Il contenuto dell’informazione di Consenso

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21 giugno, 2023 - 11:30

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      1. Il contenuto dell’informazione

 

Per quanto attiene all’informazione resa, essa deve basarsi sulle migliori conoscenze scientifiche ed avere ad oggetto il rapporto tra i costi ed i benefici del trattamento che il medico intende eseguire sul paziente1. Mancando una disciplina generale dell’informazione, autorevole dottrina ritiene che questa lacuna possa essere colmata attraverso l’applicazione analogica delle linee-guida di buona pratica clinica che regolano la materia di sperimentazioni cliniche2. Tuttavia, tale criterio non ha trovato seguito in giurisprudenza, la quale ha ricostruito autonomamente l’insieme di informazioni da fornire al paziente. Anche quando l’intervento è di routine3, il professionista è tenuto ad informare il suo assistito sul quadro clinico, sui benefici attesi ed i rischi prevedibili del trattamento terapeutico, anche se poco rilevanti sul piano delle percentuali, nonché sui rischi ed i benefici di eventuali alternative diagnostiche o terapeutiche, in modo tale che il paziente possa scegliere liberamente e consapevolmente a quale metodica sottoporsi4. Al riguardo, la dottrina maggioritaria ritiene che il concetto di completezza dell’informazione non deve essere inteso nel senso di dare in ogni caso il massimo delle notizie disponibili, altrimenti si burocratizzerebbe anche la somministrazione del più blando farmaco5. Quindi, la quantità di informazioni deve aumentare proporzionalmente all’importanza dei beni coinvolti ed ai coefficienti di rischio della prestazione sanitaria6. Del resto, se le informazioni tendono a tutelare la libertà di autodeterminazione, è evidente che la loro quantità e precisione debbano essere tanto maggiori quanto più è equilibrato il rapporto tra costi e benefici del singolo trattamento. L’aspetto più delicato riguarda i rischi gravi, ma in termini percentuali minimi7. Secondo la giurisprudenza di legittimità, l’informazione cui è tenuto il medico riguarda “i soli rischi prevedibili e non anche gli esiti anomali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo secondo l’id quod plerumque accidit (…)8. Rilievo assume l’importanza degli interessi e dei beni in gioco, non potendosi consentire tuttavia, in forza di un mero calcolo statistico, che il paziente non venga reso edotto di rischi, anche ridotti, che incidano gravemente sulle sue condizioni fisiche o, addirittura, sul bene supremo della vita”9. La giurisprudenza di merito ha precisato tale principio affermando sia che il paziente deve essere informato anche di rischi intorno al 1%, sia che gli “esiti anomali”, su cui non c’è obbligo di informazione, sono “ricollegabili ad una situazione soggettiva del paziente non prevedibile con i mezzi diagnostici a disposizione e con riferimento ai dati anamnestici del paziente stesso”10. Dunque, la diligenza richiesta nell’adempimento dell’obbligo di tutelare la libertà di autodeterminazione del paziente non è diversa da quella cui il medico è tenuto a salvaguardare la salute del malato stesso11. Questo orientamento presta il fianco a due critiche. In primis, se gli “esiti anomali” consistono esclusivamente nei rischi imprevedibili, è pleonastico indicarli come limite all’obbligo d’informazione: non si può informare un soggetto di un pericolo imprevedibile12. Inoltre, “l’operatore sanitario deve contemperare l’esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi anche ad un banale intervento”13. Infatti con questa affermazione si lascia intendere che il medico deve personalizzare l’informazione in relazione allo stato d’animo o alle peculiari condizioni del singolo paziente, mentre, imponendo di informare l’assistito di tutti i rischi prevedibili, anche intorno all’1%, la giurisprudenza detta al medico una regola di comportamento generale e non suscettibile di adattamenti in chiave di personalizzazione dell’informazione14. Tuttavia, non esiste una normativa che imponga al medico di informare il paziente anche di remoti rischi, e nemmeno il codice deontologico si pronuncia in tal senso. Di conseguenza, questo aspetto della responsabilità medica non può essere valutato in una logica di colpa specifica, ma secondo i noti criteri della colpa generica15. Pertanto, l’eventuale condanna del medico non può essere fondata sul fatto di non aver comunicato al paziente rischi intorno all’1%, bensì sulla dimostrazione che tale omissione integri una negligenza o un’imperizia16. A questa prova si giunge mediante il consolidato criterio di ripartizione dell’onere probatorio in responsabilità medica. Se ne deduce che non può essere ritenuto responsabile il medico il quale dimostri che la mancata informazione di rischi remoti era legata alle condizioni del paziente, avendo dedotto dal