PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
14-15 GIUGNO: funerali in Duomo, ecatombe nel mare
18 giugno, 2023 - 09:01
Due eventi di questa tormentata settimana che oggi finisce hanno avuto, credo, soprattutto rilievo: la morte del leader e inventore della nuova destra italiana con le cerimonie che vi hanno fatto seguito e, solo tre giorni dopo, quella di circa 600 migranti anonimi diretti in Italia, al largo della costa greca.
Un altro naufragio
Un evento, questo secondo, che dovrebbe finalmente preludere a un momento internazionale di lutto e consapevolezza, e con esso a un radicale cambiamento della politica mondiale in fatto di diseguaglianze, di migrazioni, di confini, di guerre di confine. Ma so che invece sarà inghiottito dall’acqua, come tanti altri uguali. Comincio da questo, e sarò breve, perché c’è davvero poco di nuovo rispetto alla strage di Lampedusa del 2013, rispetto alla recente strage di Cutro: un decennio e più nel corso del quale lo sforzo di migliaia di africani e mediorientali di sfuggire a miseria, guerra e altri flagelli si è infranto sugli ultimi scogli delle inospitali coste d’Europa, costando la vita a bambini, donne, uomini a migliaia e migliaia.
Su tutto questo, questa nostra modesta rubrica è già stata costretta a levare, per quel poco che conta, in molte occasioni il suo lamento (segui il link, segui il link, segui il link, segui il link, segui il link, segui il link, segui il link), come anche nel trarre il bilancio di ogni fine d’anno dal 2015 a al 2022. Non c’è niente da aggiungere: l’ingiustizia che governa il mondo uccide chi vi sottostà, come pure chi tenta disperatamente di sottrarvisi con la fuga. Le politiche migratorie con le quali l’Occidente vuole tenere lontane dalla sua ricchezza, frutto in gran parte delle rapine coloniali di ieri e del loro perpetuarsi di oggi, le popolazioni del resto del mondo, uccidono. E questa del 15 giugno non ne è che l’ennesima dimostrazione.
Funerali di Stato, Lutto Nazionale e Lutto Mezzo-Nazionale
È un evento che si presta invece a più originali considerazioni la morte di Silvio Berlusconi, con le determinazioni e le discussioni che vi hanno fatto seguito. Ad esso vorrei dedicare due considerazioni di ordine più generale, e altre per le quali trarrò spunto dal testo dell’omelia dell’arcivescovo, durante i Funerali di Stato a Milano.
Una prima considerazione, di ordine generale, che mi viene alla mente riguarda il Funerale di Stato, in sé stesso, che è una cerimonia alla quale, in generale, non mi piacerebbe mai assistere. Il funerale, come evento che celebra il passaggio di una persona dalla vita alla morte, dovrebbe essere sempre, io credo, un fatto intimo, perché la morte di una persona riguarda solo la stretta sfera intima di coloro che l’hanno amata. Lo Stato, la sfera politica, con questo non c’entra più, e dovrebbe rispettosamante tenersene fuori. Poi, certo, la politica può celebrare, trarre bilanci, tenere convegni: ma la partecipazione del corpo morto dell’estinto a questi momenti, la sua appropriazione da parte della sfera politica, pubblica, storica, mi disturba, perché la avverto barbara, arcaica, in fondo dissacrante e blasfema, qualcosa non distante, nella mia percezione, da un rito antropofagico. Altra cosa insomma credo che sia il funerale, religioso o laico che sia, al quale spettano i resti di quello che è stato un corpo vivo da restituire in una forma o nell’altra alla terra; e altra cosa la memoria di quella che è stata una persona di fronte allo Stato, le bandiere, i confini appunto, la politica, la storia, con i loro inevitabili giudizi, le loro discussioni, le loro celebrazioni e le loro esecrazioni.
Una seconda considerazione di ordine generale che questo evento mi suggerisce riguarda la pretesa che un lutto possa essere nazionale, cioè l’idea di un dolore per la morte di una persona che riguardi tutta intera una nazione. Una nazione, a meno che non se ne abbia una concezione totalitaria, è costituita da un insieme di individui legati da un patto politico che trae origine dalla nascita comune o dalla residenza in uno stesso teritorio, o da altri vincoli che a questi possono essere per scelta politica assimilati. Individui che possono avere, e realisticamente hanno sempre, sentimenti e idee tra loro diversi. Un lutto che possa essere alla lettera nazionale, perciò non può esistere, io credo. A non essere pignoli, si potrà parlare di lutto nazionale certo quando il dolore per la morte di una persona coinvolge la stragrande maggioranza degli individui che compongono la nazione, che a quella persona si sentono legati da uno stesso sentimento e su di essa danno all’incirca lo stesso giudizio. Ma quando questa condizione, che certo in alcuni casi può essere presente, non lo è, parlare di lutto nazionale costituisce una bugia, oltre che un’imposizione per quella parte che in lutto non si sente e non è utile a nessuno: non lo è all’estinto, al quale è attribuita l’unanimità di un sentimento che nella realtà tale non è, e che è così anche inutilmente esposto ad attacchi da parte di chi intende con essi dimostrarlo; e non lo è alla collettività, che avvertirà nell’imposizione di tale sentimento una prepotenza e finirà perciò per essere ancora più divisa e offesa di quanto non fosse. Più onesto sarebbe,in questi casi, e più pacifico per tutti, evitare forzature e riconoscere il fatto che un lutto può essere “mezzo-nazionale”: una grande parte della nazione è in lutto per la perdita di qualcuno che amava e stimava; e un’altra grande parte, all’incirca equivalente, non va oltre il lutto che si prova per la morte di qualsiasi persona, ma rimane in silenzio per rispetto del lutto “mezzo-nazionale” che l’altra parte sta provando. Il lutto, del resto, è un sentimento, anarchico e spontaneo come tutti i sentimenti, che come tutti i sentimenti il potere non può imporre.
