GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
di Luca Ribolini

Luglio 2014 I - Ulisse e Telemaco, miti, amore, lavoro

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12 luglio, 2014 - 09:46
di Luca Ribolini
REPUBBLICA CECA, NON SOLO PRAGA: IMPERDIBILE PRIBOR E LA CASA-MUSEO DI SIGMUND FREUD. Dal modern jazz a Freud, attraversando il cuore appassionato della Repubblica Ceca, tra presente e passato
di Isabella Pascucci, leggo.it, 1 luglio 2014
Il viaggio inizia dal centro pulsante di Praga che, da romantica e magica città di ponti e antichi manieri, si trasforma in capitale della musica, ospitando la prestigiosa kermesse dell’AghaRTA Prague Jazz Festival (www.agharta.cz). Quest’anno, la versione estiva dell’evento si svolge tra il 21 e il 24 luglio, con tre esplosivi appuntamenti che vedranno protagonisti Mark Whitfield & Amc Trio e la Poogie Bell Band Suga Top. Insomma, un’occasione in più per visitare questa regina delle capitali europee, scoprendo la magia di angoli e atmosfere, dai vicoli della Città vecchia a piazza San Venceslao, dall’Orologio astronomico al Castello boemo, dal Ponte San Carlo alla visionaria e modernissima Casa danzante.
Ma quando la voce sinuosa dei clarinetti e quella fragorosa di trombe e batterie si placa, arriva il momento di salire su un treno e, dopo tre ore e mezzo di viaggio, tuffarsi in una dimensione fuori dal tempo, immersi nei silenzi di una natura incantata. La stazione a cui scendere è quella di Príbor (www.pribor.eu), gioiello della Moravia-Slesia e – dettaglio non da poco – città natale di Sigmund Freud. Qui, conservata come un tesoro, è la Casa Museo in cui il padre della Psicoanalisi nacque nel 1856 (www.freudmuseum.cz) e la Memorial Hall Museum a lui dedicata, annessa al Museo Novojicínska che racconta la storia cittadina, entrambi ospitati nello splendido ex Monastero Piaristicky, edificato nel 1694. Imperdibile anche l’escursione al vicino Castello Hukvaldy, una delle maggiori fortificazioni della Moravia, in un matrimonio mozzafiato tra natura e storia. Per alloggiare, una garanzia di eleganza e confort è quella dell’Hotel e Ristorante U Freuda (www.hotelufreuda.cz). E poi, quale luogo migliore per i propri sogni?
http://www.leggo.it/NEWS/ESTERI/viaggi_repubblica_ceca_praga_pribor_casa_museo_freud/notizie/773905.shtml

NARRAZIONE E PSICOANALISI. Il racconto è il cuore di tutte le psicoterapie, che sono definite per questo terapie della parola. Lo scopo è quello di costruire, grazie allo scambio con l’analista, una teoria di sé e del mondo più partecipata e comprensibile

di Paola Emilia Cicerone, Mente e cervello, luglio 2014*
Qualunque dolore può essere sopportato, se si traduce in una storia»: la citazione è della scrittrice danese Karen Blixen, che di storie e di dolore se ne intendeva. E ben riassume il ruolo della narrazione nella terapia psicoanalitica. «Un processo che permette di trasformare in immagini il non dicibile, inserendolo in un contesto che lo renda meno minaccioso», spiega lo psicoanalista Antonino Ferro, presidente della Società psicoanalitica italiana.
In questo senso la stanza dell’analisi diventa «il luogo delle narrazioni»: «Immaginiamo che il paziente arrivi in seduta con un calamaio pieno d’inchiostro che rovescia, o a volte getta contro l’analista. E che l’analisi serva a riorganizzare questo materiale indistinto in una narrazione costruita dai due», propone Ferro. «Non si tratta di una mente che indaga su un’altra, ma di uno scambio». Una «storia scritta a quattro mani», come la definisce Mario Marinetti, presidente del Centro milanese di psicoanalisi, in cui l’analista non si limita a decifrare quanto detto dal paziente ma lo trasforma insieme a lui.
In realtà la narrazione è un punto centrale di tutte le psicoterapie, che sono definite appunto come terapie della parola. O talking cure. C’era una volta.
Gli studi di impostazione psicoanalitica danno una lettura simbolica dei temi e dei personaggi trattati nelle fiabe, sino a farne degli archetipi.
A usare per la prima volta questo termine per definire la – nascente – psicoanalisi è una delle prime pazienti di Freud, Bertha Pappenheim, passata alla storia come Anna 0. e in seguito diventata sociologa femminista», ricorda Clara Mucci, psicoterapeuta e docente all’Università di Chieti.