dialogo con questo elementi tali da ritenere che la conoscenza di tale rischio lo avrebbe potuto portare a rifiutare una terapia necessaria, seppur non urgente17. Imponendo al medico di informare sempre tutti i pazienti anche in ordine a rischi remoti, si finisce col frustrare l’esigenza di personalizzazione del contenuto dell’informazione, vietando al medico di adattarlo alla situazione, anche psicologica, del singolo paziente, e col considerare giuridicamente corretta la condotta del medico che si limiti a trasmettere le stesse informazioni a tutte le persone da sottoporre al medesimo trattamento18. Quindi, anche per indurre il professionista ad una maggiore attenzione alla persona del malato, appare necessario che la comunicazione dei pericolo anche lontani avvenga solo quando le circostanze del caso concreto escludono il rischio che il paziente rifiuti la terapia medicalmente necessaria19. Un altro aspetto merita di essere menzionato. Quando il comportamento del paziente successivo all’intervento rileva ai fini del “risultato” o per evitare complicazioni, come avviene soprattutto in particolari interventi (estetica, chirurgia rifrattiva con l’utilizzo del laser, ecc.), egli deve essere adeguatamente informato e consigliato qualora non fosse sua intenzione seguire scrupolosamente l’iter chirurgico suggeritogli e tale comportamento dovesse compromettere gravemente la guarigione e quindi il risultato20. L’informazione deve riferirsi anche ai pericoli ed alle conseguenze dell’eventuale scelta di non sottoporsi ad alcun trattamento. Infatti, secondo la giurisprudenza, poiché il paziente ha diritto di “privilegiare il proprio stato attuale”, il medico deve metterlo in condizione di conoscere il quadro clinico e le relative potenzialità evolutive che si verificherebbero nel caso in cui non fosse eseguita alcuna terapia21. In mancanza di tale informativa, il consenso ed il rifiuto sono invalidi, anche se adeguate sono le informazioni sul trattamento proposto e sulle sue alternative22. Infatti, la decisione del paziente è indubbiamente viziata o assunta in modo non pienamente consapevole, se egli non è messo in condizioni di bilanciare il rapporto tra i costi ed i benefici di tale terapia con le conseguenze della scelta di rinunciare al trattamento23. In sostanza, la valutazione del paziente circa l’accettabilità dei rischi di un determinato intervento non è condizionata solo dai potenziali benefici del trattamento stesso, ma anche dalla gravità delle conseguenze cui si espone astenendosi da qualsiasi terapia24. L’informazione, proseguendo, non deve essere troppo tecnica, in quanto non ha lo scopo di colmare il divario di conoscenze fra il medico ed i suoi interlocutori, bensì quello di stabilire tra di loro un’ “alleanza”, ossia una condivisione di obiettivi in un clima di reciproca fiducia. Dunque, l’informazione è obbligatoria anche quando il paziente svolga a sua volta la professione di medico25. Necessario è, in conclusione, includere nella trattazione che il codice di deontologia all’art. 33 stabilisce che l’obbligo di informazione debba estendersi a tutte le notizie, anche a quelle che, per la loro drammaticità, possono determinare nel paziente uno sconvolgimento tale da mettere in pericolo l’efficacia delle terapie o addirittura la sua disponibilità a sottoporvisi26. Tale evenienza, tuttavia, è scongiurata dalla stessa norma deontologica che impone al medico di adottare una terminologia non traumatizzante, valorizzando gli elementi della speranza27. Un accreditato orientamento dottrinario ritiene che nei casi in cui la rilevazione della verità riguardo alle condizioni di salute del paziente interferisca “con il buon esito della terapia, il silenzio dell’operatore medico può essere scriminato, in presenza di circostanze adeguate, dall’art. 51 c.p., da quell’adempimento del dovere funzionale al dovere del medico di tutelare al meglio la salute o la guarigione del suo paziente”28. In senso contrario, altra dottrina evidenzia due motivi a sostegno dell’obbligo di comunicare anche le prognosi infauste. In primo luogo, facendo credere al paziente che il suo male non è grave, lo si può indurre a sottovalutarlo ed a trascurare le cure, che invece potrebbero essere trovate anche in un altro ospedale29. Ciò comporterebbe la violazione dell’art. 32, comma 1, Cost. Inoltre, il dovere di rispetto della persona, sancito dall’art. 32, comma 2, impone di portare a conoscenza dell’assistito fatti che riguardano la sua stessa sopravvivenza. Infatti, celandoli, si impedisce all’individuo di curare altri fondamentali interessi, come la redazione delle volontà testamentarie e l’adempimento di precetti religiosi o di doveri civici30. Proprio per rispettare il malato, occorre prestare attenzione alle modalità con cui adempiere l’obbligo di dire la verità, preferendo una rilevazione per gradi della prognosi infausta31.