Cinque chiose a margine di un’omelia in Duomo
Poste queste due considerazioni, mi è capitato di ascoltare con curiosità e attenzione l’omelia che, nel corso dei Funerali di Stato tributati a Silvio Berlusconi, è stata pronunciata dall’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini. Premetto che comprendo bene quanto certo non fosse facile la sua situazione: dover celebrare un funerale religioso, quindi una cerimonia i cui protagonisti erano un uomo, la morte, e Dio; e insieme dover celebrare una cerimonia di Stato, quindi dare luogo a un fatto storico e politico, la cui lettura politica sarebbe stata per questo inevitabile.
È risaputo del resto da un lato che a un funerale - sia esso o no di Stato - chi vi partecipa si aspetta che della vita dell’estinto il sacerdote consideri sempre solo la parte mezza piena del bicchiere. Ma è altrettanto risaputo che l’estinto è stato in questo caso personaggio discusso forse più di ogni altro in Italia (altro che lutto nazionale, perciò!), e molto anche nel mondo. Qualunque cosa perciò l’arcivescovo, il quale forse avrebbe fatto volentieri a meno di tale onore e onere, avesse detto, poteva prevedere che a qualcuno avrebbe dato a ridire, a destra come a sinistra.
Personalmente, dico invece che, considerata la situazione, non mi pare che l’illustre prelato se la sia cavata male, riuscendo ad alternare considerazioni sulla persona mortale ad altre sul personaggio, che noi cercheremo di disarticolare le une dalle altre, e mi pare che il testo dell’omelia offra -considerata la scelta di partenza di lasciare ogni giudizio all’al di là - spunti, ad ascoltarlo come testo, per considerazioni di ordine antropologico e politico su ciò che il personaggio dell’estinto ha rappresentato nella recente storia italiana.
Nel corso dell’omelia sono riprese, tra uno e l’altro passaggio, com’era necessario le tematiche caratteristiche di un funerale. Così, tra tanti passaggi relativi al “personaggio”, ne troviamo altri, pietosi, affettuosi e senz’altro condivisibili per chiunque, che riguardano la persona: il “sentirsi smarrito” suo come di ogni uomo di fronte alla precarietà della vita, al rischio dell’improvviso esaurirsi della gioia e tramutarsi in dolore, all’incombere dell’inevitabile invecchiamento del corpo e all’annunciarsi altrettanto inevitabile della morte. L’angoscia di fronte alla morte che Berlusconi aveva incontrato quando si era trattato di fatti privati, come la perdita di sua madre; o pubblici, come la violenza del linciaggio cui era andato incontro quello che probabilmente aveva sinceramente considerato un amico, Gheddafi, precipitato in poco più di un mese, senza che lui nonostante fosse al governo di una nazione dell’Occidente potesse fare niente, dal potere assoluto alla polvere del deserto.
All’allusione ai momenti di angoscia dei quali anche l’estinto deve avere fatto esperienza come ogni persona, il prelato contrappone dalle prime parole e anche con il ritmo che loro imprime, quelli che considera i suoi tratti umani salienti: l’innegabile vitalismo, edonismo e attivismo, la sua resilienza, la capacità di reagire nelle difficoltà. Sono tratti che credo che unanimemente possano essere considerati nell’estinto eccezionali, comunque si giudichi il suo operato; e che, nel bene e nel male, ne fanno un personaggio che avrà un posto nella storia italiana. La sua, per qualcuno ammirevole e per altri fastidiosissima, instancabile capacità di combattere, di stare in campo, la sua capacità di stare nel conflitto che spesso ha finito per piegare, per stanchezza o per la spiazzante disinvoltura, gli avversari. La tempra di lottatore nel mercato, nella politica, nell’agone giudiziario come nella vita personale, con l’ostinata negazione, per qualcuno ammirevole e per qualcun altro patetica, dell’invecchiamento del corpo. “Un desiderio di gioia, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento”, insomma, riprende più volte il prelato quasi a punteggiare il suo procedere ricordando che non spetta ormai a questo mondo, e ci si deve aspettare da lui in quel momento, il giudizio sulla persona; e con queste parole infatti conclude.
Oltre a queste parole, relative al carattere umano e religioso del funerale e quindi alla persona, monsignor Delpini non si sottrae (avrebbe potuto scegliere di farlo, ovviamente), alla responsabilità di evocare anche caratteristiche più divisive attinenti al “personaggio” pubblico, visto che di Funerali di Stato si tratta, e di esse approfitterò qui per trarre spunti, per considerazioni ovviamente del tutto mie, e non sue, trattando questa parte dell’omelia come un testo laico che, come ogni testo pubblico, ciascuno può considerarsi libero di chiosare e commentare.
Già nei primi passaggi, c’è uno spunto che considero fondamentale per l’analisi antropologica e politica di ciò che il personaggio dell’estinto ha rappresentato per l’Italia: “vivere, e desiderare che la vita sia buona, bella, per sé e per le persone care”.
Dapprima è una frase che appare banale: è un desiderio comprensibile, chi non lo desidera?
Però davvero pensiamo che un prelato illustre e colto, mi viene subito in mente, come monsignor Delpini non si sia reso conto che, pronunciate da un cristiano, queste parole contengono anche una critica implicita? Ma come, sé e le persone care? E gli altri?
Gli altri come quei 600 morti di naufragio che, proprio nei momenti stessi del funerale, erano costretti a un viaggio così pieno di incognite e di pericoli verso i nostri lidi, ad esempio?
E, oltre gli “altri” in senso generico, ché dire degli avversari, i critici, i nemici?
Davvero pensiamo che il prelato, nel pronunciare quelle parole, non si rendesse conto di enunciare una virtù dell’estinto, ma evidenziarne insieme il limite?
Che avesse dimenticato che l’eccezionalità, la radicale novità, del messaggio cristiano sta proprio nell’estendere l’amore e il sentimento di responsabilità oltre la cerchia dei “cari”, e, almeno, nella prudenza, la misura, il rispetto (non si pretende l’amore…) nel contrastare il nemico?