Dare un senso alla storia
La psicoanalisi nasce dai tentativi di Freud di dare un senso alle storie delle pazienti isteriche, che arrivavano da lui con sintomi non riconducibili a cause organiche. E solo di queste donne Freud ha scritto, «anche se aveva in cura un uomo con lo stesso tipo di disturbi, di cui non scrisse, forse perché gli era difficile prendere le distanze da una vicenda troppo simile alla sua», osserva Mucci. «La psicoanalisi nasce dal racconto di queste storie femminili, da questi corpi repressi che parlano attraverso i sintomi. È lo stesso Freud a descrivere come i sintomi spariscano via via che le pazienti ritrovano la parola ricostruendo un tassello della loro storia: tra narrazione e guarigione, in questa fase, c’è una relazione che non si è mai più ripetuta».
Freud era cosciente dell’importanza del linguaggio per il suo lavoro: dopo aver assimilato il lavoro dell’analista a quello dell’archeologo ha indicato come strumenti necessari per l’analisi Bildersprache e Fanta-siearbeitung, linguaggio figurativo e lavoro di fantasia: «La componente metaforica e inconscia, che esiste nel sogno come nella letteratura, ma anche quello che rende raccontabile il sogno», osserva Mucci. «Anche se tra letteratura e narrazione in psicoanalisi ci sono differenze: la letteratura ha una componente metaforica e inconscia, ma nasce per comunicare, mentre il sogno nasconde, e il lavoro dell’analisi consiste proprio nel suo progressivo disvelamento».
Un punto centrale, che le varie scuole interpretano in modi diversi: forse sono gli analisti di formazione lacaniana a mettere più di altri la parola al centro del loro lavoro : «Per Lacan, il nostro modo di parlare è anche il nostro modo di essere nel mondo», spiega Mucci. Anche per Jung il tema della narrazione è centrale, «ma Jung ha un approccio diverso da Freud, dal punto di vista umano prima che teorico», spiega Marco Garzonio, presidente del Centro italiano di psicologia analitica. Il grande analista svizzero ha raccontato le fasi della sua evoluzione personale nel Libro Rosso, «elaborato tra il 1913 e il 1930 e pubblicato nel 2010, alla maniera di un antico codice pergamenaceo scritto in caratteri gotici, illustrato e con capilettera miniati. Che si collega in qualche modo alla sua tradizione familiare: sia il nonno materno che il padre di Jung erano pastori protestanti», ricorda Garzonio. «Nel Libro Rosso l’analista racconta la propria vicenda personale, facendone il paradigma delle successive teorie».
Ricostruendo quello che mi accade, scrive in sostanza Jung, mi sono reso conto che in quell’epoca – gli anni dello scoppio della prima guerra mondiale – non ero io, ma il mondo stesso a essere a rischio psicosi. Mi sono curato raccontando questa storia, e propongo questo metodo per aiutare altri a prendere coscienza. «Jung si propone come “guaritore ferito”, mette l’accento sugli aspetti creativi della malattia spiegandoli con la propria esperienza personale», sottolinea Garzonio. Ed è sulla base di questa esperienza che propone la narrazione come metodo di cura: «Non come strumento concettuale, ma come riassunto di un’esperienza di vita».
Una ricostruzione che nella pratica terapeutica nasce dal dialogo. «È una storia che si scrive a due», osserva l’analista. «La differenza principale tra psicoterapia a orientamento analitico e altre forme di terapia è che il terapeuta, pur con tutte le precauzioni, deve avere la consapevolezza che entra nella stanza di analisi in un modo ed esce in un altro. Se non si riconosce in questa prospettiva, deve completare il suo percorso di formazione: non possiamo, come diceva Jung, portare gli altri oltre al punto in cui siamo arrivati noi stessi».