 

 

 

      1. Le modalità ed i tempi

 

Le medesime informazioni, scritte ed orali, possono essere comunicate con differenti modalità, definite standard dell’obbligo di informazione, riconducibili a tre modelli: a) lo standardprofessionale”, secondo cui il connotato essenziale dell’informazione è la sua correttezza clinica secondo lo stato delle conoscenze scientifiche; dunque, l’obbligo di informazione potrebbe considerarsi adempiuto qualora le informazioni fornite al paziente fossero tecnicamente corrette e complete; b) lo standardmedio”, per il quale l’informazione andrebbe rapportata a quello che comunque potrebbe comprendere una persona ragionevole; c) lo standardsoggettivo”, in base al quale la correttezza tecnico-scientifica delle informazioni non è sufficiente per considerare adempiuto il relativo obbligo, perché l’informazione deve essere trasmessa con le modalità più indicate affinché la persona concretamente assistita possa comprendere e decidere consapevolmente32. In assenza di disposizioni di legge, sembra trovare applicazione lo standard “soggettivo”, sia perché più funzionale all’effettiva tutela della libertà di autodeterminazione del singolo paziente, sia in virtù dell’art. 33, commi 2 e 3, del c.d.m., secondo cui “il medico dovrà comunicare con il soggetto tenendo conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuovere la massima partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Ogni altra ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta”33. Infatti, il consenso informato non deve essere il frutto di “un incontro impersonale, anonimo ed umanamente disimpegnato, tra prestatore e fruitore d’opera”34; bensì deve essere inteso come un atto di autonomia attraverso il quale il paziente accetta di sottoporsi all’attività diagnostico-terapeutica concordata col medico per la salvaguardia del proprio diritto alla salute35. Se la comunicazione avvenisse secondo lo standard “professionale” o quello “medio”, l’informazione sarebbe un’attività più di forma che di sostanza. Conseguentemente, la dottrina considera invalido il consenso rappresentato da una firma in calce ad un modulo senza alcun elemento di personalizzazione dell’informazione resa36. La scelta di prediligere lo standard “soggettivo” apre le porte al problema di individuare quali siano le modalità che consentono di ritenere adempiuto l’obbligo di informazione in relazione alle tante variabili della condizione del paziente. Tali modalità devono avere carattere generale ed oggettivo, perché la norma giuridica non può imporre al medico un determinato livello di sensibilità e particolari qualità umane, come la capacità comunicativa, la disponibilità, la pazienza e l’affabilità37. Non si può tradurre in norma giuridica un insieme di qualità umane e caratteriali, perché mancherebbero parametri significativi di giudizio per colui che è chiamato ad accertare la responsabilità del medico38. Inoltre, se si esasperasse il carattere soggettivo dell’informazione, si farebbe gravare sul medico l’obbligo di far capire al malato tutto ciò che gli viene comunicato, arrivando all’assurdo di dar vita ad un’obbligazione di risultato, con la conseguenza di doverlo far condannare per inadempimento ogni qualvolta il paziente dichiarasse in giudizio di non aver capito un qualche aspetto del trattamento eseguito39. Se è, dunque, necessario stabilire fino a che punto debba spingersi la personalizzazione dell’informazione, tale confine oggettivo sembra doversi sostanziare negli obblighi di correttezza ex artt. 1175 e 1337 c.c. e di diligenza ex art. 1176 c.c., che richiedono al medico di attivarsi affinché il paziente prenda una decisione consapevole40. Nell’ambito di tale obbligazione di diligenza e di buona fede, appare necessario che il medico si attivi per valutare l’effettiva consapevolezza della scelta fatta dal malato41. A tal fine sarebbe sufficiente, completata l’attività informativa, chiedere al malato i motivi per cui ritiene di accettare o di rifiutare il trattamento indicato, e poi valutare se la risposta data sia determinata da una cattiva comprensione o sia invece sintomatica dell’effettiva consapevolezza del paziente, essendo logica e conseguente rispetto alle informazioni fornite, senza aggravare il medico né l’organizzazione sanitaria di particolari incombenze42. Tuttavia anche la natura di obbligazione di mezzi, comportando per il professionista il dovere di fare il possibile per tutelare la libertà di autodeterminazione del paziente, pone a carico del medico il compito di sincerarsi che nel caso concreto non sussistano elementi tali da far credere che il consenso o il rifiuto siano frutto di un’incomprensione delle informazioni ricevute43. Occorre discutere anche di un altro elemento fondamentale nell’acquisizione del consenso, in cui l’informazione è funzionale a mettere il paziente in condizione di prendere una decisione effettivamente consapevole in ordine al trattamento medico cui sottoporsi: la tempistica44. Al riguardo, occorre considerare l’eventualità in cui il modulo di consenso informato sia portato all’attenzione ed alla firma del paziente contestualmente al suo trasporto in sala operatoria45. Tale modus operandi, frutto di un’immatura sensibilità verso la libertà di autodeterminazione del malato, incontra l’implicita riprovazione del codice deontologico, il quale, al secondo comma dell’art. 35, afferma che il consenso “è integrativo e non sostitutivo del processo informativo di cui all’art. 33”46. Tale processo segue una determinata tempistica: dall’informazione sul rapporto costi-benefici e sulle eventuali alternative diagnostico-terapeutiche, ex art. 33, comma 1 c.d.m., si può giungere all’acquisizione del consenso solo dopo aver tenuto conto delle “capacità di comprensione” del paziente “al fine di promuovere la massima partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche”, ex art. 33, comma 2 c.d.m., e solo dopo aver soddisfatto “ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente”, ex art. 33, comma 3 c.d.m.47 Dunque, se l’attività di informazione è definita dall’art. 35 c.d.m. come un “processo” che non si può completare senza aver prima dato risposta alle richieste di ulteriori informazioni da parte del paziente, ne consegue che tra l’informazione del medico e la manifestazione di volontà del paziente deve intercorrere un lasso di tempo tale da consentire all’assistito quella minima riflessione indispensabile per comprendere le informazioni ricevute e per chiedere, eventualmente, chiarimenti48. Una regola operativa coerente ed equilibrata sembra essere quella di “prenotare” la sala operatoria solo dopo che il paziente ha espresso il consenso49.

