La prassi psicoanalitica consueta e quella modificata

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12 ottobre, 2012 - 12:57

Premessa

Vorrei visualizzare quei mutamenti che mi si sono imposti negli ultimi trentacinque anni di attività psicoanalitica. Se però intendo mettere brevemente in evidenza quegli scritti e quelle riflessioni sulla tecnica psicoanalitica che hanno introdotto o avviato tali mutamenti, voglio dire con ciò che alcuni impulsi metapsicologici hanno influenzato la mia tecnica in maniera determinante, nel gioco dialettico con i movimenti e gli eventi sociali. Per quanto riguarda il modo della ricezione e dell'elaborazione delle letture psicoanalitiche, devo premettere che, nell'accogliere proposte e riflessioni metapsicologiche, sono un amalgamatore. Voglio dire che, già durante la lettura, o in un arco di tempo assai breve, incorporo le tesi e le proposte di un autore, le amalgamo appunto, in maniera tale per cui posso sostenere soltanto la mia versione personale di quelle tesi.

Influenze metapsicologiche e sociali sul mio lavoro

Alcune tesi, scritti e proposte metapsicologiche sulle quali ritornerò. Innanzitutto, e sempre ancora di nuovo: Ricordare, ripetere e rielaborare di Sigmund Freud. Inoltre: L'analisi del carattere di Wilhelm Reich, gli stimoli per una teoria dell'adattamento dell'Io di Heinz Hartmann, la teoria dei rapporti oggettuali di Edith Jacobson, i lavori di Kurt Eissler sulle norme nella tecnica psicoanalitica e sulle loro conseguenze, la tecnica dello specchio e la teoria dell'empatia di Heinz Kohut, il confronto di Otto Kernberg con l'aggressione del cliente per mezzo della percezione della propria reazione di controtransfert, i materiali e le spiegazioni di Margaret Mahler sull'importanza e sulla funzione dei conflitti di separazione e d'individuazione nella vita dell'individuo, le immagini e i concetti di Donald Winnicott, come "holding environment", "good enough mothering", "transitional object" (In inglese nel testo - N.d.T.), le riflessioni di John Klauber sul "setting" psicoanalitico, e infine la teoria dei meccanismi di adattamento di Paul Parin, e le sue proposte per una "critica sociale nel processo d'interpretazione".

Oltre a questo elenco di pubblicazioni sulla tecnica che mi hanno influenzato, anche il momento storico ha esercitato pressione ed influenza sulla mia tecnica, in rapporto con i conflitti dei miei clienti:

- la fede nel progresso nell'ambito dell'economia, della tecnica e della scienza negli anni cinquanta e all'inizio degli anni sessanta;

- il rinvigorimento proprio di questo pensiero nella primavera del �68 e �69, che comportò ad esempio un mutamento di rapporto con le autorità e con le norme; il femminismo, per citare soltanto un altro dei movimenti riesplosi allora, che rivalutò concetti quali "castrazione", "invidia del pene", "primato della genitalità". ecc.;

- l'autogestione nel seminario di formazione psicoanalitica di Zurigo, sotto l'influenza della "piattaforma" e della cosiddetta "polemica del seminario di Zurigo" che ne risultò (1974-76), e le sue conseguenze, che si sono ripercosse anche nel nostro pensiero.

Osservazioni sugli influssi dei singoli scritti e tesi

Al principio era il fatto? E ad esso seguì il ricordo e a questo la parola? Una vecchia questione dei filosofi. Forse a Freud apparve così preziosa la sua prima scoperta, secondo cui ricordare la storia dei conflitti guarisce le sofferenze di origine psichica che mise il termine "ricordare" all'inizio del titolo di quel lavoro che poneva la prima pietra della teoria della tecnica psicoanalitica. Se si volesse tener conto del decorso del processo analitico, il lavoro dovrebbe chiamarsi "Ripetere, ricordare, rielaborare". Già con questa riflessione si accenna ad un movimento nella storia della mia tecnica psicoanalitica: io ritengo che il ripetere sia una delle vie maestre per accedere all'esplorazione di quella parte inconscia, e dunque rimasta priva di parola, di una vita umana. Questo è uno dei pilastri della tecnica psicoanalitica che continua sempre ad affascinarmi e ad interessarmi: spesso un conflitto viene ricordato soltanto se è stato sufficientemente messo in scena nella e sulla persona stessa, e nei suoi rapporti con il mondo, e rappresentato nel transfert. Combattere analiticamente questo fatto come mera "rappresentazione della resistenza" risulta in linea di massima controproducente per il processo psicoanalitico.