“Desiderare che la vita sia buona, bella, per sé e per le persone care”, insomma. Punto.
Poi, il prelato riprende a insistere sul vitalismo dell’estinto, ma questa rimane una frase pesante, sulla quale credo importante fermarci. L’essenza del “berlusconismo” come rivoluzione antropologica, quello che dopo la morte di Berlusconi ci rimane come eredità con la quale dover continuare a fare i conti, il Silvio non più solo “in sé” ma ora anche “in noi” che è quello del quale in una canzone Giampiero Alloisio confessa di avere più paura, sta tutta in questa frase, all’apparenza elogiativa o almeno neutrale: l’avere reso dicibile nel discorso pubblico, e quindi implicitamente legittimo, l’egoismo, al più allargato alla cerchia dei “cari”, che in un’Italia che prima era forse più ipocrita almeno era vissuto con vergogna, e perciò non poteva essere additato come modello etico e politico. Questa è stata la principale novità che ha trasferito l’egemonia culturale di questo paese dal catto-comunismo al berlusconismo, io credo. Il vero cambio di pagina.
Il desiderio di amare dell’estinto, prosegue a enunciare poi il prelato entrando in un terreno scivoloso con le difficoltà, le complessità e le contraddizioni che questo sentimento certo ha per tutti, un desiderio di amore che per ciascuno appartiene a una sfera intima, personale sulla quale, comprensibilemente, non ritiene di avere elementi per approfondire, e noi con lui.
Ma insieme il desiderio, invece questo sì più pubblico, evidente – preponderante aggiungerei – di sentirsi amato, applaudito, a volte anche adulato in un modo che poteva persino esteticamente disturbare. I suoi cari, insomma, erano insieme coloro ai quali era lui, ad essere caro. Lui e loro, la sua parte, come se il mondo finisse lì.
“Per sé e per le persone care”, dunque. Un secondo spunto lo colgo nell’edonismo come cifra fondamentale che il prelato attribuisce al personaggio: “essere contento, amare le feste”. Il che è in sé buona cosa, certo, tutti le ameremmo; forse anche quei 600 annegati, le avrebbero amate. Un essere contento che, aggiunge però, è anche un esserlo “senza troppi pensieri e senza troppe inquietudini”: e qui andiamo oltre, andiamo al tentativo, solo in parte riuscito spero, di sbaragliare la pudica, tormentata e dignitosa patina di tristezza catto-comunista che tanto ha dato alla cultura italiana post-resistenziale, per fare posto a un’Italia sempre in festa, la sua, quella offerta dall’intrattenimento delle sue telvisioni. Già, perché non c’è certo niente di male a voler essere contento (e chi non lo vorrebbe!), ma quei “pensieri” e “inquietudini” che, a detta del prelato, l’estinto rifiutava come ombre sulla possibilità di esserlo in modo pieno, totale, sono, guarda caso, proprio ciò che per l’altra metà dell’Italia, che anche per questo non poteva riconoscersi nel lutto nazionale, rende complessa, e quindi interessante, autentica la vita. Sono ciò cui l’altra metà dell’Italia non è disposta per nulla a rinunciare. È stato questo, in fondo, sul terreno antropologico il campo più violento di scontro tra due Italie, quella di coloro ai quali era “caro” appunto l’estinto e che erano a lui “cari”, e quella di coloro ai quali era invece insopportabile.
Un terzo spunto mi pare che sia ancora più rivelatore del personaggio rispetto ai due precedenti, quando il prelato dice: “essere contento di sé, e stupirsi che gli altri non siano contenti”. È quello in cui, temo, da psichiatra non riesco a sforzarmi di non ravvisare il nucleo del narcisismo. Non certo di una malattia, beninteso: di una caratteristica. Non si tratta qui solo di voler essere contento, il che è aspirazione legittima, purché appunto non sia a prezzo di rinunciare alle inquietudini che fanno autentica la vita; ma di non riuscire, in quell’essere contento, a considerare il fatto che gli altri possano non esserlo. Negarlo, non porsi il problema. E che possano non esserlo, in particolare, di noi, di ciò che siamo per loro, criticarci forse con qualche ragione e a volte sentirsi, con qualche fondamento chissà, scontenti del fatto che proprio il prezzo della nostra contentezza sia la loro infelicità. Che gli altri possano essere scontenti proprio del modo nel quale noi costruiamo, non considerando loro, il nostro essere contenti. Che di fronte al nostro occupare in una situazione pre-regolatoria, pre-legale un bene di tutti, le frequenze televisive ad esempio, qualcuno possa ammirarci per astuzia, abilità, ma qualcun altro possa sentirsi defraudato di quello che considera un bene pubblico, e quindi anche suo. “Essere contenti degli applausi della gente, degli elogi dei sostenitori (magari spesso generosamente ricompensati, temo di poter aggiungere)”, proseguono ancora le parole del prelato, e non saperci quindi, aggiungo, preoccupare dei fischi, delle critiche. Rigettarli anzi come incomprensibili atti di invidia e di cattiveria, da schiacciare senza sapere cogliere e problematizzare il nucleo di verità che potrebbero anche contenere, e che potrebbe aiutarci a metterci in discussione rendendoci eticamente migliori. Un atteggiamento come questo velatamente evocato nell’omelia, è già un problema da parte dell’uomo qualsiasi, nella sfera famigliare, nei piccoli contesti ai quali partecipa. È un problema per gli altri. Ma per un imprenditore e un uomo politico potente, non essere capace di considerare, dare dignità alla scontentezza degli altri, non sopportare critiche, obiezioni, appare il nucleo di ogni fenomeno autoritario, di ogni atteggiamento dispotico, quando questi sono portati avanti in buona fede, cedendo all’autoinganno di considerare soltanto le proprie ragioni senza poter vedere quelle degli altri.