 

 

 

      1. La forma e la prova del consenso

 

L’art. 26, comma 2, del c.d.m., statuisce che “la cartella clinica deve registrare i modi ed i tempi delle informazioni nonché i termini del consenso del paziente”50. Ciò non toglie che, ai sensi dell’art. 35 del medesimo codice, il consenso debba essere acquisito in forma scritta solo nei casi previsti dalla legge51 e quando vi sia grave rischio per l’incolumità della persona, oppure nei casi in cui, per la particolarità delle prestazioni mediche o per le conseguenze che possono derivarne all’integrità fisica del malato, sia opportuna una manifestazione documentata della sua volontà52. In dottrina ed in giurisprudenza si sottolinea come la sottoscrizione di un modulo non costituisca di per sé prova inconfutabile dell’avvenuta informazione perché la forma scritta non preclude la possibilità di indagare sull’eventuale incompletezza o sulla scarsa intellegibilità del modulo informativo53. In senso contrario, un altro orientamento rileva che la sottoscrizione da parte del paziente del modulo contenente tutte le informazioni del caso, comprese quelle sul rischio in concreto realizzatosi, determina l’inammissibilità della prova testimoniale dal medesimo chiesta per dimostrare l’inadempimento dell’obbligo di informazione54. Secondo altro orientamento, invece, “se la sottoscrizione del modulo relativo non costituisce la dimostrazione del consenso informato, anche l’assenza del prestampato firmato non vuol dire che la prestazione sanitaria sia stata carente dall’angolo visuale del diritto all’informazione posto che, per il tipo di intervento in questione, non erano richieste forme particolari per far constare la trasmissione dai medici al paziente delle informazioni necessarie e sufficienti per consentire a lui di scegliere con una minima cognizione di causa l’atto terapeutico: la cui dimostrazione può essere fornita anche attraverso prove orali”55. Sebbene la forma scritta sia requisito di validità del consenso solo in determinati casi, la prassi di far firmare al paziente la propria accettazione al trattamento ritenuto indicato riveste un’ovvia rilevanza probatoria56. Tuttavia, poiché l’assistito non può essere in posizione paritaria con il medico in quanto ha bisogno della sua prestazione, appare necessario documentare il consenso informato facendo sottoscrivere il modulo, su ogni pagina, anche in presenza di due testimoni, uno per il medico ed uno per il paziente, per arginare il rischio che quest’ultimo dichiari come avvenuto un dialogo mai verificatosi57. In una prospettiva di effettiva valorizzazione del diritto del paziente all’autodeterminazione, la documentazione del consenso informato dovrebbe svolgersi attraverso una ripresa filmata, utile per la quantificazione del danno, per la valutazione equitativa del giudice, evitando una eccessiva discrezionalità58.

 

 

 

      1. L’identità tra intervento acconsentito ed intervento eseguito

 

Il consenso prestato dal paziente per un determinato intervento non può essere valido anche per un trattamento diverso. Anche questo aspetto, apparentemente scontato, può dar luogo a controversie sulla legittimità dell’operato medico59. Nel caso, ad esempio, in cui il medico, in specie chirurgo, nel corso di un intervento riscontri nel soggetto anestetizzato una patologia non diagnosticata, oppure più grave di quella diagnosticata, presentandosi come necessario medicalmente un intervento chirurgico diverso o ulteriore, con un diverso rapporto tra costi e benefici, che sarebbe più logico eseguire contestualmente all’operazione già in corso, ma che il paziente non è in grado né di accettare né di rifiutare, essendo narcotizzato, la giurisprudenza tende a trovare la soluzione nella liceità del trattamento diverso o ulteriore solo se sussiste uno stato di necessità ex art. 54 c.p.60 Negli altri casi, la modifica dell’operazione è fonte di responsabilità61.

