Terza giornata - Lunedì 16 ottobre

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26 novembre, 2012 - 13:55

CORSO D'AGGIORNAMENTO SINDROMI PARANEOPLASTICHE

Il corso d'aggiornamento è stato aperto dal dott. Giometto dell'Univesità degli Studi di Padova responsabile del Paraneoplastic-Syndrome Euronetwork nato con la finalità di raccogliere su larga scala dati epidemiologici sulle sindromi paraneoplastiche e creare una banca di campioni biologici per la definizione di criteri diagnostici rigorosi per tali patologie e la puntualizzazione di protocolli diagnostici e terapeutici. Le sindromi neurologiche paraneoplastiche (PNS) comprendono un gruppo di malattie neurologiche patogenicamente correlate alle neoplasie e non attribuibili alla diretta invasione da parte del tumore del sistema nervoso, o ad altre cause di danno indiretto quali fattori tossici, metabolici, nutrizionali, infettivi o coagulativi. La prima descrizione di tali sindromi risale al 1947 ad opera di Denny-Brown, ma solo nei primi anni ottanta sono stati identificati anticorpi in grado di reagire contro antigeni tumorali e neuronali (anticorpi onco-neurali). Nel 2004 l'Euronetwork ha individuato due livelli di accuratezza diagnostica (definita o possibile) per le PNS in base a: presenza o assenza di neoplasia, definizione di sindrome paraneoplastica classica e identificazione di anticorpi ben caratterizzati (con buona valenza diagnostica).
Le PNS classiche comprendono:
1.Degenerazione cerebellare paraneoplastica: sindrome pancerebellare ad andamento subacuto( sviluppo <12 settimane), in assenza di atrofia cerebellare alla RMN encefalo, più frequente nel sesso femminile e nelle neoplasie di ovaio (34%) e mammella (18%), associata nel 56% dei casi alla presenza di Ab-anti YO.
2. Neuronopatia sensitiva subacuta (di Denny-Brown): assonopatia ganglionare ad esordio asimmetrico, con andamento sub-acuto (<12 settimane) caratterizzata da interessamento degli arti superiori, grave deficit propriocettivo e, in ca.il 25% dei casi, dalla presenza di disautonomia; nel quasi 70% dei casi è legata a microcitoma polmonare e si associa alla presenza di Ab anti Hu nell'80% dei casi. 
3. Encefalite limbica: sindrome caratterizzata da deficit della memoria a breve termine (72%), convulsioni (45%) e disturbi comportamentali ad andamento subacuto con evidenza di coinvolgimento del sistema limbico, spesso bilaterale, alla RMN encefalo; si associa a microcitoma polmonare (38%) e neoplasie testicolari (15%) con riscontro rispettivamente di Ab anti Hu ed anti Ma2; nelle forme associate a neoplasie testicolari si può osservare coinvolgimento di diencefalo e troncoencefalo. 
4. Encefalomielite paraneoplastica: è la PNS più grave (in genere responsabile della morte dei pazienti), coinvolge il sistema nervoso centrale e periferico a diversi livelli e si associa al riscontro di Ab anti Hu.Altri quadri comprendono l' opsoclono-mioclono, paraneoplastico solo nel 50% dei casi in associazione ad Ab-anti Ri, la pseudo-ostruzione intestinale cronica, associata ad Ab-anti Hu, la sindrome di Lambert-Eaton (vedi oltre) e la dermatomiosite. Per tali sindromi è stato dimostrato un doppio meccanismo patogenetico: anticorpo mediato (a livello di sistema nervoso periferico e placca neuromuscolare) e cellulo mediato ( sistema nervoso centrale). 
Il dott. Giometto ha proseguito la sua relazione ricordando le neoplasie più frequentemente associate a PNS (in ordine di frequenza microcitoma polmonare, cr ovaio e mammella, altre neoplasie polmonari) ; ha quindi sottolineato l'importanza della diagnosi di tali sindromi, dato che in due terzi dei casi precedono la manifestazione della neoplasia primitiva, e la necessità di ricercare la neoplasia primitiva anche in assenza degli Ab onco-neurali, in presenza di alcune di tali sindromi classiche, quali l'encefalite limbica e l'encefalomielite paraneoplastica. Ha concluso rilevando la scarsità di dati in letteratura sul follow-up a lungo termine di tali patologie e come la prognosi sia legata al tipo di PNS piuttosto che al tipo di neoplasia. Rispondendo alle domande della platea il dott. Giometto ha indicato altre potenziali PNS non classiche quali corea e disturbi talamici, l'assenza nella casistica dell'Euronetwork di interessamento isolato del motoneurone nei pazienti neoplastici e la necessità di un follow-up con PET nei pazienti con positività degli anticorpi onco-neurali, anche in assenza di evidenze clinico-radiologiche di neoplasia. 
Il secondo intervento a cura del dott Honnorat di Lione ha focalizzato l'attenzione sul valore diagnostico degli anticorpi onco-neurali nelle PNS. I sei anticorpi meglio caratterizzati hanno una specificità del 100% ed una sensibilità del 50%. 
1. Ab anti Hu: riconosce un antigene espresso da tutti i neuroni, è responsabile nel 50% dei casi di neuropatie periferiche e nel 74% dei casi di PNS che precedono la comparsa del tumore; si associa a microcitoma polmonare (65%) e più raramente a tumori di mammella, prostata e timo.
2.Ab anti Yo: diretto contro un antigene espresso dalle cellule del Purkinje, è responsabile nell'88% dei casi di grave atassia cerebellare e si associa prevalentemente a neoplasie di ovaio (60%) e mammella (25%). 
3. Ab anti Ri: diretto contro un antigene espresso da tutti i neuroni, è responsabile soprattutto di encefalite troncoencefalica e di neuropatie periferiche, si associa generalmente a neoplasie della mammella (43%) ed a microcitoma polmonare (33%). 
4.Ab anti anfifisina: diretto contro un antigene espresso a livello delle sinapsi dello strato molecolare e granulare del cervelletto, è stato descritto per la prima volta in associazione alla Stiff-man sindrome, anche se è responsabile più frequentemente di neuropatie periferiche e sindrome di Lambert-Eaton; si associa a microcitoma polmonare (60%) e tumori mammari (4%). 
5. Ab anti CV2/anti CMRP5: riconoscono antigeni oligodendrocitari e sono responsabili di neuropatie periferiche (42%), corea, atassia e, tipicamente, di retinite e uveite; si associano a microcitoma polmonare(66%) e timoma (13).6.Ab anti Ma2: diretto contro un antigene presente nel nucleo di tutti i neuroni, più frequente in soggetti di sesso maschile e giovane età (35 anni), tipicamente associato a tumori della linea germinale del testicolo e polmonari, responsabile di quadri di encefalite limbica o del tronco e atassia cerebellare. 
Il dott.Honnorat ha poi proseguito riportando i risultati di uno studio da lui condotto che ha dimostrato l'utilità della ricerca di neoplasia mediante PET solo nei pazienti in cui sono stati riscontrati anticorpi onco-neurali ben caratterizzati.
Il terzo intervento, tenuto dal dott. Cavaletti dell'Università di Milano "Bicocca", è stato incentrato sull'associazione tra neuropatie periferiche e tumore indicando tre possibili meccanismi: a. Danno diretto del nervo (infiltrazione del nervo da parte del tumore, danneggiamento in corso di intervento chirurgico, anestesia locale, terapia del dolore, etc). b. coinvolgimento paraneoplastico: (in uno studio del 1995 su pazienti con cr ovarico epiteliale l'incidenza di neuropatia paraneoplastica aumentava con la durata e lo stadio di malattia).c. effetti neurotossici della chemioterapia. Il dott. Cavaletti ha ribadito come la forma paraneoplastica tipica di neuropatia sia quella sensitiva (esordio asimmetrico e interessamento arti superiori). Una manifestazione frequentemente sottovalutata del coinvolgimento paraneoplastico del sistema nervoso periferico siano i disturbi disautonomici: ipomobilità intestinale (diagnosi differenziale con effetti collaterali da farmaci), disturbi vescicali, ipotensione ortostatica, disturbi pupillari, impotenza e xeroftalmia. Le sindromi disautonomiche si associano abbastanza comunemente al riscontro di anticorpi anti-Hu, anche se occasionalmente sono stati descritti anticorpi diretti contro i recettori nicotinici presenti nei gangli autonomici. 
