Gli anni della riforma psichiatrica italiana 1980 - Il Convegno italo-francese di Lucca
Per quanto mi riguarda ero stato prudente e ho indovinato. Prima di lasciarmi trascinare nel Pontino dalla figlia Chiara, l’antropologa e dal marito Marco, l’operatore turistico, che ci vanno tutti gli anni per starsene appostati al fresco sulla “Muntagna carsica de Terracina”, dominando con lo sguardo da Capo Circeo fino a Capo Miseno, con in mezzo le “Ponziane” e talvolta Ischia, in fondo, per ultima, se il cielo è terso, avevo frugato nello scatolone dei libri vecchi della biblioteca riordinata da una delle due badanti ucraine quando c’era ancora Silvia, mia moglie [01]. Ne avevo tratto un libretto elegante, dalla copertina discreta di colore azzurrino con in primo piano uno scorcio riquadrato del cortile dell’antico manicomio di Fregionaia, il luogo lungamente abitato da Mario Tobino e reso celebre dal romanzo “Le libere donne di Magliano”, Mondadori 1973. Senza saperlo, mi ero portato a “Campo Soriano” - così si chiama il rude e affascinante Gerosito conosciuto a livello nazionale per “l’impronta del dinosauro” - una perla preziosa di un tempo lontano della psichiatria. Mi ha tenuto compagnia per l’estate un libro di 221 pagine che raccoglie gli atti di un convegno italo-francese, tenutosi a Lucca il 10 e l’11 ottobre 1980 sul tema “Curare e ideologia del curare in psichiatria”. Stampato da Maria Pacini Fazzi, Editore in Lucca presso la San Marco Litotipo nell’ottobre 1981. I Colleghi Luciano Del Pistoia e Franco Bellato, che ne curarono gli Atti, erano riusciti nella memorabile impresa di far convergere un qualificato spaccato della “società civile”, come si direbbe oggi, che questa categoria sociale è quasi “evaporata” per gli infiniti motivi che tutti conosciamo, ma che molti si sono stancati di denunciare perché inascoltati. Anzi, ridotti al silenzio dal clamoroso dilagare dell’illegalità diffusa chiamata “conflitto d’interesse”, finalizzato alla realizzazione di quelli obliqui dei pochi, con le mani in pasta e la faccia di bronzo.
In quegli anni del secolo appena trascorso, quando ancora si praticava la dialettica e ci si confrontava su tesi opposte, erano convenuti nell’austera città della Garfagnana - “dove si va prendere il Garbo”, quella famosa pei celebri bastioni imponenti alle rive del Serchio (la città oscurata e non solo per via del Monte Pisano “per che i Pisan veder Lucca non ponno”) - ben 103 tra infermieri, medici, psichiatri, sociologi, assistenti sociali, amministrativi, amministratori, psicologi, assistenti ambientali, capigruppo di partiti, funzionari dello stato, neuropsichiatri infantili, antropologi, studenti, filosofi, avvocati, assistenti all’infanzia, cattedratici emeriti di neurologia, psicoanalisti, storici. Due illustri Colleghi della psichiatria toscana, a fare gli onori di casa, due scuole diverse: Luciano Del Pistoia aveva iniziato a Parma con Bruno Visintini (si dice che sia stato il primo cattedratico ad accendere la scintilla basagliana in Franco Basaglia), poi aveva fatto il salto internazionale andando direttamente in Francia ad imparare da Georges Lanteri Laura e a prender moglie sapiente, multilinge e austriaca (Elisabetta Nibelle Del pistoia). Franco Bellato, invece, era cresciuto accanto a Mario Tobino, di cui era divenuto amico personale avendo scoperto casualmente che lo scrittore e suo padre, essendo coetanei, classe 1910 furono commilitoni (l’uno in sanità, l’altro in marina) nella seconda guerra mondiale. Dunque per me è stata una vacanza proficua di studio e di riflessione. Per i lettori di Pol.It mi limiterò a trascrivere soltanto la Prefazione degli Autori, praticamente il “razionale” del Convegno internazionale, dove sono contenuti i principali orientamenti e i più originali fermenti internazionali della psichiatria riformata, ancora di pienissima attualità e con sapidi commenti di straordinario umorismo e rigorosissima serietà scientifica dei protagonisti, dopo 45 anni.