 

 

      1. La capacità legale

 

Coerentemente con la logica dell’art. 32, comma 2, Cost. e con l’esigenza che la relazione terapeutica sia effettivamente incentrata sulla fiducia da parte del paziente e sulla compartecipazione del medico al suo stato di malattia, il consenso deve provenire direttamente dalla persona che necessita la prestazione diagnostico-terapeutica62. Però l’importanza centrale che in questo modo viene ad assumere la libera autodeterminazione del paziente fa sì che diventino essenziali l’individuazione e l’accertamento della ricorrenza pratica delle condizioni di capacità del soggetto, da una parte, e, dall’altra, come il medico deve comportarsi quando è impossibile per il malato raggiungere una scelta consapevole63. Il Comitato Nazionale per la Bioetica ha affermato che il paziente, per consentire validamente, deve non solo essere capace di intendere e di volere, ma anche avere capacità legale, ossia essere maggiorenne, e sano di mente. Relativamente al primo requisito, l’articolo 2 del codice civile dispone che al compimento del diciottesimo anno sorge la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non è prevista un’età diversa64. Di conseguenza, non esistendo per quanto concerne i trattamenti sanitari alcuna disposizione speciale, in tale ambito il minore non ha la capacità di consentire validamente e dunque il consenso informato deve essere acquisito dai suoi genitori di “comune accordo”, ex art. 316 c.c.65. La rigidità di questa disposizione è mitigata dall’art. 317 c.c. ai sensi del quale “Nel caso di lontananza, di incapacità o di altro impedimento che renda impossibile ad uno dei genitori l’esercizio della potestà, questa è esercitata in modo esclusivo dall’altro66. Considerando l’importanza degli interessi coinvolti, appare prudente che il medico acquisisca il consenso informato di un unico genitore solo quando l’altro sia effettivamente impossibilitato a ricevere un modulo informativo ed a farlo pervenire firmato67. Nel caso in cui genitori non intendono prestare il consenso informato “al trattamento necessario e indifferibile” per il minore, l’art. 37, ultimo comma, del c.d.m. stabilisce che “il medico è tenuto ad informare l’autorità giudiziaria; se vi è pericolo per la vita o grave rischio per la salute del minore e dell’incapace, il medico deve comunque procedere senza ritardo e secondo necessità alle cure indispensabili68. La medesima regola trova applicazione nel caso in cui i genitori prendano decisioni tra loro discordanti. Infatti, nel caso in cui il consenso espresso da un solo genitore non appare valido perché l’art. 316 c.c. prevede che la potestà genitoriale si esercita “di comune accordo69. Tuttavia, l’incapacità d’agire del minore ex art. 2 c.c. è dettata dall’esigenza di certezza degli atti negoziali. Di conseguenza, questa norma non appare vincolante in materia di trattamenti medici perché il consenso del paziente è estraneo al traffico giuridico70. Per diversità di ratio è necessario trovare soluzioni differenti a seconda che l’atto di disposizione riguardi la sfera patrimoniale o quella personale. È da precisare che l’art. 2 va letto ed interpretato alla luce di altre fonti e disposizioni che riconoscono e garantiscono i valori di libertà, anche, terapeutica e di rispetto della persona in tutte le sue estrinsecazioni, con l’entrata in vigore della carta repubblicana nel 194871. Anche in materia sanitaria, vi sono disposizioni specifiche che, in deroga al principio della incapacità d’agire al di sotto dei diciotto anni, prevedono ipotesi in cui al minore è riconosciuta la facoltà di scelta autonoma su tematiche di forte connotazione individuale72. In particolare, i minorenni, ad esempio, hanno diritto di usufruire da soli delle strutture per la cura delle tossicodipendenze e la loro riservatezza deve essere tutelata anche nei confronti dei genitori73; possono accedere alla contraccezione presso strutture sanitarie e consultori, ma su prescrizione medica ex art. 2 della legge n. 194 del 1978. Dunque, vi è una crescente rilevanza della volontà del minore capace di discernimento in ordine ai trattamenti sanitari che trova esplicito riconoscimento in alcune disposizioni normative. Altre, dalla portata sopranazionale, si limitano a stabilire l’obbligo per gli adulti di tenere conto della volontà del minore se matura e consapevole74. In proposito, l’art. 84 della Carta europea dei diritti fondamentali dell’Unione europea afferma che i bambini “possono esprimere liberamente la propria opinione: questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità75. Anche la Convenzione di Oviedo fa riferimento alla posizione del minore, affermando all’art. 6 che “nei casi in cui secondo la legge un minore non possiede la capacità di dare il consenso a un intervento, quest’ultimo può essere effettuato solo con l’autorizzazione del suo rappresentante, o di un’autorità o di un organo designato dalla legge76. Attraverso questi esempi emerge chiaramente che è rilevante la volontà del minore a seconda dell’età, della maturità e della sua capacità di discernimento, soprattutto dopo l’avvento della carta costituzionale, che ha introdotto un mutamento del sistema di valori e della considerazione del minore all’interno della famiglia e nella società77. Detto ciò, non si può prescindere, per l’accesso ai trattamenti sanitari, dal coinvolgimento dei genitori del minore: riconosciuta al minore è la facoltà di scelta autonoma78. Il legislatore, così non ha voluto salvaguardare la libertà di autodeterminazione in ordine alla tutela della salute, bensì ha scelto di proteggere la riservatezza e l’equilibrio psicologico della persona minorenne, permettendole di non coinvolgere il genitore qualora viva in modo patologico o ansiogeno la sua presenza e conoscenza dei fatti79. In questa prospettiva, si colloca anche l’’art. 38 del codice deontologico medico che valorizza la volontà del minore, statuendo che: “Il medico, compatibilmente con l’età, con la capacità di comprensione e con la maturità del soggetto, ha l’obbligo di dare adeguate informazioni al minore e di tenere conto della sua volontà. In caso di divergenze insanabili rispetto alle richieste del legale rappresentante deve segnalare il caso all’autorità giudiziaria”80. Dunque, il medico non ha alcun obbligo di attenersi alle scelte del minore capace di autodeterminarsi, come invece deve fare quando l’assistito è maggiorenne81. Se il medico considera l’assistito capace di autodeterminarsi, l’eventuale contrasto tra la volontà del minore e del legale rappresentante obbliga il medico, in primo luogo, a comporlo e successivamente, in caso di impossibilità di pervenire ad una decisione unanime, il professionista deve portare il caso a conoscenza del Tribunali per i minorenni, competente ex art. 38 disp. att. c.c.82 Per quanto riguarda la persona interdetta, la soluzione va trovata nell’articolo 424 c.c., che estende agli interdetti le disposizioni sulla tutela dei minori, e nell’articolo 357 c.c., ai sensi del quale “tutore ha la cura della persona del minore, lo rappresenta in tutti gli atti civili e ne amministra i beni83. La soluzione, qui, è diversa, dato che l’interdizione impedisce alla persona solo gli atti negoziali. Secondo la tesi maggioritaria, di conseguenza, il consenso informato ha natura non negoziale e la manifestazione di volontà dell’interdetto è valida, purché capace di intendere e di volere. La disciplina deontologica illustrata per i minori, in virtù dell’espresso richiamo dell’art. 38 del c.d.m., si applica anche agli interdetti84.