La neuropatia da farmaci antineoplastici (CIPN) è una complicanza frequente del trattamento con diversi tipi di chemioterapici, e la sua incidenza è sicuramente molto superiore rispetto a quella delle sindromi paraneoplastiche.
I quadri clinici più frequenti sono rappresentati da:
1. neuropatia esclusivamente sensitiva, secondaria ad interessamento dei neuroni del ganglio spinale ed associata ad una atassia potenzialmente grave; 
2. neuropatia di tipo misto sensitivomotorio, in genere secondaria ad una sofferenza, prevalentemente assonale, delle fibre del nervo periferico. 
I farmaci più frequentemente responsabili di neuronopatia sensitiva sono il cisplatino ed gli antineoplastici platino-derivati di seconda e terza generazione (carboplatino, oxaliplatino) che agiscono sulle cellule tumorali legandosi al DNA ed ad altre molecole (RNA, proteine) presenti nel nucleo; tali sostanze hanno effetto analogo nei neuroni sensitivi (e probabilmente nelle cellule satellite) del ganglio spinale, dove il platino si accumula. La neuronopatia sensitiva indotta dai platino-derivati è caratterizzata dalla possibilità che la massima gravità della sintomatologia può essere raggiunta anche alcuni mesi dopo la sospensione del chemioterapico ( "coasting"), rendendo quindi problematica la valutazione corretta della gravità del danno durante il trattamento, vale a dire quando vanno decise eventuali variazioni nella somministrazione del farmaco. Il quadro di neuropatia mista sensitivo motoria è, invece, più frequentemente causato da farmaci ad azione anti-tubulinica quali i taxani, che aumentano la tendenza a polimerizzare della tubulina, e gli alcaloidi della vinca (vincristina e suoi derivati più recenti) che disgregano il sistema dei neurotubuli, ed è dovuto ad alterazione del trasporto assonale. Il dott. Cavaletti ha poi ricordato l'effetto della vincristina sul sistema nervoso autonomo.
Anche i farmaci di ultima generazione, come il bortezomib (inibitore dell'attività del proteosoma) e gli epotiloni (antitubulinici simili ai taxani) hanno dimostrato nei primi studi clinici una rilevante neurotossicità periferica, che tuttavia non è stata ancora caratterizzata in modo soddisfacente. 
In tutti i casi di neuropatia da chemioterapici c'è l'indicazione a ridurre il dosaggio o a sospendere il farmaco. Nel rispondere alle domande del pubblico il relatore ha sottolineato la necessità da parte delle aziende produttrici di farmaci chemioterapici di porre attenzione agli effetti neurotossici già dalle prime fasi di sperimentazione.
La mattinata è stata chiusa dalla dott.ssa Evoli, dell'Università Cattolica di Roma, che ha descritto la fisiopatologia e i quadri clinici delle principali canalopatie paraneoplastiche. Le canalopatie paraneoplastiche sono canalopatie autoimmuni in cui la risposta immunitaria è indotta da un tumore a distanza, che esprime antigeni simili o identici ad un determinato canale. In queste patologie l'immunizzazione avviene in periferia, quindi è più frequente l'interessamento del sistema nervoso periferico, soprattutto a livello della giunzione neuro-muscolare che, per la sua struttura, è particolarmente vulnerabile nei confronti degli autoanticorpi. A differenza di quanto si osserva in altre malattie paraneoplastiche, gli anticorpi specifici sono frequentemente responsabili di patologie idiopatiche. La prima sindrome descritta è la sindrome miastenica di Lambert-Eaton (LEMS). 
La LEMS è paraneoplastica (P-LEMS) nel 50-60% dei casi, generalmente associata a carcinoma polmonare a piccole cellule. È caratterizzata da un disturbo presinaptico della trasmissione neuromuscolare e del sistema nervoso autonomo, in cui la perdita di canali voltaggio-dipendenti del calcio (VGCC), mediata da anticorpi specifici, è responsabile di un ridotto rilascio quantale di acetilcolina (ACh) (disorganizzazione e riduzione numerica delle "active zones" a livello della membrana presinaptica della giunzione neuromuscolare).
La diagnosi si fonda sui criteri clinici, elettrofisiologici e sul dosaggio degli anticorpi sierici anti-VGCC (presenti nell'85-90% dei casi, con positività ancora più elevata nella P-LEMS). Criteri di supporto per la diagnosi di forma paraneoplastica sono: l'insorgenza relativamente acuta, in età adulta, e la presenza di sintomi gravi, scarsamente responsivi alla terapia sintomatica.
L'esordio della malattia neurologica solitamente precede l'evidenza di microcitoma polmonare per cui la diagnosi di LEMS impone la ricerca dell'eventuale neoplasia e, in caso di negatività, la sorveglianza oncologica va proseguita per almeno 5 anni. Il trattamento del tumore determina solitamente un netto miglioramento clinico. Nei pazienti con P-LEMS possono essere presenti altre patologie paraneoplastiche, fra cui la più frequente è la degenerazione cerebellare (PCD) nella cui patogenesi sono implicati gli anticorpi anti- VGCC, con meccanismo non ancora chiarito.
Sono state poi trattata le sindromi da ipereccitabilità del nervo periferico, quali la neuromiotonia (NMT) e la cramp-fasciculation syndrome, che sono attualmente attribuite ad un'alterazione anticorpo-mediata del canale voltaggio-dipendente del potassio (VGKC). 
I VGKC hanno un ruolo fondamentale nel controllo della ripolarizzazione neuronale. La loro inibizione determina un'ipereccitabilità assonale con generazione di potenziali d'azione ripetuti che sono responsabili di attività muscolare spontanea (crampi, fascicolazioni, miochimie) ed iperattività autonomica (iperidrosi). Gli anticorpi specifici, che risultano dosabili nel 50% circa dei pazienti, inducono una riduzione dei VGKC mediante accelerata internalizzazione e distruzione del canale mentre il complemento non sembra avere un ruolo patogenetico rilevante. La NMT autoimmune può essere idiopatica o paraneoplastica, quest'ultima di solito associata a timoma, più raramente a tumori polmonari e linfomi. Nel 20% dei pazienti si osservano segni di coinvolgimento del sistema nervoso centrale, quali disturbi del sonno, alterazioni del comportamento e allucinazioni (sindrome di Morvan) o alterazioni cliniche e RMN indicative di encefalite limbica. L'associazione di neuromiotonia, Ab anti VGKC e encefalite limbica identifica forme trattabili di quest'ultima.
Infine la dott.ssa Evoli ha ricordato: la forma paraneoplastica di miastenia gravis, associata a timoma (in cui si riscontrano con elevata frequenza anticorpi anti muscolo striato fra cui IgG anti recettore della rianodina (RyR), canale del calcio del reticolo sarcoplasmatico); la neuropatia autonomica subacuta causata da Ab anti recettore dell'acetilcolina ganglionare, che può essere idiopatica o paraneoplastica (solitamente associata a timoma o microcitoma polmonare); una forma di degenerazione cerebellare paraneoplastica associata a morbo di Hodgkin, causata da Ab anti recettore metabotropo del glutammato caratterizzata da risposta alla terapia immunosoppressiva e trasmissibilità.
(a cura di dell'Aquila C. e Tinelli A.)