La tesi di Wilhelm Reich secondo cui i tratti e le particolarità del carattere di un individuo devono essere visti come il coagulo storico delle sue tendenze al conflitto e al transfert, ha apportato nuova luce in quegli ambiti, fino a quel momento nebulosi, dell'immagine dell'individuo degli anni cinquanta intesa in senso psicodinamico. L'analisi del carattere di Reich ha tolto la funzione di protezione e di difesa della "corazza" del carattere dalla zona d'ombra, emanando per me una forza eminentemente rivoluzionaria. Fino ad allora l'attenzione della psicoanalisi si era rivolta principalmente a ciò che le persone rivelavano, di giorno nel loro comportamento "mancato", nei loro atti "mancati", e di notte nei loro sogni, a proposito delle loro tendenze al conflitto e dei loro modelli di superamento del conflitto. Con l'intuizione di Reich la funzione psicodinamica del carattere emerse in maniera affascinante: come armatura, come corazza protettiva e, allo stesso tempo, inibitrice, poteva essere visto in un'ottica fino a quel momento sconosciuta. Sigmund Freud (1904), in una visione descritta con un pathos da Vecchio Testamento, sembrò essersi avvicinato ancora di più alla sua realizzazione:

Chi ha occhi per vedere e orecchi per intendere si convince che ai mortali non è possibile celare nessun segreto. Chi tace con le labbra, chiacchiera con la punta delle dita, si tradisce attraverso tutti i pori. Perciò il compito di rendere coscienti le cose più nascoste dell'anima è perfettamente realizzabile. (Frammento da un'analisi d'isteria. Caso clinico di Dora. Opere, 4, p. 364, Torino: Boringhieri).

Con Reich si poté sperare nuovamente di visualizzare nell'ottica analizzante l'intera personalità, strutturata dalla storia dei suoi conflitti. Ogni particolarità del carattere aveva, in questo sistema, una funzione da rispettare, che non poteva essere ignorata, a meno che non si volessero tralasciare degli importanti "focolai di resistenza" della nevrosi reazionaria nemica della libertà, sventando così attraverso un mutamento strutturale, un'autentica liberazione: un'enorme utopia. Ma una richiesta ideale altrettanto grandiosa e non di rado paralizzante. Con le tesi di Wilhelm Reich sull'analisi del carattere si accrebbe la speranza di poter trasformare l'elemento nevrotico non soltanto in "infelicità comune"; alcune delle sue tesi sulla sessualità e sulla politica avevano l'obiettivo dichiarato di mettere in evidenza le condizioni sociali della nevrosi, che fino a quel momento non erano conosciute. Si accrebbe così la mia speranza in una migliore comprensione dell'uomo in quanto animale politico (zoón politicón), che vive sempre in una situazione politica. La fantasia (di onnipotenza) secondo cui questo nostro mondo avrebbe potuto progredire verso la pace e la libertà mediante i progressi della tecnica psicoanalitica, se tutti i potenti si fossero sottoposti ad una psicoanalisi presso analisti come noi, veniva manifestata sì per gioco, e con una certa autoironia, ma non senza un granello di speranza nelle possibilità sopite nella nostra scienza. La mia personale immagine ideale di progresso - nettamente separata dal resto della mia immagine del mondo - che cioè attraverso mutamenti strutturali della situazione individuale, interiore, si potesse mutare anche la situazione esterna, rimase una delle molle pulsionali del mio fare e non fare in psicoanalisi.

Quanto fosse fondata la mia convinzione che il mondo dovesse essere cambiato, lo dimostra secondo me questo esempio: anche da parte delle redazioni di grandi riviste specializzate di psicologia del profondo, che avevano in parte le redini del potere, le reazioni di controtransfert dell'analista venivano definite, in conformità alle regole del gioco vigenti a quell'epoca nella comunità psicoanalitica, come i suoi panni sporchi. La rappresentazione di un caso, in cui veniva accuratamente descritta la reazione di controtransfert dell'analista, venne squalificata come pubblicazione scientifica. Ciò era causato chiaramente dalla descrizione di ciò che succede nel campo concreto di tensione tra i due partner del contratto psicoanalitico, con le loro rispettive tendenze al conflitto e al transfert (e dunque anche al controtransfert). La squalifica morale serviva a camuffare una di quelle norme che, a quell'epoca, godevano di grande considerazione nell'impresa scientifica della psicoanalisi: tu devi mistificare il processo psicoanalitico. Avevo già allora assorbito "osmoticamente", attraverso i pori, il concetto di parametro, spesso emerso nelle discussioni casistiche molto prima di incontrare il lavoro di K.R. Eissler (1953). Da una parte, credevo che una tecnica standard, unitaria e normativa, dovesse essere l'obiettivo della nostra scienza, e speravo naturalmente che l'avrei appresa. Ciò mi espose però - come credo che successe allora anche ad altri psicoanalisti - ad un'enorme tentazione: identificarmi con piacere nell'ideologia dello psicoanalista in quanto custode del sapere sui "rapporti umani".