A queste tre prime caratterizzazioni ne seguono altre due, che sembrano voler riportare al suo ruolo d’imprenditore e di politico altre delle sue caratteristiche: “essere uomo d’affari”, che lotta tra “clienti e concorrenti, momenti di successo e d’insuccesso, che si arrischia in imprese spericolate”. Un uomo d’affari che in quanto tale, dunque, soprattutto, “deve fare affari”, l’arcivecovo ne è così convinto che lo ripete due volte. A dire il vero, non mi pare che la dottrina economica della Chiesa dica proprio questo, quando parla di responsabilità sociale dell’impresa; non che io me ne fidi molto, ma mi colpisce come un alto prelato sembri, per mantenere l’impegno di evitare un giudizio terreno sull’estinto, fidarsene anche meno di me. Non solo. Un uomo d’affari, aggiunge, che “guarda i numeri, forse si dimentica dei criteri”. È un passaggio coraggioso, questo, perché immagino che con “criteri” l’arcivescovo si riferisca proprio alle leggi, alle norme che regolano la vita economica e politica di una nazione, alle odiate tasse che regolano la solidarietà dei ricchi verso i poveri al suo interno, perché tutti possano essere, un po’ almeno, contenti. “Dimenticare i criteri”: non so se siano stati contenti di essere accumunati in questa generalizzazione all’estinto i suoi colleghi-concorrenti imprenditori, presenti in Duomo numerosi, che a quei “criteri” si sono sentiti - prima perché meno protetti di lui dalla politica e poi per non essere divenuti come lui essi stessi la politica - più costretti di lui a badare di non “dimenticarsi”. Non tutti gli imprenditori, potrebbero obiettare, dimenticano i criteri, o almeno non tutti lo fanno nella stessa misura.
L’arcivescovo passa quindi, offrendo un quinto spunto, all’essere stato il personaggio anche un “uomo politico”, quindi uomo di parte che “ha sostenitori e oppositori, c’è chi lo esalta e chi non può sopportarlo”. A cui si aggiunge il suo essere appunto un “personaggio” che in quanto tale “è sempre in scena, ha ammiratori e detrattori. Ha chi lo applauda e chi lo detesta”. Certo, l’arcivescovo ha ragione in qualche misura anche in questa generalizzazione, queste caratteristiche fanno parte dell’essere uomo pubblico. Ma anche la maggior parte dei politici, come quella degli imprenditori, credo che avrebbe diritto di protestare: non tutti i politici non si fanno crupooli a essere divisivi nella stessa misura. Si può essere di parte senza spaccare la collettività, occupare tutta la scena con il proprio personaggio e i propri interessi, imporre la propria corporeità. Nessun politico, tra quelli che lo hanno preceduto o gli si sono opposti degli oltre settant’anni dell’Italia repubblicana e democratica, complice anche l’impero mediatico direttamente o indirettamente controllato, in questo lo ha eguagliato. Questo, e non il solo fatto di essere uomo politico, lo ha esposto ad avere adulatori e odiatori più di ogni altro. A essere avvertito come più ingombrante e più radicalmente divisivo. Opporre radicalmente la destra alla sinistra. I lavoratori autonomi ai dipendenti. Qualcuno ricorderà la triste fine che fece persino un uomo di destra, come Montanelli, reo solo di concepire lo scontro politico più civile, meno urlato, del suo editore e padrone. O ricorderà quando una sua vittoria elettorale è stata accompagnata dalla frase inquietante: “non faremo prigionieri”. La democrazia, che è basata sull’alternanza, sulla mediazione, su ”criteri” che devono essere considerati intangibili al variare del consenso, mi pare incompatibile con affermazioni come questa.
Questo carattere, non divisivo come quello di ogni politico, ma particolarmente divisivo, del personaggio avrebbe dovuto indurre alla sua morte i “suoi” a esserne consapevoli ed evitare la forzatura di imporre il lutto pubblico all’altra metà della nazione. Si è trattato di un atto di cecità, credo, dettato dalla sincera disperazione per non poter più saldare altrimenti, separati ormai da lui dall’invalicabile limite della morte, un debito enorme di gratitudine che certo hanno. Forse, dal rimpianto di non aver soddisfatto, in vita (e sarebbe stato tanto più offensivo per l’altra metà dell’Italia), l’ultimo suo desiderio, con il Quirinale, cercando di dargli da morto un po’ almeno di ciò che non se la sono sentita di dargli da vivo.
Del resto, tutto sembra essere andato storto. Chi avrebbe voluto celebrare in lui lo statista, il padre della patria, niente ha potuto contro una stampa italiana divisa nel bilancio, in morte come lo era stata in vita. Contro il ricordo da più parti di libri e film come “Il caimano”, che rimane una denuncia contro ciò che in lui non è stato solo bonomia e compiacente sorriso. Contro la stampa estera che, libera dai suoi condizionamenti finanziari e politici, è stata impietosa nel giudizio sul personaggio e sulla “sua” Italia. Contro i leader della politica internazionale, della destra liberale innanzitutto, la cui unanime assenza è stata la macchia più appariscente ai funerali, fossero o meno di Stato.
La Storia, come canta Francesco De Gregori, non ha nascondigli. Così, nelle parole dell’omelia di monsignor Delpini, mi pare possibile cogliere certo, e condividere, come a ogni funerale l’umana pietà per una persona che è morta e alla quale è giusto che ognuno tributi, come lo si deve a ogni persona che muore, il lutto segreto, intimo, quello che si prova nel cuore. Ma, evitando giudizi sulla persona che, semmai, ad Altri ormai spetteranno, ho voluto anche cogliere nelle sfumature del ritratto che ha, con la generosità dovuta alla circostanza, tratteggiato i segni più evidenti di un personaggio e un periodo sui quali il giudizio è stato, continua a essere e credo che probabilmente rimarrà in fututo, diviso.
Ma più di tutto colpisce, di quest’ultima scena che si svolge nel grande Duomo della grande Milano, il contrasto tra quella piccola bara di legno per terra e quel piccolo uomo vestito di viola che tratteggia quella che è stata, e adesso non è più, una vita, da un lato; e il grande, e ormai inutile, apparato di potere che li fronteggia, dall’altro. E forse, in questa sproporzione, in questo scarto violento, stridente, assoluto tra il mistero della morte e ciò che appartiene alla vita, alla storia, sta la lezione più vera e importante che questa cerimonia ci lascia.