Quando la mente parla al corpo: riflessioni e nuovi approcci terapeutici

Il simposio si apre con l'intervento del prof. L. Pani dal titolo "Dal dualismo corpo-mente agli inibitori duali. Logica dello sviluppo di nuovi antidepressivi". Il relatore inizia da una breve rassegna storica sullo sviluppo degli antidepressivi e sul loro meccanismo d'azione, sottolineando il ritorno a farmaci con caratteristiche di inibizione della ricaptazione sia di serotonina che di noradrenalina, quali erano i primi antidepressivi. Segue una revisione dei vantaggi e degli svantaggi degli antidepressivi TCA, fondamentalmente efficaci, ma poco selettivi, e degli SSRI, gravati di significativi effetti collaterali sulla sfera sessuale e di una minore efficacia sui sintomi fisici della depressione. Il primo inibitore duale privo degli effetti collaterali dei TCA è stato la venlafaxina, che presenta, però, un effetto prevalente sulla ricaptazione della serotonina per cui a dosaggi intermedi agisce di fatto come SSRI e solo a dosaggi più elevati è SNRI. La duloxetina si presenta come farmaco meglio bilanciato sui due sistemi neurotrasmettitoriali considerati, risultando efficace su entrambi indipendentemente dal dosaggio e garantendo una buona riduzione dei sintomi fisici già dopo una settimana di trattamento. Lo sviluppo e l'impiego di farmaci SNRI trova ragione nel dato ormai assodato di un ruolo di più neurotrasmettitori nella genesi della depressione e della necessità di agire anche sui sintomi fisici che spesso si accompagnano alla depressione, soprattutto in certe categorie di pazienti.
In tale ottica si pongono i successivi interventi, infatti il prof. R. Torta, affronta il tema "Depressione e prognosi neurologica". In tale ambito i sintomi fisici sono quelli più spesso presenti come sintomi residui e influenzano negativamente la prognosi globale del paziente. Inoltre i sintomi somatici sono spesso i primi ad essere lamentati e giungono prevalentemente all'attenzione del medico di medicina generale o del neurologo piuttosto che dello psichiatra. Frequentemente vengono sottostimati e, soprattutto, sottotrattati, anche in ambito oncologico dove si è rilavato come sintomi depressivi siano tra i più segnalati e contemporaneamente i meno trattati. Ritornando alla patologia neurologica, il relatore si sofferma sulla Post Stroke Depression presente nel 35% dei pazienti con stroke e capace di influenzare negativamente la prognosi quad vitam. In questi casi la terapia antidepressiva migliora la prognosi e questo può essere meglio compreso considerando la depressione come malattia sistemica che comprende alterazioni dell'asse HPA, del sistema immunitario, cardiovascolari e della coagulazione. Tutte queste alterazioni giustificano la maggiore mortalità nei pazienti con Post Stroke Depression e sono in vario modo bersaglio diretto o indiretto dell'azione dei farmaci antidepressivi. Un'altra patologia neurologica in cui la terapia antidepressiva si dimostra un elemento importante è la sclerosi multipla. In particolare, nella terapia della fatigue, che ha aspetti fisici (trattati con immunosoppressori), cognitivi (trattati con terapia cognitivo comportamentale), ma anche emotivi, la terapia con antidepressivi è un'utile trattamento integrativo.
Chiude il simposio, affrontando il tema della "Depressione nell'anziano" il prof. C. Vampini. La depressione nei soggetti anziani ha caratteristiche differenti rispetto a quella che insorge in altre età della vita, tra cui una presentazione prevalentemente in contesti extradomiciliari (ospedali ed RSA), una prevalenza di sintomi ansiosi, cognitivi e somatici e non ultimo, un aumento del rischio di suicidio. I fattori di rischio più consolidati sono il sesso femminile, una storia di depressione, lo stato civile, la comorbidità somatica e la disabilità. Meno certi sono i dati riguardanti alterazioni dei circuiti neurotrasmettitoriali correlati all'età e la presenza di microlesioni vascolari. Il decorso della depressione nell'anziano è solitamente peggiore, sia perché viene curata meno frequentemente, sia per l'alto rischio di suicidio, più elevato in soggetti con malattie fisiche, dolore cronico, lutti e abuso di alcol. I dati sull'impiego dei farmaci antidepressivi negli anziani sono limitati, ma indicano una percentuale di risposta tra il 35% e il 72%, con una sostanziale equivalenza tra i composti studiati e una risposta correlata alla gravità dei sintomi. In particolare la duloxetina si è dimostrata efficace dopo 4 settimane di trattamento, con riduzione dei sintomi fisici già dopo una settimana di trattamento. Sembra inoltre che la duloxetina determini un miglioramento delle performance cognitive nei pazienti anziani. Per quanto riguarda l'efficacia del trattamento a lungo termine, i risultati positivi ottenuti con la terapia antidepressiva si mantengono a 2-3 anni di distanza, meglio se associati a psicoterapia interpersonale in soggetti non dementi. Il relatore sintetizza poi alcune indicazioni sull'impiego dei farmaci antidepressivi negli anziani secondo le quali i trattamenti di prima scelta sarebbero gli SSRI o gli SNRI per almeno 1 anno se si tratta di un primo episodio e per 3 o anche più anni se si tratta di una ricaduta o ci sono fattori di rischio. Il dosaggio consigliato di mantenimento è quello efficace in fase acuta. Di seconda scelta risultano essere il bupropione e la mirtazapina, mentre i TCA sono sconsigliati. Gli effetti collaterali degli antidepressivi SSRI sono di particolare rilievo nei pazienti anziani. Tra questi si annoverano gli effetti cardiovascolari, tra i quali viene ricordato quello dose dipendente della venlafaxina, mentre al duloxetina sembra più sicura. Vengono poi ricordati il rischio di iponatriemia, spesso difficile da identificare, di EPS e di sanguinamento gastrointestinale sovrapponibile a quello dei FANS, ma senza effetti sinergici.
In conclusione vengono proposte come arre critiche della depressione dell'anziano, il riconoscimento di questo disturbo, la scelta del farmaco sulla base della tollerabilità e della sicurezza, la rilevanza della comorbidità somatica e l'importanza di un trattamento prolungato.
(a cura di W. Natta)

Conferenza didattica del prof. Alessandro Bertolino
L' impatto di varianti genetiche sul funzionamento dell' encefalo umano in vivo