Dal basso verso l’alto
Anche se negli anni il modo di usarla si è complicato e ramificato, la tecnica narrativa resta la base di qualsiasi metodo clinico di tipo psicoanalitico: «L’analista porta a termine un brano della costruzione, lo comunica all’analizzato affinché produca su di lui i suoi effetti, costruisce un altro brano a partire dal nuovo materiale che affluisce e procede poi con questo allo stesso modo, in alternanza fino alla fine», sintetizza Mucci citando Freud. Ed è una narrazione che, come in letteratura, può ispirarsi a generi narrativi diversi, «a seconda dello stile di ascolto dell’analista, del paziente e del momento che questi sta attraversando», ricorda Ferro. «Se per esempio il tema della seduta è dubbio/paura/angoscia, possiamo esprimerlo come noir, come giallo, come memoriale intimista».

Le storie
Sabbia asciutta e bagnata, pupazzi e altri oggetti sono gli ingredienti della Sand Play Therapy, una delle possibili forme di «narrazione» in analisi, sviluppata in ambito junghiano. «Jung afferma che chi possiede le immagini possiede metà del mondo, anche il Libro rosso è ricco di disegni, e in seduta si possono usare il disegno o il gioco, il “fare come se” dei bambini», spiega Marco Garzonio. Ma il disegno è bidimensionale, mentre nella sabbia c’è la materia plasmabile, la tridimensionalità accentuata dalla varietà di materiali e oggetti disponibili che permettono di ricostruire forme e scenari.
«La sabbia, in particolare, è per definizione un elemento incoerente che acquista coerenza attraverso il lavoro per esprimere un’immagine, una rappresentazione», prosegue Garzonio. Davanti alla cassetta il paziente si mette in gioco e si rappresenta. E se nella narrazione verbale può esserci reticenza, qui c’è l’oggettività dell’immagine a rappresentare il conflitto psichico.
Per i padri della psicoanalisi l’analista è, almeno in teoria, uno schermo bianco sui cui il paziente proietta il proprio transfert, ma nel corso degli anni la relazione tra analista e paziente cresce di importanza. «È la cosiddetta svolta relazionale, che nasce soprattutto da analisti statunitensi», spiega Franco Del Corno, psicologo e psicoterapeuta, presidente per l’Italia della Society for Psychotherapy Research. «Il racconto non è più visto come un messaggio che arriva da un emittente a un ricevente, e che l’analista è chiamato a commentare come diceva Foucault, ma come percorso di “co-costruzione”. Un concetto centrale di cui aveva già parlavo Wilfred Bion, che non vede più l’analista come esterno alla storia ma come interno». Evidenziando, tra l’altro, la differenza tra la comunicazione psicoanalitica e altre modalità comunicative che prevedono un emittente e un destinatario.
«Nella seduta analitica ci sono due persone che parlano, e questo dà alla narrazione caratteristiche precise», prosegue Del Corno. «Siamo passati da una comunicazione dal basso verso l’alto, dall’inconscio al conscio, dall’inconsapevole al consapevole, a una comunicazione che potremmo definire a spirale, in cui l’analista aiuta il paziente a elaborare in modo consapevole i contenuti proposti, per cercare narrazioni alternative a quelle che sono in effetti il nocciolo del suo disagio».
Già negli anni settanta Franco Fornari sosteneva che l’analista si trova di fronte a una narrazione in cui il paziente esprime la propria teoria su se stesso e sul mondo – da lui definita «teoria ideologica» – che è alla base della sua sofferenza: «Il lavoro terapeutico consiste nel ristrutturare questa teoria portandola a una condivisibilità intersoggettiva», spiega Del Corno. In questo modo la storia sta al centro del processo di guarigione: «L’obiettivo è aiutare il paziente a costruire una teoria di sé e del mondo più partecipata e più comprensibile, a raccontare

Inconscio collettivo
Secondo Jung anche le favole, proprio come i sogni, i miti e le credenze, sono parte dell’inconscio collettivo, e per la loro natura di immagini primordiali appartengono all’umanità intera.
un racconto che gli altri possano condividere». Un processo possibile anche con pazienti gravi: «Ricordo l’emozione di far notare a un paziente, dopo anni di terapia, che mi stava raccontando una storia comprensibile, diversa dai deliri del passato», racconta.
In realtà lo stesso Freud sottolineava il carattere biunivoco e collaborativo del lavoro clinico: «Oggi gli analisti usano la propria capacità interpretativa per accrescere quella del paziente su se stesso. Un processo che si apprende sulla propria pelle, attraverso l’analisi personale e le supervisioni», spiega lo psicoanalista Giovanni Foresti del Centro milanese di psicoanalisi. Non a caso la funzione dell’analista è stata paragonata a quella del suggeritore a teatro: «Gli attori sulla scena psicoanalitica non conoscono a menadito il testo che interpretano, in parte inconscio e sempre in divenire, e hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a sviluppare il dialogo con l’altro», osserva Foresti. «Il diffìcile è valorizzare il paziente senza alterare il rapporto tra i due. Che vede necessariamente l’analista in una posizione di autorevolezza, indispensabile per legittimare la crescita del paziente».