Un altro naufragio
Un evento, questo secondo, che dovrebbe finalmente preludere a un momento internazionale di lutto e consapevolezza, e con esso a un radicale cambiamento della politica mondiale in fatto di diseguaglianze, di migrazioni, di confini, di guerre di confine. Ma so che invece sarà inghiottito dall’acqua, come tanti altri uguali. Comincio da questo, e sarò breve, perché c’è davvero poco di nuovo rispetto alla strage di Lampedusa del 2013, rispetto alla recente strage di Cutro: un decennio e più nel corso del quale lo sforzo di migliaia di africani e mediorientali di sfuggire a miseria, guerra e altri flagelli si è infranto sugli ultimi scogli delle inospitali coste d’Europa, costando la vita a bambini, donne, uomini a migliaia e migliaia.
Su tutto questo, questa nostra modesta rubrica è già stata costretta a levare, per quel poco che conta, in molte occasioni il suo lamento (segui il link, segui il link, segui il link, segui il link, segui il link, segui il link, segui il link), come anche nel trarre il bilancio di ogni fine d’anno dal 2015 a al 2022. Non c’è niente da aggiungere: l’ingiustizia che governa il mondo uccide chi vi sottostà, come pure chi tenta disperatamente di sottrarvisi con la fuga. Le politiche migratorie con le quali l’Occidente vuole tenere lontane dalla sua ricchezza, frutto in gran parte delle rapine coloniali di ieri e del loro perpetuarsi di oggi, le popolazioni del resto del mondo, uccidono. E questa del 15 giugno non ne è che l’ennesima dimostrazione.
Funerali di Stato, Lutto Nazionale e Lutto Mezzo-Nazionale
È un evento che si presta invece a più originali considerazioni la morte di Silvio Berlusconi, con le determinazioni e le discussioni che vi hanno fatto seguito. Ad esso vorrei dedicare due considerazioni di ordine più generale, e altre per le quali trarrò spunto dal testo dell’omelia dell’arcivescovo, durante i Funerali di Stato a Milano.
Una prima considerazione, di ordine generale, che mi viene alla mente riguarda il Funerale di Stato, in sé stesso, che è una cerimonia alla quale, in generale, non mi piacerebbe mai assistere. Il funerale, come evento che celebra il passaggio di una persona dalla vita alla morte, dovrebbe essere sempre, io credo, un fatto intimo, perché la morte di una persona riguarda solo la stretta sfera intima di coloro che l’hanno amata. Lo Stato, la sfera politica, con questo non c’entra più, e dovrebbe rispettosamante tenersene fuori. Poi, certo, la politica può celebrare, trarre bilanci, tenere convegni: ma la partecipazione del corpo morto dell’estinto a questi momenti, la sua appropriazione da parte della sfera politica, pubblica, storica, mi disturba, perché la avverto barbara, arcaica, in fondo dissacrante e blasfema, qualcosa non distante, nella mia percezione, da un rito antropofagico. Altra cosa insomma credo che sia il funerale, religioso o laico che sia, al quale spettano i resti di quello che è stato un corpo vivo da restituire in una forma o nell’altra alla terra; e altra cosa la memoria di quella che è stata una persona di fronte allo Stato, le bandiere, i confini appunto, la politica, la storia, con i loro inevitabili giudizi, le loro discussioni, le loro celebrazioni e le loro esecrazioni.
Una seconda considerazione di ordine generale che questo evento mi suggerisce riguarda la pretesa che un lutto possa essere nazionale, cioè l’idea di un dolore per la morte di una persona che riguardi tutta intera una nazione. Una nazione, a meno che non se ne abbia una concezione totalitaria, è costituita da un insieme di individui legati da un patto politico che trae origine dalla nascita comune o dalla residenza in uno stesso teritorio, o da altri vincoli che a questi possono essere per scelta politica assimilati. Individui che possono avere, e realisticamente hanno sempre, sentimenti e idee tra loro diversi. Un lutto che possa essere alla lettera nazionale, perciò non può esistere, io credo. A non essere pignoli, si potrà parlare di lutto nazionale certo quando il dolore per la morte di una persona coinvolge la stragrande maggioranza degli individui che compongono la nazione, che a quella persona si sentono legati da uno stesso sentimento e su di essa danno all’incirca lo stesso giudizio. Ma quando questa condizione, che certo in alcuni casi può essere presente, non lo è, parlare di lutto nazionale costituisce una bugia, oltre che un’imposizione per quella parte che in lutto non si sente e non è utile a nessuno: non lo è all’estinto, al quale è attribuita l’unanimità di un sentimento che nella realtà tale non è, e che è così anche inutilmente esposto ad attacchi da parte di chi intende con essi dimostrarlo; e non lo è alla collettività, che avvertirà nell’imposizione di tale sentimento una prepotenza e finirà perciò per essere ancora più divisa e offesa di quanto non fosse. Più onesto sarebbe,in questi casi, e più pacifico per tutti, evitare forzature e riconoscere il fatto che un lutto può essere “mezzo-nazionale”: una grande parte della nazione è in lutto per la perdita di qualcuno che amava e stimava; e un’altra grande parte, all’incirca equivalente, non va oltre il lutto che si prova per la morte di qualsiasi persona, ma rimane in silenzio per rispetto del lutto “mezzo-nazionale” che l’altra parte sta provando. Il lutto, del resto, è un sentimento, anarchico e spontaneo come tutti i sentimenti, che come tutti i sentimenti il potere non può imporre.