Il prof. Bertolino si occupa da diversi anni della patogenesi e della fisopatologia della schizofrenia, utilizzando una serie di approcci genetici, neuropsicologici e di neuroimaging funzionale.
La sua presenza nell' ambito del congresso SIN è forse il miglior modo di mostrare come al di la' delle differenze storiche e metodologiche le neuroscienze psichiatriche e neurologiche abbiano preso a parlarsi e lo stiano facendo un linguaggio sempre piu' comune.
Il prof. Bertolino ha iniziato la sua conferenza didattica conducendo l' uditorio al di la' del modello classico della genetica mendeliana (un gene=una malattia) verso il modello plurigenico o complesso (molti polimorfismi modificano in maniera continua il rischio di manifestare un dato fenotipo patologico). Ha successivamente introdotto il concetto di fenotipo intermedio, ovvero una manifestazione della possibile alterazione o polimorfismo genetico che sia piu' vicina alla alterazione biologica-genetica rispetto alla osservazione clinica: ad esempio, l'efficienza di attivazione della corteccia prefrontale e' stata utilizzata come fenotipo intermedio di alcuni polimorfismi genici rispetto ai sintomi negativi o alle allucinazioni della schizofrenia.
Il gruppo del prof. Bertolino si è recentemente concentrato sullo studio dei polimorfismi del gene COMT e del gene del trasportatore della dopamina (DAT) e del loro effetto sulla attivazione della corteccia prefrontale e dell' ippocampo durante compiti di working memory. L' efficienza di attivazione dei networks della corteccia prefrontale e dell' ippocampo viene studiata utilizzando approcci di risonanza magnetica funzionale, che consentono di osservare come un determinato genotipo COMT causi un maggiore o minore reclutamento della corteccia frontale.
Il prof. Bertolino ha efficacemente trattato con semplicita' una serie di concetti complessi e di metodi di alta tecnologia. Le conclusioni del prof. Bertolino hanno riguardato numerosi aspetti della fisiopatologia della schizofrenia e della funzione del cervello normale. In particolare, il gruppo del prof. Bertolino, in collaborazione con il prof. Weinberger al NIH, con il prof. Papa dell' Universita' di Bari e del prof. Dalla Piccola (Istituto Mendel) ha dimostrato che i polimorfismi di due geni (COMT e DAT) siano in grado di giustificare fino al 16% della variabilita' osservata nella performance dei soggetti normali. Inoltre il prof. Bertolino ed i suoi collaboratori, utilizzando approcci di risonanza magnetica spettroscopica, ha dimostrato che nei pz con schizofrenia è possibile ritrovare piccole ma significative riduzioni nei livelli di N-acetil aspartato a livello della corteccia prefrontale e dell' ippocampo. Le indagini del prof. Bertolino si sono anche spinte fino a dimostrare la disfunzione nell' attivazione della corteccia prefrontale nei pazienti schizofrenici, e come queste possano essere modificate dal trattamento con antipsicotici. In ultimo, fondendo approcci farmaco-genetici e di imaging, il prof. Bertolino ha mostrato come la risposta ad antipsicotici osservata fosse correlata al genotipo COMT dei pazienti.
In ultima analisi, la relazione del prof. Bertolino ha mostrato gli ultimi sviluppi della psichiatria biologica e ha fornito un utile esempio di come l' applicazione delle tecnologie piu' avanzate possa offrire risposte di grande interesse sia per il neuroscienziato ma anche per lo psichiatra ed il neurologo clinico.
(a cura di Francesco Roselli)

ATTUALITA' IN TEMA DI EPILESSIA-IL RUOLO DEL PREGABALIN

Il simposio inizia con l'intervento del prof. L.M. Specchio dal titolo "Nuova classificazione delle Epilessie" che illustra un excursus delle varie classificazioni delle epilessie partendo da quello che è la definizione base di epilessia di cui ogni classificazione deve tener conto. La prima classificazione internazionale delle crisi risale al 1970, dalla quale si sono codificate quelle tuttora in uso del 1981, 1985 e 1989. La classificazione del 1981 si basa sulla sostanziale differenza tra Crisi Parziali e Crisi Generalizzate e tra Crisi Semplici e Crisi Complesse; quella proposta nel 1989 supera il concetto di crisi, introducendo il concetto di "Sindromi" e ancora, pur mantenendo la differenza tra "parziale" e "generalizzata", affianca il concetto di "idiopatiche" (manifestazioni non derivanti dal SNC) ,"sintomatiche" (derivanti da patologie del SNC) e "criptogenetiche"(dove si esclude la ideopaticità ma non si conferma la sintomaticità). Altri aspetti fondamentali che entrano a far parte della classificazione del 1989 sono i criteri della età di esordio (per cui vengono ad essere identificate Sindromi neonatali, infantili e giovanili) e della prognosi (distinguendo le sindromi benigne dalle severe).
Lo scopo di tale classificazione era quello di inquadrare un paziente in una particolare sindrome in modo da avere informazioni sulla sua prognosi. Tale classificazione però presentava alcuni limiti e critiche rappresentati dal non prevedere un substrato anatomico e fisiopatogenetico delle crisi, la differenza tra "crisi parziali semplici e complesse" basata sul coinvolgimento o meno dello stato di coscienza; il termine "Parziali e Generalizzate" che meglio si abbina al concetto di crisi piuttosto che di Sindrome; mancanza di differenza tra sindromi ben conosciute e quelle meno chiare; assenza dell'aspetto genetico.
Muovendo da tali limiti, le nuove proposte presentate, avevano lo scopo di creare un elenco di tipi di crisi che rappresentassero una identità diagnostica con una sua eziologia, una sua prognosi e una sua terapia. Necessaria era inoltre la differenziazione tra sindromi accertate e quelle ancora in studio, la standardizzazione terminologica e l'introduzione di nuovi concetti tra cui quelli della "Encefalopatia epilettica" e della "Malattia epilettica"; inoltre scompare la definizione di "Criptogenetiche", sostituito da "Sindromi epilettiche probabilmente sintomatiche".
Tale schema diagnostico, presentato nel 2001, si fondava su 5 assi: Fenomenologia, Tipo di crisi e fattori precipitanti, Tipo di Sindromi, Eziologia e Disabilità. L'ultimo tassello a questa proposta è rappresentato da uno studio molto recente che si pone il fine di individuare la possibilità di avere criteri obiettivi misurabili in modo da riconoscere le crisi epilettiche come entità diagnostiche uniche.
La seconda ed ultima parte del simposio tenuta dal dott. R. Michelucci, dal titolo "attualità in tema di epilessia e ruolo di pregabalin" pone l'attenzione sulla scelta e sui tempi di inizio del trattamento farmacologico partendo dall'importanza che ha per il neurologo, la classificazione delle epilessie.
L'inizio del trattamento è consigliato solo in presenza di una diagnosi certa, talora anche dopo una sola crisi, non in tutti i tipi di epilessia e con attenta valutazione di ogni singolo caso tenendo conto dei costi/benefici. A proposito del tipo di farmaco da utilizzare bisogna tener conto del suo utilizzo in monoterapia, in base al tipo di crisi/sindrome, in base all'eziologia/pattern EEG, alla sua tollerabilità e in base all'età, sesso e potenziale riproduttivo del paziente e considerandone la facilità d'uso, il costo e il suo meccanismo d'azione. Nel panorama dei farmaci antiepilettici di seconda generazione, l'ultimo a figurare, risulta il PREGABALIN, aminoacido di sintesi simile al GABA a rapido assorbimento intestinale (in meno di un'ora), con un'emivita di 6.3 ore, metabolismo epatico irrilevante ed eliminazione renale pressoché totale, con una biodisponibilità superiore al 90% (rispetto al 35-60% del gabapentin che è il suo target di confronto) ed in grado di superare la barriera emato-encefalica. Il suo meccanismo d'azione consiste nel legame con la subunità alfa2-delta tipo I dei canali del Calcio voltaggio dipendenti, cui consegue una inibizione del rilascio dei neurotrasmettitori eccitatori quali noradrenalina e glutammato, fornendo al farmaco un'azione anticonvulsivante, analgesica ed ansiolitica.
Il suo target d'azione in epilessia è rappresentato dalle"crisi focali secondariamente generalizzate". La sua efficacia è stata confermata da 4 studi randomizzati che hanno reclutato pazienti con tali caratteristiche epilettologiche, con una frequenza di almeno 6 crisi parziali nelle ultime sei settimane e resistenti ad altri farmaci antiepilettici e in cui il Pregabalin è stato utilizzato in terapia add-on: i risultati a lungo termine (12 mesi) hanno dimostrato una riduzione delle crisi nel 41% dei pazienti e una "seizure-free" di circa il 6%. Inoltre è emerso che sia l'efficacia che gli eventi avversi sono dose-correlati. In conclusione, ciò che attualmente è noto di questo nuovo farmaco è il suo preciso meccanismo d'azione, il profilo farmacocinetico favorevole, l'efficacia elevata nelle forme focali farmaco-resistenti, correlata alla dose; ciò che ancora è oscuro sono la correlazione tra meccanismo d'azione e spettro d'efficacia/tollerabilità e se il farmaco possa essere utilizzato in altre sindromi epilettiche.
(a cura di A.Superti e S.Ottaviano)

