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di Sabino Nanni

Che fare quando le terapie antidepressive si rivelano inefficaci? Come rispondere alla richiesta di suicidio assistito?

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7 ottobre, 2022 - 11:21
di Sabino Nanni
     I cosiddetti “non responders”, ossia i pazienti (spesso depressi) per i quali ripetuti trattamenti psichiatrici si rivelano inefficaci, sono persone condannate ad essere abbandonate a sé stesse da parte dei curanti, e spesso anche da familiari ed amici. Ciò è molto grave e preoccupante, soprattutto in vista dell’approvazione di leggi che autorizzino l’eutanasia ed il suicidio assistito: i gravi depressi “non responders” possono avere i requisiti per l’applicazione di tali norme (in Danimarca, se non ricordo male, fu autorizzato qualche anno fa il suicidio assistito di una ventenne, affetta da grave depressione, che non rispondeva alle cure).
        La definizione di “non responder” pare alludere ad una qualità che appartiene esclusivamente al paziente. Siamo sicuri che sia così? Come possiamo affermare con certezza che la mancata risposta ai trattamenti non dipenda anche da un’inadeguatezza dei terapeuti o dell’organizzazione delle cure?
      In un essere umano vivente e vigile, ogni comportamento, attivo o passivo, ha un suo significato. Se si parte dal presupposto che l’efficacia o l’inefficacia delle cure sia un fenomeno psico-fisico, e non solo somatico, si prospetta l’ipotesi che la non risposta (anche ai trattamenti farmacologici) abbia un suo significato nella vita soggettiva del paziente. Se si comprende empaticamente tale significato, è possibile trovare le parole per comunicarlo al malato; e, se l’esperienza del capire e dell’essere capito è intensamente vissuta (sia da parte del paziente, sia dal curante) e protratta, è possibile che tali parole risultino convincenti ed aiutino il malato a capire ed a padroneggiare di più sé stesso.
        Un esempio è quello descritto da Thomas Ogden in un articolo di qualche anno fa: una donna che, per lunghi anni, non presentava il benché minimo segno di miglioramento, nonostante tutti gli sforzi del terapeuta. Gradualmente fu chiaro che la paziente aveva bisogno di vivere pienamente, come esperienza attuale, una situazione, appartenente al suo remoto passato, ma che, essendo intollerabile, allora non aveva potuto essere registrata come vera e propria esperienza. Si trattava di una situazione di completa deprivazione affettiva (la madre gravemente depressa, il padre che aveva abbandonato la famiglia) in cui la bambina si era sentita come invisibile agli occhi dei genitori e perciò come “inesistente”, “morta”, e quindi refrattaria ad ogni sollecitazione esterna. Solo dopo aver vissuto nel rapporto transferale tale esperienza, la donna, con l’aiuto dell’analista, poté comprenderla appieno ed “archiviarla” nel passato.
        Ogden avrebbe potuto definire la paziente come “non responder” e porre fine ai suoi sforzi terapeutici. Fu aiutato a non farlo dalle disponibilità di tempo e di denaro della donna (fu necessaria un’analisi protratta per parecchi anni, ad un ritmo di 4 sedute settimanali), oltre che dalla tenacia di costei, che proseguì a lungo la cura, nonostante l’assenza di risultati. Sono condizioni, queste, difficilmente riproducibili in tutti i casi. Penso, tuttavia, che decisiva fu la convinzione di Ogden che anche l’apparente inerzia della paziente doveva avere un suo significato; il suo essersi astenuto dal pronunciare una sentenza definitiva, terribile alle orecchie dei pazienti: “non è possibile curarti”; una sentenza che, di per sé, può far precipitare la loro situazione.       
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