Oltre le parole
Negli ultimi anni si è cominciato a valutare l’efficacia della narrazione in psicoterapia analizzandone i diversi elementi, dalla struttura linguistica alle sequenze di conversazione, alle scelte lessicali: «Un capitolo particolarmente complesso – osserva Del Corno – anche per la difficoltà, specie all’interno del mondo psicoanalitico, di analizzare con gli strumenti della ricerca il proprio lavoro, un problema che oggi in parte si sta superando».
Come avviene nel teatro, anche in analisi la narrazione non è fatta solo di parole. Altrettanta importanza hanno le «note a margine», i gesti, i silenzi. «L’elemento corporeo ha un peso, sin dai primi contatti: si presta attenzione al tono di voce, alle interazioni in occasione dell’incontro, al modo in cui il paziente saluta dando o no la mano», spiega Garzonio. «D’altronde tutti noi, anche incontrando un amico, raccogliamo elementi che ci aiutano a interpretare quanto sta accadendo».
E se nel classico setting freudiano l’analista rimane fuori dal campo visivo del paziente, i segnali da interpretare sono comunque molti. «Il corpo del paziente si esprime con il tono di voce, i silenzi, il respiro, l’irrequietezza», osserva Marinetti. «Senza dimenticare gli effetti del paziente sul corpo dell’analista.

L’etica della verità
«Quando parliamo di eventi drammatici come la Shoah, il genocidio degli ebrei, l’accertamento della verità storica non ha solo un valore etico, ma serve ai pazienti a ricostruire la propria storia e l’impatto che questa ha avuto sulla loro vita», ricorda Clara Mucci. «E a volte può aiutare a curare traumi intergenerazionali, che riguardano i familiari e i discendenti della vittima». Nella terapia con vittime di traumi gravissimi, come l’olocausto ma anche l’abuso e l’incesto, la riflessione sull’importanza della verità si fa più stringente e dolorosa: «Il terapeuta deve accogliere il racconto del dolore restituendogli un significato e inserendolo in un ordine storico e reale, anche quando significa aiutare la vittima ad affrontare realtà difficili da fronteggiare, come accade
a volte a chi è stato vittima di abuso o incesto», prosegue Mucci. Ovviamente quella che raccontano i pazienti è spesso la «loro» verità: «Dori Laub, psicoanalista sopravvissuto all’olocausto, che ha scritto pagine fondamentali sul recupero della memoria traumatica, racconta come una paziente sopravvissuta ad Auschwitz avesse amplificato la storia di una rivolta avvenuta nel lager», spiega Mucci. «Un ricordo falso, che in qualche modo le era servito per superare quell’esperienza».
Compito del clinico, in casi come questo, è ricostruire una storia quanto più possibile accurata, «evidenziando anche eventuali contraddizioni e affermazioni non veritiere, che hanno comunque un ruolo all’interno della terapia».