COCHRANE NEUROLOGICAL NETWORK
STENT E ANGIOPLASTICA DEI VASI EPIAORTICI:
CHE COSA SI SCRIVE (L'EVIDENZA) E CHE COSA SI FA (LA PRATICA CLINICA)

La sessione è stata aperta dal dott. Gasparotti, neurologo interventista, che ha illustrato la propria esperienza nel trattamento endovascolare della patologia dei vasi epiaortici.
L'indagine di primo livello, sia nel paziente sintomatico, che asintomatico è senza dubbio l'ultrasonografia (Eco Color Doppler), metodica non-invasiva facilmente ripetibile e largamente diffusa. Essa permette sia una quantificazione della velocità di flusso, sia una misurazione del grado di stenosi, nonché un'analisi accurata della parete arteriosa. ma questo tipo di approccio è limitato da un'elevata variabilità intra ed inter-osservatore, che rende molto difficile una standardizzazione della metodica. Recentemente si è assistito ad un progressiva sostituzione dell'angiografia digitale arteriosa (ADA) con indagini diagnostiche non invasive come l'angio-tomografia computerizzata (angio-TC), l'angio-risonanza magnetica (angio-RM) e l'angio-RM con contrasto (CE-MRA), oggi ampiamente utilizzate per una più accurata selezione dei pazienti candidati all'intervento. 
L'angio-TC con somministrazione a bolo di mezzo di contrasto intravenoso, consente un'accurata quantificazione del grado di stenosi ed una valutazione della componente calcifica e del core lipidico della placca ateromasica. È stata infatti dimostrata una relazione lineare fra diametro in millimetri della stenosi carotidea nelle scansioni assiali dell'angio- TC e percentuale di stenosi rilevabile con il metodo NASCET all'angiografia digitale. L'angio-RM dei tronchi sovraaortici e più recentemente la CE-MRA con somministrazione a bolo di gadolinio, che riduce notevolmente il tempo d'esame e consente uno studio completo dall'arco aortico al circolo intracranico, hanno il vantaggio di una più rapida visualizzazione e quantificazione della stenosi grazie all'assenza di artefatti da calcificazioni. La RM ha il vantaggio di poter integrare in un unico esame uno studio RM del parenchima cerebrale che consente di rilevare microlesioni infartuati più frequenti nei centri semiovali di pazienti con placca ateromasica carotidea "vulnerabile o instabile". L'abilità di caratterizzare la natura della placca può avere un maggiore valore predittivo per nuovi eventi vascolari acuti, rispetto alla sola misura del grado di restringimento del lume. Tuttavia l'Angio RM continua ad avere lo svantaggio di sovrastimare il grado di stenosi. L'ADA costituisce in ogni caso il gold standard nella pratica clinica per la quantificazione del grado di stenosi nel planning pre-operatorio.
Tra i diversi criteri di misurazione della stenosi il più utilizzato è il metodo "NASCET", che implica un corretto studio angiografico, che prevede almeno 2 proiezioni della biforcazione carotidea al fine di identificare correttamente il massimo grado di stenosi. 
Prima del trattamento endovascolare della stenosi carotidea i pazienti vengono selezionati. in base ai reperti dell'Eco-Color Doppler. Si tratta di pazienti:
o sintomatici, con stenosi >70% 
o asintomatici con stenosi >80%,
o ad elevato rischio chirurgico: ristenosi posttromboendoarterectomia, irradiazione del collo, occlusione della carotide controlaterale, condizioni anatomiche sfavorevoli in base ai reperti angiografici, malattie concomitanti che aumentano il rischio anestesiologico, (cardiopatia ischemica, broncopneumopatia cronica ostruttiva, diabete, ipertensione grave) . Scopo dello stenting carotideo è non solo ottenere il ripristino di un regolare calibro del lume vasale nel punto di massima stenosi, ma anche e soprattutto "intrappolare" la placca ateromasica e fornire un valido sistema di prevenzione del rilascio di frammenti embolici dalla superficie della placca stessa. 
I pazienti candidati al trattamento endovascolare vengono premedicati una settimana prima con clopidogrel 75 mg + aspirina 100 mg pro die. Nei pazienti in cui non è stata instaurata una corretta terapia antiaggregante, il giorno antecedente l'intervento viene somministrato un "carico di clopidogrel" (4 compresse, 300 mg, in associazione ad aspirina 100 mg). Il trattamento endovascolare viene eseguito in sala angiografica, attrezzata con angiografo biplano flat panel dotato di software dedicato per la quantificazione del grado di stenosi. I pazienti sono sottoposti a monitoraggio anestesiologico durante la procedura, con sedazione blanda in caso di scarsa collaborazione. Utilizzando la tecnica di Seldinger modificata, la procedura inizia con approccio femorale generalmente dx, introduttore 7F attraverso il quale un catetere 5F diagnostico viene sospinto in arco aortico con l'ausilio di una guida 0,35" per lo studio selettivo delle arterie carotidi comuni e delle vertebrali, quando necessario. Una volta confermata la stenosi e le indicazioni al trattamento il paziente viene sottoposto ad eparinizzazione sistemica con bolo di Eparina di 3000 U, generalmente sufficienti fino al termine della procedura; in caso di durata maggiore di un'ora vengono somministrate altre 1000 U. La procedura ha una durata media di quarantacinque minuti, al termine della quale il paziente viene generalmente inviato ad una terapia subintensiva (stroke unit) in cui il monitoraggio dei parametri vitali viene mantenuto fino al giorno successivo. 
I pazienti vengono dimessi dopo 48 ore, e mantenuti in doppia antiaggregazione con aspirina 100 mg e clopidogrel 75 mg pro die per 3 mesi. È stata ampiamente riportata in letteratura la possibilità di un'embolizzazione distale di microframmenti di placca durante la procedura, che può verificarsi soprattutto durante la dilatazione dello stent con palloncino, con conseguente ischemia cerebrale. Sino ad oggi non è ancora stato dimostrato il ruolo di questi sistemi nel prevenire le complicanze emboliche, a fronte di un maggior rischio di complicanze procedurali legate soprattutto all'aumento della durata dell'intervento, al rischio di dissecazione arteriosa, alla necessità di una predilatazione nelle stenosi più serrate, alla difficoltà di navigazione in vasi tortuosi. Negli ultimi anni sono tuttavia comparsi numerosi studi che hanno dimostrato come i sistemi di protezione favoriscano una riduzione dell'incidenza di eventi embolici durante lo stenting carotideo sebbene i benefici di un impiego routinario della protezione cerebrale non siano stati confermati da un livello 1 di evidenza, c'è un consenso generale da parte degli esperti che supporta la metodica.
Nel secondo intervento il dott.Ricci ha sottolineato che le procedure endovascolari sono state proposte come metodiche alternative alla endoarteriectomia carotidea (EAC), nella ragionevole ipotesi che l'efficacia sia sostanzialmente equivalente a quella della EAC, ma i rischi connessi alla procedura risultino inferiori. La conferma di questa ipotesi può naturalmente essere raggiunta sola attraverso adeguati studi clinici controllati randomizzati, meglio se considerati complessivamente all'interno di una revisione sistematica. Nella revisione sistematica Cochrane sono stati inclusi 5 studi per un totale di 1269 pazienti, di cui circa il 75% presentava una stenosi carotidea definita come sintomatica.
I risultati principali sono riassunti di seguito:
1. Morte o qualsiasi tipo di ictus a 30 giorni: OR per la procedura endovascolare 1,33 (0,86-2,04)
2. Morte o ictus disabilitante a 30 giorni: OR per la procedura endovascolare 1,22 (0,61-2,41)
3. Morte o ictus ad 1 anno: OR per la procedura endovascolare 1,01 (0,71-1,44)
4. Danno periprocedurale dei nervi cranici: OR per la procedura endovascolare 0,13 (0,06-0,25)
5. Morte, ictus o IMA a 30 giorni: OR per la procedura endovascolare 1,04 (0,69-1,57).
Si può concludere che al momento non esiste evidenza circa l' efficacia a lungo termine delle procedure di angioplastica e stenting, e che è assolutamente necessario, oltre che eticamente accettabile, proseguire con gli studi randomizzati controllati. Stanti i dati disponibili e le evidenze raccolte, non è indicato un cambio di tendenza dalla EAC verso le procedure endovascolari nella correzione chirurgica di scelta della stenosi carotidea. Sarebbe auspicabile che le procedure di stenting venissero praticate quanto più possibile all' interno di studi clinici controllati, volti anche a valutare i vantaggi (o svantaggi) dei vari metodi di protezione cerebrale. Nonostante questa sia la situazione dal punto di vista delle evidenze disponibili, le procedure endovascolari a livello carotidea vengono eseguite in Italia con sempre più elevata frequenza. In attesa che anche i centri italiani possano dare un valido contributo agli studi in corso, il gruppo SPREAD, in collaborazione ha elaborato un documento di consenso sulle procedure di stenting, che è in corso di pubblicazione Il documento contiene 11 raccomandazioni, di cui solo una di grado A secondo la metodologia adottata da SPREAD, che riporta sostanzialmente quanto ricordato poco sopra circa l'inopportunità di rimpiazzare sistematicamente la EAC con le procedure endovascolari. Una importante raccomandazione di grado B recita peraltro: "lo stenting carotideo, quando eseguito con livelli qualitativi procedurali adeguati, dovrebbe essere preferito alla EAC in presenza di comorbidità cardiache o vascolari severe, o in specifiche situazioni (pregressa radioterapia del collo, danno al nervo laringeo, situazione anatomica particolare, etc.)". Tra le comorbidità si segnalano una grave insufficienza ventricolare sinistra, un recente IMA (<4 settimane), l'angina instabile, l'occlusione carotidea controlaterale; la definizione di queste condizioni, ritenute ad alto rischio operatorio, non è peraltro basata su solide evidenze, ma su opinioni diffuse tra gli esperti. Quanto alla protezione cerebrale, la raccomandazione è di usarla, ma il grado della stessa è piuttosto basso . Infine, per quanto attiene alle stenosi asintomatiche, si segnala, attraverso un GPP (good practice point), come debba sempre essere presa in considerazione anche l'ipotesi di limitarsi alla migliore terapia medica, senza intervenire né chirurgicamente né per via endovascolare. Si raccomanda che tutte le decisioni vengano prese da un team multidisciplinare, comprendente un medico esperto in medicina dell'ictus, un chirurgo vascolare ed un medico esperto in procedure endovascolari.
La dott.ssa Motto ha riassunto i quesiti ancora aperti e i trial in corso. In particolare, mancano al momento risposte definitive circa l'efficacia a breve e soprattutto a lungo termine del trattamento endovascolare rispetto a quello chirurgico e medico, anche in relazione al tipo di stenosi (sintomatica e asintomatica) e alla sua severità. L'utilizzo o meno della protezione cerebrale durante la procedura di angioplastica e stenting è un altro importante quesito ancora aperto, così come il trattamento medico da associare alla procedura per prevenire complicanze acute. Infine, l'aspetto economico; certamente non trascurabile nella gestione delle risorse soprattutto per un intervento che sta divenendo sempre più comune. Alcune risposte ai quesiti aperti verranno dai risultati degli studi clinici recentemente conclusi e da quelli in corso.
Trial in corso:
o ACT 1 (Asymptomatic Carotid Stenosis, Stenting versus Endarterectomy Trial)
o CREST (Carotid Revascularization Endarterectomy vs Stent Trial)
o ICSS (CAVATAS-2) International Carotid Stenting Study
o SPACE (Stent-protected Percutaneous Angioplasty of the Carotid vs Endarterectomy)
o ACST-2
(a cura di Prontera Mariapia e Tinelli Angelica)