“Curare e ideologia del curare in psichiatria” Prefazione (pp. 5-17) di Luciano Del Pistoia e Francesco Bellato.
Questo libro, che riporta le relazioni e i dibattiti del Convegno italo-francese, tenutosi a Lucca il 10 e 11 ottobre 1980, si rivolge sia al grande pubblico interessato in modo più o meno indiretto ai problemi della salute mentale, sia al pubblico ristretto degli specialisti; e questo in relazione ad un diffuso e crescente bisogno di chiarezza, tanto teorica quanto pratica, nell’ambito della psichiatria.
I non specialisti sono ancora sollecitati dalla campagna di mass-media che, da qualche anno a questa parte, si è fatta in Italia, lo scrupolo di inculcare una sana diffidenza nei confronti della psichiatria, anche se non ha abbastanza convinto la gente per indurla ad abbandonare antiche convinzioni e comportamenti radicati (come considerare dei malati i pazzi o, più modernamente, rivolgersi allo psichiatra per propri disturbi, ecc.) e non ha impedito che procedesse (anche se per modo di dire) una riforma sanitaria, che convalida sostanzialmente la tanto maltrattata tradizione medico-psichiatrica.
Gli specialisti si trovano nella condizione, a dir poco imbarazzante per chi fa professione di spirito critico, di doversi destreggiare in una situazione in cui le pressioni per le scelte aprioristiche di campo oscillano dalla sollecitazione insistente all’affermazione della necessità autodifensiva. Di fatto diversità e divergenze fra coloro che sono abilitati al curare in psichiatria sono tali da apparire, perlomeno, inquietanti.
Queste diversità e divergenze si sono poi inasprite in seguito ad una commistione di ingredienti politici, intesi non come rapporto critico con il potere – cosa da cui uno psichiatra non può esimersi, ed è bene che non si esima – quanto come un ibrido tecnico-politico mal definito, rinviante però a definite militanze politiche.
Siamo comunque addivenuti ad una situazione in cui i terapeuti delle varie posizioni, se a volte ancora si «salutano», certo è che non si «parlano». Si fanno al massimo delle concessioni: gli psicoanalisti hanno fatto alle – e hanno ricevuto dalle – istituzioni delle concessioni, i farmacoterapeuti han fatto concessioni al sociale, gli antipsichiatri alla farmaco terapia; ma è certo che tutto questo non è neppure l’inizio di un confronto critico fra le varie posizioni, implicante, per ciascuna, il rischio di una rinuncia a sé stessa, e, per tutte, le incognite di un’avventura. Si assiste anzi, ad un fenomeno opposto di irrigidimento, reso possibile e dalla resistenza passiva opposta dalle istituzioni (su cui alcune posizioni terapeutiche sono incrostate) e dalla resistenza attiva ad un cambiamento, voluto sì da una legge, ma considerato da molti una concessione estorta allo Stato italiano con un colpo di «compromesso storico».
Con il nostro Convegno, non abbiamo voluto farci mediatori di una pace, per il momento tanto impossibile quanto discutibile, bensì promotori di un confronto tuttora problematico, eppur necessario se si vuole evitare la completa degradazione della psichiatria ad una guerra di religione che ovviamente si svolge sempre sulla pelle dei pazienti e dei cittadini. Neppure siamo andati alla ricerca di una ulteriore verità da aggiungere, o da contrapporre alle tante, alle troppe già esistenti nella psichiatria di oggi, la stessa tradizione storica della città di Lucca, che più d’uno ha voluto ricordare, facendo sentire la stonatura di una tale eventuale ricerca. Il problema della psichiatria attuale, infatti, è meno di sapere quale degli attuali indirizzi terapeutici sia quello giusto, quanto di sapere se non siano essi le membra disjecta di un unico organismo, tuttora animate da reazioni di reciproco rigetto per le recenti vicende della psichiatria, ma obbligate, a più o meno lunga scadenza, ad un confronto che superi le contrapposizioni settarie e le miserie culturali della politica delle concessioni, sopra ricordate.
Un confronto dovrà comunque svolgersi su temi precisi, su aspetti concreti della pratica del curare: vediamo quanto, in tal senso, è emerso dal Convegno di Lucca.