Cinque chiose a margine di un’omelia in Duomo
Poste queste due considerazioni, mi è capitato di ascoltare con curiosità e attenzione l’omelia che, nel corso dei Funerali di Stato tributati a Silvio Berlusconi, è stata pronunciata dall’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini. Premetto che comprendo bene quanto certo non fosse facile la sua situazione: dover celebrare un funerale religioso, quindi una cerimonia i cui protagonisti erano un uomo, la morte, e Dio; e insieme dover celebrare una cerimonia di Stato, quindi dare luogo a un fatto storico e politico, la cui lettura politica sarebbe stata per questo inevitabile.
È risaputo del resto da un lato che a un funerale - sia esso o no di Stato - chi vi partecipa si aspetta che della vita dell’estinto il sacerdote consideri sempre solo la parte mezza piena del bicchiere. Ma è altrettanto risaputo che l’estinto è stato in questo caso personaggio discusso forse più di ogni altro in Italia (altro che lutto nazionale, perciò!), e molto anche nel mondo. Qualunque cosa perciò l’arcivescovo, il quale forse avrebbe fatto volentieri a meno di tale onore e onere, avesse detto, poteva prevedere che a qualcuno avrebbe dato a ridire, a destra come a sinistra.
Personalmente, dico invece che, considerata la situazione, non mi pare che l’illustre prelato se la sia cavata male, riuscendo ad alternare considerazioni sulla persona mortale ad altre sul personaggio, che noi cercheremo di disarticolare le une dalle altre, e mi pare che il testo dell’omelia offra -considerata la scelta di partenza di lasciare ogni giudizio all’al di là - spunti, ad ascoltarlo come testo, per considerazioni di ordine antropologico e politico su ciò che il personaggio dell’estinto ha rappresentato nella recente storia italiana.
Nel corso dell’omelia sono riprese, tra uno e l’altro passaggio, com’era necessario le tematiche caratteristiche di un funerale. Così, tra tanti passaggi relativi al “personaggio”, ne troviamo altri, pietosi, affettuosi e senz’altro condivisibili per chiunque, che riguardano la persona: il “sentirsi smarrito” suo come di ogni uomo di fronte alla precarietà della vita, al rischio dell’improvviso esaurirsi della gioia e tramutarsi in dolore, all’incombere dell’inevitabile invecchiamento del corpo e all’annunciarsi altrettanto inevitabile della morte. L’angoscia di fronte alla morte che Berlusconi aveva incontrato quando si era trattato di fatti privati, come la perdita di sua madre; o pubblici, come la violenza del linciaggio cui era andato incontro quello che probabilmente aveva sinceramente considerato un amico, Gheddafi, precipitato in poco più di un mese, senza che lui nonostante fosse al governo di una nazione dell’Occidente potesse fare niente, dal potere assoluto alla polvere del deserto.
All’allusione ai momenti di angoscia dei quali anche l’estinto deve avere fatto esperienza come ogni persona, il prelato contrappone dalle prime parole e anche con il ritmo che loro imprime, quelli che considera i suoi tratti umani salienti: l’innegabile vitalismo, edonismo e attivismo, la sua resilienza, la capacità di reagire nelle difficoltà. Sono tratti che credo che unanimemente possano essere considerati nell’estinto eccezionali, comunque si giudichi il suo operato; e che, nel bene e nel male, ne fanno un personaggio che avrà un posto nella storia italiana. La sua, per qualcuno ammirevole e per altri fastidiosissima, instancabile capacità di combattere, di stare in campo, la sua capacità di stare nel conflitto che spesso ha finito per piegare, per stanchezza o per la spiazzante disinvoltura, gli avversari. La tempra di lottatore nel mercato, nella politica, nell’agone giudiziario come nella vita personale, con l’ostinata negazione, per qualcuno ammirevole e per qualcun altro patetica, dell’invecchiamento del corpo. “Un desiderio di gioia, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento”, insomma, riprende più volte il prelato quasi a punteggiare il suo procedere ricordando che non spetta ormai a questo mondo, e ci si deve aspettare da lui in quel momento, il giudizio sulla persona; e con queste parole infatti conclude.
Oltre a queste parole, relative al carattere umano e religioso del funerale e quindi alla persona, monsignor Delpini non si sottrae (avrebbe potuto scegliere di farlo, ovviamente), alla responsabilità di evocare anche caratteristiche più divisive attinenti al “personaggio” pubblico, visto che di Funerali di Stato si tratta, e di esse approfitterò qui per trarre spunti, per considerazioni ovviamente del tutto mie, e non sue, trattando questa parte dell’omelia come un testo laico che, come ogni testo pubblico, ciascuno può considerarsi libero di chiosare e commentare.
Già nei primi passaggi, c’è uno spunto che considero fondamentale per l’analisi antropologica e politica di ciò che il personaggio dell’estinto ha rappresentato per l’Italia: “vivere, e desiderare che la vita sia buona, bella, per sé e per le persone care”.
Dapprima è una frase che appare banale: è un desiderio comprensibile, chi non lo desidera?
Però davvero pensiamo che un prelato illustre e colto, mi viene subito in mente, come monsignor Delpini non si sia reso conto che, pronunciate da un cristiano, queste parole contengono anche una critica implicita? Ma come, sé e le persone care? E gli altri?
Gli altri come quei 600 morti di naufragio che, proprio nei momenti stessi del funerale, erano costretti a un viaggio così pieno di incognite e di pericoli verso i nostri lidi, ad esempio?
E, oltre gli “altri” in senso generico, ché dire degli avversari, i critici, i nemici?
Davvero pensiamo che il prelato, nel pronunciare quelle parole, non si rendesse conto di enunciare una virtù dell’estinto, ma evidenziarne insieme il limite?
Che avesse dimenticato che l’eccezionalità, la radicale novità, del messaggio cristiano sta proprio nell’estendere l’amore e il sentimento di responsabilità oltre la cerchia dei “cari”, e, almeno, nella prudenza, la misura, il rispetto (non si pretende l’amore…) nel contrastare il nemico?
“Desiderare che la vita sia buona, bella, per sé e per le persone care”, insomma. Punto.