Resoconto della sezione neurologi in formazione dal titolo: "lo specializzando in neurologia come interfaccia tra formazione e lavoro: prospettive italiane ed europee".

Tra i numerosi interessanti spunti emersi da questa riunione riportiamo un breve riassunto degli interventi di: W. Grisold (Vienna): ha tracciato un dettagliato panorama della situazione delle scuole di specialità in neurologia in Europa. Emerge il problema di garantire un apprendimento completo di una disciplina articolata e che comprende ambiti molto diversi e non sempre contemporaneamente presenti nella stessa struttura assistenziale (neuropediatria, neurofisiopatologia, neurotraumatologia e neurologia d'urgenza in genere etc). Vi è inoltre la questione aperta del definire chiaramente le competenze per la gestione di alcune patologie di interesse neurologico, e le differenze riscontrabili in Europa (in alcuni paesi lo stroke è gestito da internisti, la demenza da psichiatri, etc). Ha indicato come una delle priorità comunitarie la attenta valutazione del numero di neurologi realmente necessari al servizio sanitario nei prossimi anni: la pianificazione del numero di ingressi in specialità dovrebbe essere basato su questa valutazione "pragmatica".
E'allarmante infatti il dato fornito recentemente dalla rivista di neurologia spagnola sull'altissimo numero di neospecialisti in neurologia sostanzialmente disoccupati in Spagna; all'opposto si può citare la favorevole situazione del Regno Unito, ove però il numero di neurologi in rapporto alla popolazione è enormemente più basso rispetto a quanto accade in tutti i paesi dell'area mediterranea. Ha infine sottolineato la preoccupante disomogeneità europea sui criteri valutativi dei medici specializzandi: in alcuni paesi non ci sono affatto esami di passaggio, in altri vi sono esami, ma con una percentuale molto variabile di respinti (da sostanzialmente zero a non trascurabile). Si potrebbe quindi ipotizzare il caso di uno specializzando pluri-respinto nel suo paese, ma che diviene facilmente ed "automaticamente" specialista in un paese vicino, ed è evidente che ciò dovrebbe rappresentare una anomalia da combattere.
Martina Di Simplicio (Presidentessa federspecializzandi): ha aggiornato l'uditorio sulla situazione legislativa dei medici specializzandi in Italia, ed in particolare su quali miglioramenti salariali e previdenziali (ed in generale di tutele del lavoro) la nuova normativa prevederebbe. Tale normativa è già stata approvata dal Parlamento, ma non è ancora stata resa operativa: inoltre sono in programma emendamenti che prevederebbero modifiche peggiorative al contratto, contro i quali la federspecializzandi si sta muovendo. Per un quadro completo e sempre aggiornato si rimanda al portale della federspecializzandi.
(A cura di: A. Leonardi)