Un primo aspetto del curare psichiatrico è stato individuato nella svolta illuministica nei confronti della follia. L’Illuminismo ha trasformato in conflitto intrinseco alla natura umana quello che era fino ad allora un conflitto fra l’uomo e forze la cui estraneità all’uomo rispondeva anche a dei canoni iconografici (l’unghia fessa e il pie’ caprino del demonio, ecc.). È l’interiorizzazione di tale conflitto che dà un senso all’agire terapeutico, nel tempo stesso che lo fonda. Finché la follia è una possessione, la pratica correlativa pertinente è la catarsi, più o meno violenta, dall’eterogeneo contaminante (l’esorcismo, il rogo); solo allorché la follia diviene una contraddizione interna della ragione umana, prende senso la terapia come tentativo di mediazione dialettica fra la tesi della sragione e l’antitesi della ragione in vista del raggiungimento di una superiore e più comprensiva razionalità. La crisi di follia è un momento sulla via dell’autocoscienza.
Riappropriazione dell’alieno, innesco di una dialettica, valore positivo del momento critico-folle, questi i cardini del fondamento illuministico del curare psichiatrico: un’eredità che spetta molto alla psicoanalisi, molto meno alla psichiatria, aver riportata alla memoria.
Queste considerazioni richiedono tuttavia due precisazioni. Una prima precisazione è che la svolta illuministica non garantisce da riflussi del sacro nell’ambito del curare psichiatrico, riflussi di cui sono indici la rottura della sintesi illuministica fra proprio e alieno, la neo-ontologizzazione del male, il riemergere di pratiche violente al posto delle terapie (fra gli esempi recenti, l’ideologia organicista, che ha ontologizzato il male nel nemico di classe, da schiacciare; corredandosi ambedue, e non a caso, di procedimenti violenti). La seconda precisazione è piuttosto una domanda: si tratta cioè di sapere se ci muoviamo ancora all’interno della cultura illuministica, oppure se questa cultura sia finita, come la società borghese che l’ha generata, la fine della psichiatria essendo nel contempo conseguenza e indice della fine della società. Una cosa rimane certa: che l’avere verso la follia un atteggiamento terapeutico e tollerante è una scelta: e questa scelta è, per noi, un lascito dell’illuminismo.
Un secondo aspetto del curare psichiatrico è stato individuato nel lavoro diacronico della medicina. L’affermazione illuministica che la pazzia è una malattia e non una possessione diabolica, rimarrebbe generica, ideologica, se un linguaggio tecnico-specifico non le permettesse di dare concretezza al discorso alternativo che essa implica. Questo linguaggio con i relativi procedimenti e contenuti che esso implica, l’illuminismo lo prende dalla medicina. È il patrimonio di descrizioni, a stratificazione plurisecolare, che va da Ippocrate a Pinel, e che permette di tenere sulla pazzia un discorso preciso fatti di segni, di raggruppamenti di segni, di evoluzione nel tempo di tali raggruppamenti. Il curare psichiatrico, in altre parole, prende consistenza per la possibilità di parlare non di una generica malattia mentale, ma di diverse malattie mentali, per ognuna delle quali, o per ciascun gruppo delle quali, si possono mettere in atto procedimenti terapeutici propri e diversi gli uni dagli altri. il curare psichiatrico si configura nell’intersezione di una ideologia (l’illuminismo) e di una empirica (la semeiologia clinica): una empiria che, senza ideologia, rimarrebbe cieca; una ideologia che senza empiria, rimarrebbe astratta.
Ma a proposito di questo aspetto del curare psichiatrico c’è il rischio di un equivoco: l’idea, cioè, che il sapere clinico sia onnipotente e onniesplicativo. È noto invece che se il sapere clinico-terapeutico ha una condizione, è quella della precisa consapevolezza dei propri limiti. Si cura quello che si può e fin dove si può, occorre prendere atto dei casi di impotenza con l’idea che dove oggi siamo del tutto disarmati, domani si potrà forse fare qualche cosa. Correlativamente, occorre sia chiaro che non tutte le terapie sono scientifiche: alcune cure si fanno perché se ne conosce -o si crede di conoscerne il meccanismo, altre si fanno per semplice empiria e, infine, certe cure si fanno perché, per esempio si crede all’ipotesi dell’inconscio patogeno. I temi qui accennati sono sviluppati, non senza qualche accento volteriano, da Georges Lanteri-Laura.