Scrivere di analisi
Se con Freud il racconto delle analisi è diventato grande letteratura – tanto che il padre della psicoanalisi fu anche candidato, nel 1936, al premio Nobel per la letteratura – oggi spesso le sedute sono trascritte, e in qualche caso registrate, dall’analista per studiarle o a scopo di ricerca. Una trascrizione che è comunque un’elaborazione, «perché scrivere durante le sedute potrebbe infastidire o distrarre, e quindi l’analista ricostruisce ciò che è avvenuto in seduta», spiega Mario Marinetti. Ancora oggi la trascrizione è più diffusa della registrazione, perché questa potrebbe essere vissuta come un’interferenza, ma anche per quello che Antonino Ferro definisce «l’effetto scolapasta»: «Una registrazione conserva tutto, e ci si trova una quantità di materiale in cui è difficile orientarsi, per così dire una mappa in scala 1/1», spiega lo psicoanalista. «Mentre, se si trascrive, si lascia andare quello che non ci ha colpito e si trattiene quello che si ritiene importante: non l’obiettività del racconto, ma quanto è passato tra le due menti».
Ricordo le crisi di prurito in presenza di un paziente che, una volta, mi raccontò una fantasia in cui io e lui eravamo appiccicati».
Secondo lo psicoanalista britannico John Bowlby, ogni individuo costruisce dei propri modelli operativi interni, modalità di interazione con l’altro – in questo caso l’analista – che si ripropongono nei messaggi trasmessi dal corpo. «E può succedere che il paziente dica le cose più importanti sulla porta dello studio, mentre se ne sta andando», ricorda Foresti. Mentre nel corso della seduta si alternano ricordi e immagini, descrizioni di sogni e silenzi, in un andamento fluido e imprevedibile: «Se in letteratura la narrazione ha in genere un percorso temporale, in una seduta psicoanalitica deve saper guardare in tutte le direzioni, all’indietro, al presente e al futuro», osserva Ferro. Tanto che Freud paragonava l’analisi al gioco degli scacchi «perché solo l’apertura e la chiusura seguono uno schema predeterminato», sottolinea Foresti.

Ricostruire la storia
Se l’analista che tace per intere sedute è un ricordo del passato, può succedere che sia il paziente a rimanere in silenzio. «Ci sono pazienti che non parlano per ore, ma è diffìcile raggiungere anche i pazienti che parlano molto, senza un colorito emotivo che susciti fantasie in chi li ascolta”, osserva Marinetti.
Ma basta poco ad attivare associazioni da cui emergono fatti importanti. «A volte sembra che non stia succedendo niente, e poi può emergere una storia», prosegue Marinetti. «Se il paziente menziona un film, l’analista non dice di averlo visto, se lo fa raccontare: l’interpretazione soggettiva della trama, i particolari notati o cancellati possono essere utili per l’analisi». «Qualunque storia può aiutare il paziente a ricostruire la propria storia personale, anche se con pazienti gravemente traumatizzati di rado si ricorre a film o romanzi», precisa Mucci. «Il dato più importante è l’affetto, la componente emotiva espressa dal paziente attraverso il suo racconto».
A volte poi anche l’analista può sfruttare una narrazione: «Con pazienti borderline o che non sopportano un’eccessiva vicinanza può essere utile che l’analista assuma le sembianze di un personaggio – osserva Ferro – o che racconti al paziente una storia per descrivere ciò che gli sta succedendo». Anche quando racconta un film o un romanzo, d’altronde, il paziente parla sempre e solo di sé, «o meglio di sé e dell’analista, dei personaggi che entrano in gioco nell’analisi: a dare significato alla comunicazione è il fatto che avvenga in quel particolare contesto», prosegue Ferro. «Anche se non bisogna perdere di vista la realtà, per non perdere il contatto emotivo lanciandosi in interpretazioni azzardate». Se insomma il paziente avverte che ha dimenticato il libretto degli assegni e pagherà la volta successiva, possiamo indagare sulle interpretazioni di questa affermazione, «ma si tratta di una realtà da prendere in esame», sottolinea Ferro.
Resta da capire quale ruolo abbia il sogno nella psicoanalisi moderna. 0 meglio il racconto del sogno, visto che in seduta, ricorda Foresti, «si lavora sul racconto che ne fa il paziente, un’esperienza secondaria che è già una prima interpretazione». Jung descrive il sogno come un teatro in cui il sognatore è al tempo stesso interprete, regista e critico: «Si può anche proporre al paziente di raccontare ciò che gli è accaduto come se si trattasse di un sogno», osserva Garzonio. «In fondo il vissuto è un modo cosciente di esprimere contenuti inconsci». Per lo psicoanalista statunitense Thomas Ogden, invece, un sintomo è l’equivalente di un sogno non fatto: «Il senso dell’analisi – chiarisce Ferro – è indurre il paziente a fare i sogni che non è stato capace di fare, e che si sono trasformati in sintomi. Anche se il concetto di sogno va ampliato, perché l’attività onirica diurna ha un ruolo importante nella narrazione psicoanalitica».
Che non è «narrazione» intesa come fiction. Eppure il tema della verità resta uno dei più difficili da affrontare. «Anche perché è legato alle origini della psicoanalisi», ricorda Mucci, ossia al giudizio di Freud sugli eventi traumatici all’origine dell’isteria delle pazienti. «Freud ha avuto su questo tema un atteggiamento ambivalente, e nella psico analisi è tuttora presente l’idea che la verità oggettiva non sia importante, purché la storia raccontata possa far emergere associazioni, sogni o altri spunti. E questo entro certi limiti è vero, ma la situazione cambia quando si tratta di pazienti gravemente traumatizzati», spiega la psicoterapeuta (si veda il box a fronte). E se nella stanza dell’analisi la realtà, come ricorda Ferro, «è la realtà psichica ed emotiva che prende vita tra quelle due persone in quella giornata», resta la necessità di rispettare la verità storica: «I pazienti vengono perché hanno bisogno di affrontare dolori che non è stato possibile affrontare in altro modo, per ricostruire la propria storia», osserva Marinetti. «È importante lavorare sulla loro realtà emotiva, ma riconoscendo come tale la realtà degli eventi traumatici vissuti».
Un lavoro che, come tutte le storie, è destinato ad arrivare a conclusione anche se la storia narrata nella stanza dell’analisi continua a vivere autonomamente: «L’analisi è come la scuola guida, finisce quando non c’è più bisogno dell’istruttore», conclude Ferro. «Quando il paziente ha imparato a usarne gli strumenti per dipanare le proprie emozioni».