GRUPPO DI STUDIO SULLA STIMOLAZIONE CEREBRALE PROFONDA

La riunione del gruppo si studio sulla stimolazione cerebrale profonda è stata dedicata ai potenziali nuovi campi di applicazione di tale metodologia e, nella seconda parte, all'approfondimento di un'altra metodica chirurgica che si sta affermando nel trattamento dei disturbi del movimento quale la stimolazione corticale extradurale.
L'incontro è stato aperto dall'intervento della dott.ssa Fronda (Clinica Neurochirurgia-San Giovanni Battista Molinette -Torino)che ha presentato una revisione dei risultati presentati in letteratura sull'impiego della stimolazione cerebrale profonda (DBS) nei disturbi ipercinetici con particolare riferimento a distonie primarie e secondarie, tremore essenziale, tremore nella sclerosi multipla, distonie tardive da neurolettici, coree, sindrome di Gilles de la Tourette. A proposito delle distonie la dott.ssa ha ricordato come la DBS sia stata approvata dalla Food and Drug Administration (FDA) per il trattamento di diverse forme di distonia; le indicazioni alla DBS nelle distonie sono le stesse previste per la pallidotomia (distonia primaria generalizzata, distonia della fase off nella m. di Parkinson, alcune forme di distonia secondaria).
Il target utilizzato è il globo pallido interno (GPi) la cui stimolazione sembra in grado di indurre la soppressione diretta dell'attività di diverse aree corticali motorie(area motoria primaria, area supplementare motoria, area del cingolo anteriore, nucleo lentiforme ipsilaterale) normalmente iperattive nelle distonie primarie e secondarie ( studio in doppio cieco con PET). In letteratura è riportata l'efficacia terapeutica della DBS per la distonia cervicale , la distonia primaria e secondaria (Tronnier e Fogel), l'emidistonia post-traumatica e la distonia generalizzata con mutazione del gene DYT1.
Nel caso del tremore essenziale il target ottimale per ottenere l'effetto terapeutico(controllo del tremore) sembra essere il nucleo ventrale intermedio del talamo (VIM). I primi risultati ottenuti con DBS del VIM in pazienti con tremore essenziale risalgono al 1991 (Benabid e coll.). Nel 2000 è stato pubblicato uno studio prospettico randomizzato in cui la DBS del VIM si è dimostrata altrettanto efficace nel controllo del tremore rispetto alla talamotomia ma comportando minori complicanze. In un terzo dei pazienti i benefici della stimolazione sembrano diminuire nel tempo, richiedendo la variazione dei parametri della stimolazione al fine di mantenere un miglior controllo del tremore. Risultati meno soddisfacenti si hanno, invece, nel tremore presentato dai pazienti affetti da sclerosi multipla (50-75%) che spesso presenta una componente atassica ed è difficilmente controllabile con la terapia medica. Sono riportate esperienze di trattamento pazienti con sclerosi multipla e tremore a carico degli arti superiori con stimolazione del nucleo ventrale orale posteriore del talamo (VOP) e della zona incerta (ZI) (Nandi et al) con risultati soddisfacenti in casi attentamente selezionati tramite test neurofisiologici, neurologici e neuropsicologici.
La DBS ad alta frequenza del GPi si è invece dimostrata un trattamento sicuro ed efficace per quei casi di distonie tardive da neurolettici irreversibili, resistenti alla sospensione della terapia neurolettica (Eltahawy e coll., Trottenberg e coll.). Alcune esperienze sono state fatte anche in pazienti con corea: in un unico caso di coreo-acantocitosi la DBS del VOP è risultata efficace nel controllo dei movimenti involontari (Barbaud e coll.), mentre scarsi risultati sono riportati in pazienti sottoposti a DBS GPi bilaterale; è riportato, inoltre il caso di un paziente affetto da Corea di Huntington nel quale la stimolazione cerebrale profonda del GPi si è rivelata efficace. Sono riportati in letteratura diversi casi di pazienti affetti da sindrome di Gilles de la Tourette refrattari alle comuni terapie e che hanno risposto al trattamento chirurgico di DBS: i target utilizzati sono stati il GPi (Gallagher e coll., Diederich e coll.), la parte mediale del talamo e la capsula interna anteriore (Flaherty e coll.) con risultati soddisfacenti in tutti i casi.
Il secondo intervento è stato affidato alla prof.ssa Ceravolo del Dipartimento di Neuroscienze dell'Università Politecnica delle Marche (Ancona), che ha esposto un'ampia ed interessante riflessione sulle esperienze e sulle problematiche legate all'impiego della DBS in campo psichiatrico. La DBS ha dato certamente nuovo impulso all'utilizzo di tecniche neurochirurgiche nella patologia psichiatrica, dopo il quasi totale abbandono delle tecniche classiche (leucotomia frontale, leucotomia limbica, capsulotomia anteriore etc) più invasive e distruttive nonché gravate da notevoli effetti collaterali clinici irreversibili. L'impiego della DBS andrebbe riservato a patologie psichiatriche altamente invalidanti, resistenti agli approcci terapeutici non invasivi, per le quali vi siano evidenze di efficacia della chirurgia lesionale stereotassica. Tali condizioni si verificano per due patologie quali il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) e la depressione maggiore (MDD) per le quali vi sono anche le prime evidenze di efficacia della DBS in casi nosograficamente definiti. Mancano evidenze di efficienza (persistenza del beneficio in assenza di rischi) della DBS nel trattamento di tali disturbi. Le prime osservazioni strutturate di una possibile efficacia della DBS nel condizionare pazienti con OCD si devono Nuttin e coll (1999)che realizzarono una stimolazione bilaterale della capsula interna in 4 pazienti (incrementati a 6 nel 2003), utilizzando le stesse coordinate stereotassiche impiegate per la capsulotomia (parametri di stimolazione-unipolare-: 4-10,5 V, 210 ?s, 100 Hz); le scale di misura utilizzate (Yale-Brown Obsessive CompulsiveScale, Y-BOCS e Global Assessment of Functioning,GAF) indicarono una risposta del 50%, in assenza di apprezzabili effetti collaterali. Nel 2003 è stato descritta (Anderson e Ahmed) l'effetto della DBS bilaterale della capsula interna utilizzando un target anteriore e laterale rispetto a quello descritto da Nuttin, riportando un completo successo in un caso di OCD, con stimolazione unipolare a 2V e durata e frequenza rispettivamente pari a 210 ?s e 100 Hz. Altre segnalazioni riguardano casi aneddotici di MDD con e senza disturbo ossessivo-compulsivo associato, nei quali la DBS del nucleo caudato ventrale, nel primo caso, e del peduncolo talamico inferiore, nel secondo, si sono rivelate efficaci nel migliorare i sintomi ansioso-depressivi, contenere le manifestazioni ossessive e incrementare il funzionamento sociale. Interessante l'osservazione di Jimenez e coll. (2005), circa la repentina modifica clinica osservata subito dopo l'inserimento dell'elettrodo nel target, (possibile effetto lesionale) e la persistenza a lungo termine dell'efficacia terapeutica anche dopo la sospensione della DBS per circa 12 mesi. 
La casistica più numerosa , con criteri di inclusione stringenti e metodiche di rilevazione dell'outcome sia cliniche sia neurofisiologiche, si deve a Mayberg e coll. che hanno eseguito la DBS bilaterale dell'area 25 di Brodmann (nella regione sub genu cinguli) in 6 soggetti affetti da MDD, con stimolazione unipolare (parametri: 4,0 V, 60 ?s e 130 Hz) e con una percentuale di responder a 6 mesi del 66%; la relazione di dipendenza dell'effetto dalla DBS appariva confermata dalla modulazione delle misure di depressione ottenibile mediante spegnimento o accensione del neurostimolatore, con rilevazione in doppio cieco. In oltre uno studio PET collaterale ha evidenziato in tali pazienti, in condizioni basali, un pattern di esaltato metabolismo nell'area 25 ed una parallela riduzione di flusso nelle aree prefrontali, premotorie, cingolo dorsale anteriore e insula anteriore rispetto a controlli sani non depressi e normalizzazione dei parametri di flusso nelle aree descritte dopo 3 e 6 mesi di DBS cronica. La prof.ssa Ceravoli ha quindi sottolineato quelli che restano i "nodi da sciogliere" in merito all'impiego della DBS nei disturbi psichiatrici, metodica che resta , al momento, confinata al contesto della sperimentazione piuttosto che della pratica clinica. Le conoscenze disponibili e l'esperienza maturata con il trattamento sintomatico dei disturbi del movimento indicano la necessità di definire: a) criteri di eleggibilità (caratteristiche dei pazienti, eventuali criteri predittivi del risultato, in analogia con la risposta alla LevoDopa per la DBS nella m. di Parkinson); b) sede di stimolazione (unico target, target specifici per diversi pattern semeiologici etc); c) misure di outcome clinico; d) persistenza del beneficio ed eventuali effetti collaterali in ambito cognitivo o comportamentale a lungo termine; e) meccanismo d'azione. La relatrice ha concluso il suo intervento sottolineando come l'elevata criticità dei presupposti teorici in attesa di definizione sottolinea l'esigenza di sperimentazioni cliniche condotte in centri selezionati, con afferenza multidisciplinare e con follow-up di durata sufficiente ad escludere fluttuazioni spontanee del disturbo affettivo; ha affermato, inoltre, che, in questa fase sperimentale, il supporto delle tecniche di indagine neurofisiologica e di neuroimaging dovrà essere considerato irrinunciabile al fine di documentare in maniera oggettiva modifiche metaboliche correlate alla neuromodulazione e potenzialmente predittive del risultato clinico.