Poi, il prelato riprende a insistere sul vitalismo dell’estinto, ma questa rimane una frase pesante, sulla quale credo importante fermarci. L’essenza del “berlusconismo” come rivoluzione antropologica, quello che dopo la morte di Berlusconi ci rimane come eredità con la quale dover continuare a fare i conti, il Silvio non più solo “in sé” ma ora anche “in noi” che è quello del quale in una canzone Giampiero Alloisio confessa di avere più paura, sta tutta in questa frase, all’apparenza elogiativa o almeno neutrale: l’avere reso dicibile nel discorso pubblico, e quindi implicitamente legittimo, l’egoismo, al più allargato alla cerchia dei “cari”, che in un’Italia che prima era forse più ipocrita almeno era vissuto con vergogna, e perciò non poteva essere additato come modello etico e politico. Questa è stata la principale novità che ha trasferito l’egemonia culturale di questo paese dal catto-comunismo al berlusconismo, io credo. Il vero cambio di pagina.
Il desiderio di amare dell’estinto, prosegue a enunciare poi il prelato entrando in un terreno scivoloso con le difficoltà, le complessità e le contraddizioni che questo sentimento certo ha per tutti, un desiderio di amore che per ciascuno appartiene a una sfera intima, personale sulla quale, comprensibilemente, non ritiene di avere elementi per approfondire, e noi con lui.
Ma insieme il desiderio, invece questo sì più pubblico, evidente – preponderante aggiungerei – di sentirsi amato, applaudito, a volte anche adulato in un modo che poteva persino esteticamente disturbare. I suoi cari, insomma, erano insieme coloro ai quali era lui, ad essere caro. Lui e loro, la sua parte, come se il mondo finisse lì.
“Per sé e per le persone care”, dunque. Un secondo spunto lo colgo nell’edonismo come cifra fondamentale che il prelato attribuisce al personaggio: “essere contento, amare le feste”. Il che è in sé buona cosa, certo, tutti le ameremmo; forse anche quei 600 annegati, le avrebbero amate. Un essere contento che, aggiunge però, è anche un esserlo “senza troppi pensieri e senza troppe inquietudini”: e qui andiamo oltre, andiamo al tentativo, solo in parte riuscito spero, di sbaragliare la pudica, tormentata e dignitosa patina di tristezza catto-comunista che tanto ha dato alla cultura italiana post-resistenziale, per fare posto a un’Italia sempre in festa, la sua, quella offerta dall’intrattenimento delle sue telvisioni. Già, perché non c’è certo niente di male a voler essere contento (e chi non lo vorrebbe!), ma quei “pensieri” e “inquietudini” che, a detta del prelato, l’estinto rifiutava come ombre sulla possibilità di esserlo in modo pieno, totale, sono, guarda caso, proprio ciò che per l’altra metà dell’Italia, che anche per questo non poteva riconoscersi nel lutto nazionale, rende complessa, e quindi interessante, autentica la vita. Sono ciò cui l’altra metà dell’Italia non è disposta per nulla a rinunciare. È stato questo, in fondo, sul terreno antropologico il campo più violento di scontro tra due Italie, quella di coloro ai quali era “caro” appunto l’estinto e che erano a lui “cari”, e quella di coloro ai quali era invece insopportabile.
Un terzo spunto mi pare che sia ancora più rivelatore del personaggio rispetto ai due precedenti, quando il prelato dice: “essere contento di sé, e stupirsi che gli altri non siano contenti”. È quello in cui, temo, da psichiatra non riesco a sforzarmi di non ravvisare il nucleo del narcisismo. Non certo di una malattia, beninteso: di una caratteristica. Non si tratta qui solo di voler essere contento, il che è aspirazione legittima, purché appunto non sia a prezzo di rinunciare alle inquietudini che fanno autentica la vita; ma di non riuscire, in quell’essere contento, a considerare il fatto che gli altri possano non esserlo. Negarlo, non porsi il problema. E che possano non esserlo, in particolare, di noi, di ciò che siamo per loro, criticarci forse con qualche ragione e a volte sentirsi, con qualche fondamento chissà, scontenti del fatto che proprio il prezzo della nostra contentezza sia la loro infelicità. Che gli altri possano essere scontenti proprio del modo nel quale noi costruiamo, non considerando loro, il nostro essere contenti. Che di fronte al nostro occupare in una situazione pre-regolatoria, pre-legale un bene di tutti, le frequenze televisive ad esempio, qualcuno possa ammirarci per astuzia, abilità, ma qualcun altro possa sentirsi defraudato di quello che considera un bene pubblico, e quindi anche suo. “Essere contenti degli applausi della gente, degli elogi dei sostenitori (magari spesso generosamente ricompensati, temo di poter aggiungere)”, proseguono ancora le parole del prelato, e non saperci quindi, aggiungo, preoccupare dei fischi, delle critiche. Rigettarli anzi come incomprensibili atti di invidia e di cattiveria, da schiacciare senza sapere cogliere e problematizzare il nucleo di verità che potrebbero anche contenere, e che potrebbe aiutarci a metterci in discussione rendendoci eticamente migliori. Un atteggiamento come questo velatamente evocato nell’omelia, è già un problema da parte dell’uomo qualsiasi, nella sfera famigliare, nei piccoli contesti ai quali partecipa. È un problema per gli altri. Ma per un imprenditore e un uomo politico potente, non essere capace di considerare, dare dignità alla scontentezza degli altri, non sopportare critiche, obiezioni, appare il nucleo di ogni fenomeno autoritario, di ogni atteggiamento dispotico, quando questi sono portati avanti in buona fede, cedendo all’autoinganno di considerare soltanto le proprie ragioni senza poter vedere quelle degli altri.