 

 

1 G. M. Vergallo, op. cit., 119 ss.

2 G. M. Vergallo, op. cit., 119 ss.

3 L’art. 33 c.d.m. afferma che l’informazione deve avere ad oggetto la diagnosi, la prognosi, le prospettive, i trattamenti alternativi e le prevedibili conseguenze delle scelte operate. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 119 ss.

4 G. M. Vergallo, op. cit., 119 ss.

5 F. Giunta, “Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche”, op. cit., 388. In senso contrario, V. Fresia, “Luci ed ombre del consenso informato”, Riv. It. Med. Leg., 1994, 900. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 119 ss.

6 G. M. Vergallo, op. cit., 119 ss.

7 G. M. Vergallo, op. cit., 119 ss.

8 G. M. Vergallo, op. cit., 119 ss.

9 Cass. civ., n. 14638 del 2004. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 119 ss.

10 Trib. Bologna, 13 aprile 2006, www.personaedanno.it sostiene che “il dovere di informazione da parte del medico configura l’adempimento di un’obbligazione di diligenza che, sia pure nei limiti propri della diligenza specifica ex art. 1176 c.c., comma secondo, si arresta in ogni caso ai limiti di conoscibilità”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 119 ss.

11 A. Lanotte, ne “L’obbligo di informazione: adempimento di un “dovere burocratico”?”, in Dann. Resp., 2006, 537, evidenzia che la quantità di informazioni da trasmettere all’interessato “deve essere proporzionale alla valutazione dei parametri attinenti la sfera soggettiva del paziente (emotività, cultura, ecc.), al fine di promuovere la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche”. Vedi G. M. Vergallo, op. cit., 119 ss.