Il prof. Priori (Dipartimento di Scienze Neurologiche, Università di Milano) ha aperto la seconda parte dell'incontro illustrando quale sia il razionale per limpiego della stimolazione cronica extra-durale della corteccia motoria (SCME) nei disordini del movimento. La validità dell'approccio terapeutico con SCME nei disordini del movimento è supportata da alcune osservazioni riguardanti il ruolo della corteccia motoria in tali disturbi: 1.la corteccia motoria è parte del circuito corteccia-gangli della base-talamo-corteccia, all'interno del quale la stimolazione di un qualsiasi punto è in grado di indurre variazioni funzionali in tutto il circuito stesso (cfr risposte a breve latenza in corteccia motoria a seguito di stimolazione elettrica dell'area subtalamica nell'uomo; eccitazione delle cellule subtalamiche umane, seguita da inibizione a seguito di stimolazione magnetica transcranica della corteccia motoria); 2. studi di "imaging" funzionale, in particolare studi di PET/SPECT, hanno dimostrato un'ipoattività a livello dell'area motoria supplementare e della corteccia frontale dorsolaterale nei pazienti con disordini del movimento. 3. interventi neurochirurgici ablativi a livello della corteccia motoria e lungo il decorso del tratto cortico-spinale hanno dimostrato che i disturbi ipercinetici del movimento (come il tremore) sono spesso mediati dal tratto cortico-spinale e possono trarre beneficio da un intervento sulle aree motorie. Da queste osservazioni si può ricavare che la modulazione dell'attività motoria corticale tramite SCME potrebbe indurre benefici clinici nei pazienti con MP o con altri disturbi del movimento.
Per comprendere le modalità di azione della SCME è fondamentale osservare che l'induzione di effetti terapeutici avviene mediante stimolazione ad intensità inferiori alla soglia per la risposta motoria e questo sembra indicare l'attivazione di neuroni corticali non piramidali come i neuroni stellati GABAergici e le cellule di Martinotti e di assoni intracorticali più piccoli rispetto alle grandi cellule piramidali e caratterizzati da una minore soglia di attivazione. La corteccia motoria contiene numerosi strati di assoni che decorrendo tangenzialmente alla superficie sono orientati in modo favorevole per un'attivazione da parte della SCME, inoltre, studi in vitro sulla corteccia visiva del ratto fanno supporre che gli assoni intracorticali, presentando caratteristiche di membrana che li rendono anche più eccitabili dei neuroni corticali non piramidali, siano più verosimilmente responsabili del meccanismo d'azione della stimolazione extradurale.
L'eccitazione di questi assoni intracorticali genera un'attivazione antidromica e ortodromica in grado di influenzare sia direttamente che indirettamente le strutture ad essi connesse. La SCME indurrebbe , quindi una potente inibizione delle le reti cellulari immediatamente sottostanti la corteccia, modulando localmente i segnali efferenti dalla corteccia motoria. L'importanza di tale modulazione locale deriva dalla posizione strategica della corteccia motoria nel circuito corteccia-gangli della base-corteccia, immediatamente a monte del midollo spinale se si pensa che la maggior parte delle alterazioni fisiopatologiche che generano disordini del movimento influenzano i circuiti midollari attraverso la corteccia motoria. La modulazione dell'attività corticale sembra, quindi, poter essere anche più efficace, rispetto alla DBS, nel miglioramento degli spasmi distonici e nel ripristino del normale tono motorio ed in grado di generare variazioni funzionali più ampie in tutto il sistema nervoso centrale (in particolare, può influenzare le proiezioni non piramidali corticofughe) inducendo un effetto terapeutico nei disordini del movimento attraverso la modulazione delle strutture sottocorticali.
Si ipotizzano anche effetti indiretti della SCME sulle aree motorie non primarie (premotoria e motoria supplementare) che, nella MP, sono ipoattive. Il prof Priori si è quindi soffermato su di un'altra importante considerazione per la comprensione dell'azione della SCME cioè che la stimolazione unilaterale induce benefici clinici bilaterali. Tale azione si può spiegare con i dati anatomici e fisiologici che mostrano chiaramente che un lato della corteccia motoria possiede afferenze ed efferenze che lo collegano bilateralmente sia con la corteccia sia con le strutture sotto-corticali. Il relatore ha poi sottolineato come nella SCME, a differenza che nella DBS, la comparsa di benefici clinici avvenga progressivamente alcuni giorni dopo l'inizio della stimolazione a fronte di variazioni elettrofisiologiche transitorie immediate. La spiegazione di tale fenomeno, ancora non chiara, potrebbe risiedere nell'incapacità della sola attivazione antidromica ed ortodromica delle connessioni della corteccia motoria a dare l'effetto terapeutico e della necessità di dell'innesco di meccanismi più lenti come, per esempio, la polarizzazione del tessuto nervoso, oppure cambiamenti plastici all'interno del sistema motorio o del sistema dei secondi messaggeri.
Il prof Priori ha quindi concluso il proprio intervento affermando che vi sono certamente i presupposti per studiare l'effetto della SCME nel trattamento dei disordini del movimento, ma che sono necessari ulteriori studi clinici controllati su casistiche consistenti per verificarne l'efficacia, le indicazioni ed ottimizzare la metodologia.
L'ultimo intervento della sessione è stato dedicato all'esperienza dell'impiego della SCME nei pazienti parkinsoniani dell'equipe del Gemelli di Roma presentata dal dott.Fasano. 
Il dott.Fasano ha presentato i dati ottenuti su 10 pazienti (3 uomini, 7 donne) affetti da malattia di Parkinson in fase avanzata, con buona risposta alla L-Dopa, che non presentavano disturbi cognitivi o psichiatrici gravi né altre gravi patologie internistiche, non sottoposti in passato ad altre procedure chirurgiche dei gangli della base e in cui la DBS fosse controindicata (limiti di età, deficit cognitivi e/o disturbi psichici non gravi, rifiuto da parte del paziente). Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad SCME unilaterale, dopo i primi 12 mesi, nei casi in cui è stato possibile si è passati alla stimolazione bilaterale. I contatti sono stati posizionati a cavallo del solco centrale, i parametri di stimolazione (unipolare) erano 120 mcsec, 80 Hz (frequenza alla quale era stata registrata su di un solo paziente una riduzione sensibile dell'attività corticale), 3.2-6V. Il follow-up è stato fatto a 12 e 24 mesi.
L'efficacia è stata valutata tramite diversi parametri tra cui UPDRS e PDQL ed è stata effettuata in condizioni di med-off e med-on. I dati ottenuti hanno dimostrato (solo in condizioni di med-off) un miglioramento dei punteggi all'UPDRS globale massimo a 3 mesi dall'intervento, con un decremento dello stesso a 6 e 12 mesi; ed una riduzione significativa di discinesie e distonie dolorose parallelamente alla riduzione dei LEDD; a 24 mesi (5 pazienti su 10) il beneficio sarebbe conservato. La stimolazione bilaterale si è dimostrata in grado di indurre un nuovo miglioramento dell' UPDRS. In particolare è stata segnalata l'efficacia anti-sintomatica della SCME sui sintomi assiali.
(a cura di C.dell'Aquila)

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