Un terzo aspetto del curare psichiatrico è stato individuato nel rischio intrinseco di ideologia, che esso per la sua stessa natura, presenterebbe. Ed è questa la convinzione non solo degli antipsichiatri, ma anche di una buona maggioranza di medici e di un numero non trascurabile di psichiatri.
Per gli antipsichiatri, notoriamente, il curare psichiatrico è una pura imposizione alle classi subalterne della ideologia della classe dominante, imposizione avente con la medicina i meri rapporti che le vergogne hanno con un mal tessuto velo di pudore. Ma anche per coloro che le riconoscono un contenuto medico, la psichiatria diverge essenzialmente dalla medicina allorché si tratta di dare un senso alla nosografia per fondare una pratica terapeutica: ché gli psichiatri prenderebbero i loro modelli di malattia dalla biologia. Per queste ragioni il curare filosofico della psichiatria avrebbe una tendenza accentuata a divenire ideologico, molto più, in ogni caso, del curare biologico della medicina, essendo quest’ultimo garantito da una verifica sperimentale, estranea, per la sua natura al primo.
Questo modo di pensare viene tuttavia, considerato arbitrariamente riduttivo, nei confronti dell’agire terapeutico, da parte di coloro che si richiamano ad un maggior rigore storico ed epistemologico.. dicono insomma questi che curare non è solamente imporre una ideologia, o applicare esclusivamente delle cure di cui si conosce – o si presume di conoscere – il meccanismo, astenendosi dal curare in tutti gli altri casi; ma che il curare, oltre a tutto questo, è anche, in buona parte, empiria; e tenendo presente che questi tre aspetti del curare non sono compartimenti stagni, ma realtà fluide in diversi equilibri sincronici, intercisi da una diacronia all’insegna dei reciproci scambi.
In una simile angolatura, il curare psichiatrico e il curare della medicina appaiono più omogenei di quanto potessero sembrarlo ad una considerazione fatta di vecchi luoghi comuni; e se una differenza fra di essi si può stabilire, consiste meno in un diverso dosaggio degli ingredienti, che in una diversa valutazione di questi. Gli psichiatri sono più sensibili degli altri medici ai problemi epistemologici; magari come succede adesso, sensibili fino all’autoflagellazione antipsichiatrica. Ma son questi dati di fatto storici e non giudizi di valore.
Un ultimo aspetto del curare psichiatrico è stato individuato nella contraddizione interna del ruolo di terapeuta, particolarmente evidente nello psichiatra del servizio pubblico, ma non per questo assente nell’ambito dell’attività privata. Si tratta ovvianente della contraddizione fra gli imperativi della cura e gli imperativi della sicurezza, dove occorre però precisare che la sicurezza non riguarda una pericolosità reale e documentata, ma il terreno anbiguo delle misure preventive. Tuttisanno come il manicomio sia stato la precisa documentazione del modo in cui l’ideologia della sicurezza porta a rinnegare prima, e annientare poi il ruolo terapeutico; e come, d’altra parte, dalle promesse di Giolitti al referendum di Pannella, non sia ancora chiaro, in Italia, che la legge sulla psichiatria è una legge sanitaria e non una legge sul fermo preventivo di polizia.
Il disagio indotto dal rapporto con l’istituzione non rimane comunque esterno al terapeuta, ma penetra profondamente nel suo atteggiamento, rischiando di produrvi una profonda frattura. Da un lato, allora, il problema del curare si configura come liberazione delle potenzialità del soggetto bloccate dai conflitti – è quanto hanno illustrato Dario De Martis e Michel Demangeat, ambedue psicoanalisti – in un lungo percorso antiistituzionale insieme al terapeuta, passante anche attraverso un apparentemente paradossale arricchiomento del quadro sintomatologico; dall’altro lato, il problema del curare si configura in un disegno in cui l’eliminazione dei sintomi cn gli psicofarmaci – è quanto ha illustrato Pietro Sarteschi – pur non essendo che, riduttivamente, la soluzione, rimane tuttavia il referente maggiore; rinviando correlativamente, ad una certa garanzia nella prospettiva della sicurezza, e consentendo un inserimento meno contraddittorio dello psichiatra nella logica della istituzione.