12 G. M. Vergallo, op. cit., 119 ss.

13 Cass. civ., n. 14638 del 2004. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 122 ss.

14 G. M. Vergallo, op. cit., 122 ss.

15 G. M. Vergallo, op. cit., 122 ss.

16 Trib. Genova, n. 542 del 2006, afferma che “deve aversi riguardo alle ragioni dell’incompletezza dell’informazione, perché non è detto che in ogni caso la lacuna comporti una “colpa” del sanitario. Qui entrano in gioco diversi fattori, che vanno dalla negligenza vera e propria ai casi in cui l’informazione sia ritenuta superflua per ragioni di impostazione terapeutica oppure per l’esigenza di non indurre parossistico timore presso un paziente particolarmente emotivo”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 122 ss.

17 G. M. Vergallo, op. cit., 122 ss.

18 G. M. Vergallo, op. cit., 122 ss.

19 Ciò è confermato dalle linee-guida di buona pratica clinica delle sperimentazioni, secondo cui il medico deve informare il soggetto di tutti i rischi del trattamento sperimentale, mentre per le alternative terapeutiche l’informazione deve essere circoscritta ai “rischi importanti”, D.M. 15 luglio 1997. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 122 ss.

20 G. M. Vergallo, op. cit., 122 ss.

21 G. M. Vergallo, op. cit., 124 ss.

22 G. M. Vergallo, op. cit., 124 ss.

23 G. M. Vergallo, op. cit., 124 ss.

24 G. M. Vergallo, op. cit., 124 ss.

25 App. Roma, 24 gennaio 2006. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 124 ss.

26 G. M. Vergallo, op. cit., 124 ss.

27 G. M. Vergallo, op. cit., 124 ss.

28 G. M. Vergallo, op. cit., 125 ss.

29 G. M. Vergallo, op. cit., 125 ss.

30 G. M. Vergallo, op. cit., 125 ss.

31 M. Paradiso, “Il dovere del medico di informare il paziente. Consenso contrattuale e diritti della persona”, in AA. VV., “La responsabilità medica”, Milano, 1982, 143 ss.,il quale individua un unico limite all’obbligo di dire tutta la verità: “Potrà risultare opportuno o necessario tenere celata la verità a chi, per l’età immatura o le instabili condizioni psichiche, sia incapace pienamente di intendere e di volere e dunque non sia in grado di autodeterminarsi con consapevolezza”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 125.

32 Sui diversi standard di informazione si veda M. Criscuoli, “Ragionevolezza e “consenso informato” del paziente”, in Rass. Dir. Civ., 1985, 544 ss. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 125 ss.

33 G. M. Vergallo, op. cit., 125 ss.

34 Comitato Nazionale per la Bioetica, “Informazione e consenso all’atto medico”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 125 ss.

35 Trib. Venezia, in tal senso, 4 ottobre 2004, afferma che “il consenso deve essere il frutto di una relazione interpersonale tra i sanitari ed il paziente sviluppata sulla base di un’informazione coerente allo stato, anche emotivo, ed al livello di conoscenze di quest’ultimo(...) segnando il passaggio (...) dalla fase dell’assenso a quella del consenso, ossia del convergere delle volontà verso un comune piano di intenti”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 125 ss.

36 G. M. Vergallo, op. cit., 125 ss.

37 G. M. Vergallo, op. cit., 125 ss.

38 G. M. Vergallo, op. cit., 130 ss.

39 Peraltro, anche ipotizzando che il medico disponga della massima sensibilità e competenza oltre che delle migliori capacità comunicative, il raggiungimento del risultato di far prendere al suo assistito una decisione perfettamente informata e consapevole è ostacolato comunque sia dall’enorme sproporzione di cultura specifica esistente tra il medico ed il paziente, sia dalla condizione stessa della malattia che, con i suoi corollari di sofferenza e di angoscia, sempre disturba la serenità del giudizio e di conseguenza comprime la libertà di scelta. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 130 ss.

40 G. M. Vergallo, op. cit., 131 ss.

41 G. M. Vergallo, op. cit., 131 ss.

42 G. M. Vergallo, op. cit., 131 ss.

43 G. M. Vergallo, op. cit., 131 ss.

44 G. M. Vergallo, op. cit., 131 ss.

45 La questione della validità dell’informazione fornita e del consenso ricevuto in prossimità dell’intervento è divenuta oggetto di crescente attenzione in giurisprudenza, la quale non ha sempre trovato risposte univoche. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 131 ss.

46 G. M. Vergallo, op. cit., 131 ss.

47 G. M. Vergallo, op. cit., 133 ss.

48 G. M. Vergallo, op. cit., 133 ss.

49 G. M. Vergallo, op. cit., 133 ss.

50 G. M. Vergallo, op. cit., 133 ss.

51 La legge prevede la forma scritta nei seguenti casi: trapianto di rene (n. 458/1967), trapianto parziale di fegato (n. 483/1999), rettificazione dell’attribuzione di sesso (legge n.164 del 1982), donazione di sangue (D.M. 26 gennaio 2001), trasfusione di sangue (legge n. 219/2005), esposizione a radiazioni ionizzanti “a scopo di ricerca scientifica clinica” (legge n. 230/1995), sperimentazione farmacologica (D.lgs. n. 211/2003), sperimentazioni cliniche in campo oncologico (D.L. n.23/1998), elettroshockterapia (circolare del Ministero della Sanità 13 marzo 1999), procreazione medicalmente assistita (l. n. 40/2004). Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 135 ss.