La seconda ondata metapsicologica giunse dalla psicologia dell'Io. Essa mi indusse, innanzitutto, ad un ampliamento e ad un'accentuazione dell'ottica psicoanalitica, dal momento che chi diceva psicologia dell'Io doveva intendere con ciò soprattutto una psicologia ampliata e approfondita dei rapporti oggettuali. A quanto ricordo, la traccia più persistente di quest'ondata nel mio rapporto con il "materiale analitico" l'ha lasciata il lavoro di Heinz Hartmann (1939) sulla psicologia dell'Io e sul problema dell'adattamento, oltre alla psicologia del Sé e del suo mondo oggettuale di Edith Jacobson (1964); per quello che credevo d'aver capito della psicologia dell'Io, il suo obiettivo era l'adattamento ottimale. L'esigenza di un equilibrio interiore e di una buona considerazione di sé dovevano essere collegati ad una percezione e ad una valutazione realistica, per quanto possibile non offuscata da coazioni a ripetere, delle situazioni esterne "oggettive" e dei rapporti (di potere). Per esempio: valutare il traffico stradale così da arrivare in maniera ottimale dall'altro lato della strada, dove si trova l'oggetto dei miei desideri ardentemente bramato. Per "adattamento alle richieste sociali" intendo, ancora oggi, la percezione critica del mondo e il confronto con esso, non l'identificazione sottomessa. Il significativo modello di nascita psichica dell'uomo di Margaret Mahler e, per me, uno dei contributi più proficui alla psicologia dell'Io. Esso mi ammonisce a non perdere di vista l'aspetto del ritorno perpetuo dei conflitti collegati alle fasi di individuazione e separazione nel distacco dai vecchi modelli di rapporto il che conduce, allo stesso tempo, ad un maggiore campo d'azione nella vita di un individuo.

L'atteggiamento di Donald Winnicott e John Klauber di rispetto dell'intera personalità dell'altro, mi dà l'impressione che qui il campo di rapporto e di tensione si trovi al centro dell'interesse analitico, per cui l'intera offerta del cliente viene percepita e rispettata come un'opera d'arte altamente condensata. La proposta che una nevrosi, di qualunque genere essa sia, debba essere considerata come un'opera d'arte che rappresenta scenicamente l'intera storia delle tendenze al conflitto e al transfert, sotto la spinta della coazione a ripetere, mi piacque molto. Mi sembrò che con questo atteggiamento diventasse possibile evidenziare e comprendere le strutture e le disposizioni difensive paralizzanti del partner analitico.

La funzione della luce che brilla negli occhi della madre, messa in evidenza da Heinz Kohut mi apparve immediatamente chiara. Se la situazione interiore è strutturata in modo da presentare delle carenze narcisistiche, è attraverso il "rispecchiamento" che spesso si può mobilitare un Io sufficientemente integro e in grado di sostenere un confronto. Le riflessioni di Kohut rafforzarono la mia comprensione della funzione degli investimenti non oggettuali per il benessere dell'individuo in tutti i rapporti umani. Determinante per me non è scoprire se qualcuno si serve della sua persona come oggetto parziale, bensì fino a che punto ciò accada (ad esempio, uno psicoanalista si serve, talvolta e temporaneamente, di un collega in colloqui di controllo, come se questi fosse il suo oggetto parziale). Quando crolla il mondo dei rappresentanti interiori perché i sistemi di valori dell'infanzia hanno perso credibilità, si cercano oggetti parziali per ristabilire o rafforzare la coerenza interiore. Analogamente, empatia significa per me quello strumento di percezione in cui fluttuano essenzialmente componenti di modi di percezione in cui fluttuano essenzialmente componenti di modi di percezione e d'investimento precedenti, non verbali. René Spitz l'ha descritta con il concetto di "percezione cenestesica", che nella socializzazione finita/infinita del ruolo della donna viene permessa, richiesta e favorita più di quanto non succeda di solito per l'uomo. La proposta di Otto Kernberg di differenziare la reazione di controtransfert dell'analista dalla sua propria tendenza al transfert ed al conflitto, e di impiegarla maggiormente per la comprensione del campo psicoanalitico di tensione, invece di reprimerla in nome di una "coscienziosità" pseudoscientifica, confermò la mia necessità di completare le tesi di Kohut sulla funzione di specchio dell'analista con integrazioni e correzioni indispensabili.