La presa in carico dei problemi di sicurezza non sarebbe, invece, una contraddizione introdotta nel ruolo di psichiatra – sedicente puro terapeuta – dalla sua funzione pubblica, ma riassumerebbe, al contrario, tale ruolo: così ritiene Ferruccio Giacanelli, le cui ricerche storiche, focalizzate sulla metà dell’800, gli fanno situare a questo momento la nascita della psichiatria italiana, con l’identificazione dello psichiatra al ruolo di burocrate e di normalizzatore di Stato. affermazione sostenuta da una documentazione archivistica ricca come di consueto, ma che ha sollevato due obiezioni. Una prima obiezione di ordine storico: se si possa, cioè, ridurre all’atteggiamento ufficiale di alcuni grandi nomi della psichiatria dell’Italia unita e dei loro vassalli la polimorfa realtà psichiatrica italiana, preesistente all’unificazione e, verosimilmente, operante anche dopo questa. Una seconda obiezione, riguardante il piano pratico-terapeutici ed emergente dai temi svolti da Piero Benassi: che la committenza proveniente dall’alto, cioè dal potere, è solo un aspetto di quella più ampia richiesta, una cui essenziale sorgente è il paziente, complicata in questo caso dal fatto che l’oggetto della cura non è spesso il soggetto della domanda di cura. Il curare psichiatrico, sottolinea Piero Benassi, non si annienta in queste contraddizioni ma emerge anzi dall’impatto tra queste contraddizioni, che fan parte della realtà, e l’attività di un terapeuta il cui referente è di essere un medico, implicato in simili situazioni: né ontologizzato, quindi, nella turris eburnea di un improbabile curare puro, né frantumato dal primo contatto con la realtà e con i suoi risvolti giuridici e politici.
«Ma in Italia non ci sono psichiatri e forse non ce ne sono mai stati!» poteva essere la conclusione, apparentemente paradossale, che dava al Convegno Edoardo Balduzzi. In effetti, Eugenio Tanzi era sicuramente uno psichiatra non solo perché era un grande clinico, ma anche per il suo protendere la conoscenza clinica della pazzia verso una conoscenza dell’uomo; e questo grazie a quella immensa cultura umanistica che tutti sanno. Tuttavia, con il primo, e ancor più con il secondo dopoguerra qualcosa certo ha dovuto spezzarsi nella fibra della psichiatria italiana; e se citiamo come referenza in proposito il Prof Mario Gozzano, non è tanto per aver egli simbolizzato con i suoi due manuali – le quasi mille pagine della neurologia e le poco più di cento della psichiatria – una situazione di fatto che è andata avanti per anni, quanto per il suo articolo del 1955 (apparso ne La Psychiatrie dans le monde, annesso all’Encyclopédie Médico-Chirurgicale) dal quale sembrava di dover capire che la psichiatria era un po’ il secondo lavoro di neurologi di fama, ovvero un esercizio diagnostico di stile che si faceva al piano nobile della clinica universitaria, mentre le relative bisogne terapeutiche erano affidate alla servitù del piano manicomiale.
I temi generali del convegno qui sopra accennati sono corredati da precise documentazioni archivistiche (La storia del primo elettroshock, di Sergio Mellina; La colonia agricola nel manicomio della fine dell’800 di Maurizia Cotti; Il manicomio criminale di Valeria Babini; l’immagine degli alienisti attraverso gli atti della Società Freniatrica di Fernanda Minuz, l’ideologia dell’ambulatorio pedopsichaitrico di Jacques Arbveiller; il 1789, il 1945 e il rilancio della psichiatria, di Etienne Trillat…) e sono punteggiati dagli interventi dei non specialisti, in particolare di Felice Mondella voluta, ma non per questo meno imbarazzante, sprovvedutezza di uomo della strada.
I curatori
Luciano Del Pistoia
Franco Bellato..
Note.
01. Si veda POL.it Psychiatry on line Italia “Scatoloni e badanti. Una biblioteca molto colorata ma inutilizzabile” di Sergio Mellina 13 maggio, 2019 -