52 G. M. Vergallo, op. cit., 135 ss..

53 S. Cacace, “Informazione, consenso, rifiuto di cure: (il)liceità del trattamento sanitario e (im)possibile conciliazione fra diritto del paziente e libertà del sanitario”, in G. Comandè, “Diritto privato europeo e diritti fondamentali: saggi e ricerche”, Torino, 2004, 86, mette in evidenza come l’esasperata burocratizzazione del rapporto medico-paziente, tipica dell’esperienza statunitense, sia una delle conseguenze di un esacerbato atteggiamento di medicina difensiva, utile a tutelare il medico, più che ad aiutare e garantire il paziente. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 135 ss.

54 App. Roma, 27 marzo 2007, in www.dirittosanitario.net; Trib. Milano, 25 febbraio 2005, pur ammettendo “che non vi sono limiti normativi per l’astratta ammissibilità della prova testimoniale diretta a contrastare le circostanze risultanti dal modulo”, ne ha dichiarato l’inammissibilità in quanto “è rimesso al giudice il giudizio sulla rilevanza della prova testimoniale , ovvero sulla sua idoneità a comprovare circostanze diverse rispetto a quelle contenute nel documento sottoscritto dal paziente”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 135 ss.

55 Trib. Genova, 12 maggio 2006. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 135 ss.

56 G. M. Vergallo, op. cit., 135 ss.

57 G. M. Vergallo, op. cit., 135 ss.

58 G. M. Vergallo, op. cit., 135 ss.

59 G. M. Vergallo, op. cit., 135 ss.

60 Cass. pen., n. 585 del 2001. In dottrina, G. Iadecola, “Potestà di curare e consenso informato”, Milano, 2000, 67 ss., secondo il quale “il criterio dello stato di necessità appare il più rispettoso del fondamentale principio della certezza del diritto”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 135 ss.

61 G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

62 G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

63 G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

64 G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

65 Questa disposizione trova conferma nell’art. 37, comma 1, del codice deontologico medico, che stabilisce che il consenso agli interventi diagnostici e terapeutici sul minore deve essere chiesto al legale rappresentante, ossia ai suoi genitori o, in loro mancanza, al tutore. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

66 G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

67 G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

68 Il requisito dell’indifferibilità appare superfluo perché l’art. 32, ultimo comma, del codice deontologico medico afferma che “Il medico, in caso di opposizione dei legali rappresentanti alla necessaria cura dei minori e degli incapaci, deve ricorrere alla competente autorità giudiziaria”. Dunque, il fatto che la cura sia necessaria è di per sé sufficiente a far sorgere in capo al medico l’obbligo di portare all’attenzione dell’autorità giudiziaria il rifiuto avanzato dai genitori. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

69 La conferma della rilevanza dell’esercizio congiunto della potestà genitoriale emerge da due disposizioni: l’art. 317, ultimo comma, c.c. chiarisce che la potestà comune dei genitori non cessa neppure quando il minore viene affidato ad uno di essi in seguito a separazione o a cessazione degli effetti civili del matrimonio. Inoltre, lo stesso articolo 316 c.c stabilisce che “in caso di contrasto su questioni di particolare importanza” si può ricorrere al Tribunale per i minorenni, il quale, sentiti i genitori ed il figlio ultraquattordicenne, “attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare l’interesse del figlio”. Nelle materie, dunque, più delicate il legislatore sembra escludere che la volontà di uno solo dei genitori sia valida. Riguardo ai figli naturali, l’esercizio della potesta genitoriale è regolato dall’art. 317-bis c.c. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

70 C. Vignali, “La tutela della salute del minore”, in Dir. Fam. Pers., 2005, 1430. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

71 G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

72 Infatti, l’integrità fisica ed il benessere sono valori rispetto ai quali si raggiunge prima la maturità perché le loro lesioni sono sempre sofferte in prima persona dal minore, mentre il rapporto con i beni meramente patrimoniali è sempre mediato dalla presenza dei genitori che ne hanno la proprietà. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

73 Art. 95 della legge n. 685/1975, come sostituito dal D.P.R. n. 309/90. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

74 G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

75 G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

76 G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

77 G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

78 G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

79 G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

80 G. M. Vergallo, op. cit., 147 ss.

81 G. M. Vergallo, op. cit., 152 ss.

82 G. M. Vergallo, op. cit., 152 ss.

83 G. M. Vergallo, op. cit., 152 ss.

84 G. M. Vergallo, op. cit., 152 ss.

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