Non è un caso che Fritz Morgenthaler (1978) abbia scritto Tecnica: La dialettica della prassi psicoanalitica negli stessi anni in cui noi lavoravamo al nostro modello teorico e metateorico. Facevamo parte dello stesso gruppo, che aveva preso le distanze dalle idee e dai metodi di formazione della "Società di Psicoanalisi", e discutevamo questioni analoghe, (quali ad es. lo sfondo ideologico della metapsicologia del primato della "genitalità matura"). Senza che avessimo mai direttamente parlato del suo o del nostro lavoro, il suo libro rappresentava il pendant che andava a integrare il nostro documento, in cui ci eravamo consapevolmente astenuti da ogni casistica. Quando lesse il nostro manoscritto, egli disse che vedeva il nostro modello come un'integrazione teorico-metateorica del suo lavoro.

Delle teorie di Paul Parin sui "meccanismi di adattamento" con cui si reagisce alle offerte socio-economiche, alle seduzioni e ai ricatti della società, mi hanno attirato soprattutto le sue tesi sull'"identificazione con l'ideologia dei ruoli sociali". Ciò anche in relazione al mio tentativo di cercare di restare consapevole della mia tendenza personale all'identificazione con il ruolo dell'analista come guru psicologico. Accanto al progetto di una teoria psicoanalitica dei "meccanismi di adattamento", le tesi di Parin sulla "critica sociale nel processo d'interpretazione" e sulla "contraddizione nel soggetto" promuovevano una più chiara concettualizzazione di ciò che era aleggiato nel nostro piccolo gruppo, ideologicamente omogeneo, di psicoanalisti e, negli anni cinquanta, come una delle linee direttive della tecnica psicoanalitica critica: mettere l'analizzando a confronto con il dato di fatto che la sua sofferenza è una conseguenza dell'adattamento, ostile all'Io, a ideali e tabù del mondo dell'infanzia e di quello successivo. Un simile adattamento identificatorio, dettato da forze ostili alle pulsioni e all'emancipazione, favorisce l'assoggettamento e impedisce all'Io di utilizzare l'adattamento per il proprio benessere interiore.

Poscritto

Se tento di rispondere in maniera riassuntiva alla vostra domanda sulle "modifiche tecniche più importanti", voglio dire con ciò che l'atteggiamento esteriore/interiore e l'ideologia inconscia, che sottende questo atteggiamento, improntano in materia decisiva anche "l'atteggiamento psicoanalitico" dell'analista. Mi domando però anche quali attività siano rimaste essenzialmente identiche nella mia tecnica. Dopo aver studiato psicologia (e filosofia), sociologia e pedagogia terapeutica, tra il 1951 ed il 1970 praticai anche analisi con bambini. Successivamente mi limitai invece al lavoro con gli adulti. All'inizio ricercavo appassionatamente criteri di orientamento, "regole scientifiche", perché uno dei miei obiettivi principali era essere riconosciuto (soprattutto dalla Società svizzera di psicoanalisi) come un "buon" psicoanalista. Da allora la mia tranquillità di fronte alle richieste relative al Super-io della psicoanalisi istituzionalizzata è aumentata. Di conseguenza posso mantenere anche una maggiore tranquillità di fronte alle mie idealizzazioni e tabù interiorizzati.

Vorrei definire un'altra attività come tendenza permanente. Mi riferisco a quella tendenza che ha a che fare con la questione della successione psicologicamente giusta dei termini nel titolo del lavoro di Freud citato all'inizio. Sono tuttora ugualmente affascinato da quella considerazione che vede in ciò che un uomo è - e nel modo in cui egli realizza ciò che è - la sua storia coagulata, e tento di comprendere questa storia attraverso ciò che quest'uomo fa (in che modo aggira i suoi conflitti). In questo contesto la psicoanalisi con i bambini mi ha insegnato che gli adulti non hanno perso, ma soltanto trasferito la modalità infantile di messa in scena. I bambini danno spesso al terapeuta delle indicazioni di regia ("Adesso devi fare il ladro, e devi arrabbiarti molto perché non trovi il mio tesoro"). Anche l'adulto mette in scena come un regista la storia della sua personalità in tutti i suoi rapporti interumani, e quindi anche nel setting psicoanalitico. "Chi ha occhi per vedere ed orecchi per intendere" veda e intenda...

 

*Elaborazione redazionale di Judith Valk Zurigo; traduzione di Maria Noemi Plastino.

 

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