A queste tre prime caratterizzazioni ne seguono altre due, che sembrano voler riportare al suo ruolo d’imprenditore e di politico altre delle sue caratteristiche: “essere uomo d’affari”, che lotta tra “clienti e concorrenti, momenti di successo e d’insuccesso, che si arrischia in imprese spericolate”. Un uomo d’affari che in quanto tale, dunque, soprattutto, “deve fare affari”, l’arcivecovo ne è così convinto che lo ripete due volte. A dire il vero, non mi pare che la dottrina economica della Chiesa dica proprio questo, quando parla di responsabilità sociale dell’impresa; non che io me ne fidi molto, ma mi colpisce come un alto prelato sembri, per mantenere l’impegno di evitare un giudizio terreno sull’estinto, fidarsene anche meno di me. Non solo. Un uomo d’affari, aggiunge, che “guarda i numeri, forse si dimentica dei criteri”. È un passaggio coraggioso, questo, perché immagino che con “criteri” l’arcivescovo si riferisca proprio alle leggi, alle norme che regolano la vita economica e politica di una nazione, alle odiate tasse che regolano la solidarietà dei ricchi verso i poveri al suo interno, perché tutti possano essere, un po’ almeno, contenti. “Dimenticare i criteri”: non so se siano stati contenti di essere accumunati in questa generalizzazione all’estinto i suoi colleghi-concorrenti imprenditori, presenti in Duomo numerosi, che a quei “criteri” si sono sentiti - prima perché meno protetti di lui dalla politica e poi per non essere divenuti come lui essi stessi la politica - più costretti di lui a badare di non “dimenticarsi”. Non tutti gli imprenditori, potrebbero obiettare, dimenticano i criteri, o almeno non tutti lo fanno nella stessa misura.
L’arcivescovo passa quindi, offrendo un quinto spunto, all’essere stato il personaggio anche un “uomo politico”, quindi uomo di parte che “ha sostenitori e oppositori, c’è chi lo esalta e chi non può sopportarlo”. A cui si aggiunge il suo essere appunto un “personaggio” che in quanto tale “è sempre in scena, ha ammiratori e detrattori. Ha chi lo applauda e chi lo detesta”. Certo, l’arcivescovo ha ragione in qualche misura anche in questa generalizzazione, queste caratteristiche fanno parte dell’essere uomo pubblico. Ma anche la maggior parte dei politici, come quella degli imprenditori, credo che avrebbe diritto di protestare: non tutti i politici non si fanno crupooli a essere divisivi nella stessa misura. Si può essere di parte senza spaccare la collettività, occupare tutta la scena con il proprio personaggio e i propri interessi, imporre la propria corporeità. Nessun politico, tra quelli che lo hanno preceduto o gli si sono opposti degli oltre settant’anni dell’Italia repubblicana e democratica, complice anche l’impero mediatico direttamente o indirettamente controllato, in questo lo ha eguagliato. Questo, e non il solo fatto di essere uomo politico, lo ha esposto ad avere adulatori e odiatori più di ogni altro. A essere avvertito come più ingombrante e più radicalmente divisivo. Opporre radicalmente la destra alla sinistra. I lavoratori autonomi ai dipendenti. Qualcuno ricorderà la triste fine che fece persino un uomo di destra, come Montanelli, reo solo di concepire lo scontro politico più civile, meno urlato, del suo editore e padrone. O ricorderà quando una sua vittoria elettorale è stata accompagnata dalla frase inquietante: “non faremo prigionieri”. La democrazia, che è basata sull’alternanza, sulla mediazione, su ”criteri” che devono essere considerati intangibili al variare del consenso, mi pare incompatibile con affermazioni come questa.
Questo carattere, non divisivo come quello di ogni politico, ma particolarmente divisivo, del personaggio avrebbe dovuto indurre alla sua morte i “suoi” a esserne consapevoli ed evitare la forzatura di imporre il lutto pubblico all’altra metà della nazione. Si è trattato di un atto di cecità, credo, dettato dalla sincera disperazione per non poter più saldare altrimenti, separati ormai da lui dall’invalicabile limite della morte, un debito enorme di gratitudine che certo hanno. Forse, dal rimpianto di non aver soddisfatto, in vita (e sarebbe stato tanto più offensivo per l’altra metà dell’Italia), l’ultimo suo desiderio, con il Quirinale, cercando di dargli da morto un po’ almeno di ciò che non se la sono sentita di dargli da vivo.
Del resto, tutto sembra essere andato storto. Chi avrebbe voluto celebrare in lui lo statista, il padre della patria, niente ha potuto contro una stampa italiana divisa nel bilancio, in morte come lo era stata in vita. Contro il ricordo da più parti di libri e film come “Il caimano”, che rimane una denuncia contro ciò che in lui non è stato solo bonomia e compiacente sorriso. Contro la stampa estera che, libera dai suoi condizionamenti finanziari e politici, è stata impietosa nel giudizio sul personaggio e sulla “sua” Italia. Contro i leader della politica internazionale, della destra liberale innanzitutto, la cui unanime assenza è stata la macchia più appariscente ai funerali, fossero o meno di Stato.
La Storia, come canta Francesco De Gregori, non ha nascondigli. Così, nelle parole dell’omelia di monsignor Delpini, mi pare possibile cogliere certo, e condividere, come a ogni funerale l’umana pietà per una persona che è morta e alla quale è giusto che ognuno tributi, come lo si deve a ogni persona che muore, il lutto segreto, intimo, quello che si prova nel cuore. Ma, evitando giudizi sulla persona che, semmai, ad Altri ormai spetteranno, ho voluto anche cogliere nelle sfumature del ritratto che ha, con la generosità dovuta alla circostanza, tratteggiato i segni più evidenti di un personaggio e un periodo sui quali il giudizio è stato, continua a essere e credo che probabilmente rimarrà in fututo, diviso.
Ma più di tutto colpisce, di quest’ultima scena che si svolge nel grande Duomo della grande Milano, il contrasto tra quella piccola bara di legno per terra e quel piccolo uomo vestito di viola che tratteggia quella che è stata, e adesso non è più, una vita, da un lato; e il grande, e ormai inutile, apparato di potere che li fronteggia, dall’altro. E forse, in questa sproporzione, in questo scarto violento, stridente, assoluto tra il mistero della morte e ciò che appartiene alla vita, alla storia, sta la lezione più vera e importante che questa cerimonia ci lascia.