fanciulle leggiadre dalle fluenti tuniche, e le quadrighe dalle fervide ruote; quelle che, rampicanti sui muri, infioravano le case festose e le ville patrizie, e i limpidi acquari delle corti inondate di sole? Dove son le rose, le tue rose vermiglie, care a Ovidio e Virgilio? Il tempo le ha sfiorite, il tempo le ha avvizzite. Ora le ville son dirute, le are infrante, i focolari spenti, e nei giardini abbandonati son sparite le rose ... 

Nell’antica strada deserta, i bàsoli convessi e sconnessi fanno veder l’erba spuntare a ciuffi dagl’interstizi, mentre nei solchi delle carreggiate da secoli tace il cigolio dei carri non più solleciti nell’operosa fatica. Dorme la Necropoli senza aromi e unguenti e senza doni votivi chè tramontata è nel crepuscolo di lontani tempi la pietà per quei sepolcri. Nel vespero gravoso, le cornacchie raspano quelle rovine e, gracchiando, dileguano con obliqui voli verso altri ruderi. Muto e squallido sta l’Anfiteatro che vide spettacoli e ludi ginnici dianzi alla calca rumoreggiante del popolo in tùnica e clàmide. A somiglianza dei Santuari di Olimpia e di Delfo celebrati nell’Ellade, tra il Calore e il Sele mormoranti, il Santuario di Giunone Argiva svela, nella zona sacra, le sue vestigia affioranti dagli scavi, tra le quali sono frammisti leggiadramente triglifi e mètope. Le vecchie mura sbrecciate, dove gialleggia fulgente la ginestra, le vecchie mura, sormontate da avanzi di torri con a monte porta sirena e ad occidente l’ormai inesistente Porta Marina accolgono e custodiscono melanconicamente quelle reliquie. Come i templi di Nettuno e di Cerere esse appaiono redimite e cangianti di tanti colori di quanti le veste ogni ora la luce: roscide di brina e iridescenti ai primi sprazzi dell’aurora; ramate a mezzodì, quando la cicala frinisce sul pino marino, pazza di sole; fiammeggianti in parte, nell’incendio del tramonto, come la carne sanguigna delle antiche rose, mentre dal lato opposto, a oriente, si proiettano a terra, lunghe e violacee, simili a spettri, le ombre del periptero e delle trabeazioni. 

Nelle notti serene, vi piove su l’argento delle stelle ... 

 

4. Dunque, un Territorio magico, il Sud, per mia madre valsuganotta, apertissima agli incontri con le alterità culturali che la storia e il destino le avrebbe proposto. Nata all’inizio del secolo scorso, quello breve, era già predisposta alla modernità come molte altre donne del suo tempo. Si curò bene, unitamente a mio padre, dal praticare il detto miope e tremebondo mogli e buoi dei paesi tuoi.  Sempre mi raccontava di queste contrade dove mi diceva di aver visto enormi distese di ogni sorta di bendidio di verdure, pomodori, frutti e vitigni, come ... nemmeno in paradiso ... Io che sono nato a Bologna e vivo a Roma da “nonno storico”, con 5 figli e 8 nipoti, mi sento di essere un po' il frutto (ormai vizzito e allappante, che lega la lingua e il palato) dell'Unità d'Italia (coi miei 2 fratelli) e di aver fatto il possibile e il necessario per continuarla! Grazie mille Ernesto Oliva, giornalista radiofonico, talent scout letterario e scrittore vulcanico. 

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