*Articolo segnalato da spiweb.it
http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=4903:il-potere-delle-storie-mente-e-cervello-luglio-2014&catid=726&Itemid=353
http://www.lescienze.it/mente-e-cervello/2014/06/27/news/m_c_luglio_2014-2195195/
 
SE IL PREMIER-PADRE SI IDENTIFICA CON IL FIGLIO. L’analisi. Non è Telemaco l’uomo del riscatto
di Sarantis Thanopulos, 2 luglio 2014
Mat­teo Renzi è gio­vane ma ciò non giu­sti­fica la man­canza di cul­tura che spiega, almeno in parte, la sua incli­na­zione all’approssimazione (qua­lità tra le meno auspi­ca­bili per la sua impor­tante fun­zione).
Ogni gio­vane sco­la­riz­zato si sup­pone che abbia letto, sia pure distrat­ta­mente, l’Odissea o per­lo­meno che ne abbia visto qual­cosa in uno dei suoi adat­ta­menti tele­vi­sivi. Per quanto curioso possa sem­brare que­sto non sem­bra il caso del nostro pre­mier che nel suo discorso a Stra­sburgo ha riven­di­cato l’eredità di Telemaco.
Quel Tele­maco che, pre­fe­ren­dolo a Ulisse citato da tutti (con suo disap­punto), ha preso come modello di una gene­ra­zione che deve riscattarsi.
Ulisse è una figura com­plessa, e ben più signi­fi­ca­tiva di Tele­maco, non adatta a essere uti­liz­zata come modello prêt a por­ter per­ché elude le sem­pli­fi­ca­zioni e le sug­ge­stioni. È una delle più impor­tanti figure dell’etica (le esem­pli­fi­ca­zioni del senso di respon­sa­bi­lità) che ci hanno lasciato in ere­dità gli anti­chi: in lui è con­fi­gu­rato l’incontro del senso dell’appartenenza con il desi­de­rio della sco­perta e della libertà, l’apertura (che ama l’esposizione e l’imprevedibilità) del con­sueto all’inconsueto, il lutto che tra­sforma la con­tem­pla­zione del pas­sato in nostalgia/immaginazione del futuro. Non offre solu­zioni (nono­stante la sua leg­gen­da­ria inge­gno­sità) ci inco­rag­gia a vivere in con­tatto con il sapere che nasce dal pathos della nostra espe­rienza (il sen­tire pro­fondo che non disde­gna né il pia­cere né il dolore).
Con­trap­porre Tele­maco a Ulisse è un non­senso. Tele­maco è l’adolescente che intra­prende il viag­gio della ricerca del padre, il viag­gio di ini­zia­zione alla vita adulta. Che il nostro primo mini­stro si iden­ti­fi­chi con lui non è una buona noti­zia: essendo già padre di figli ci si aspetta che il rag­giun­gi­mento della mag­gior età sia in lui compiuto.
Tele­maco si riscatta dal ruolo di figlio mes­sia­nico della madre (e dal suo posto di com­pa­gno ille­git­timo di lei che mina il suo avve­nire di uomo) risco­prendo il padre. Augu­rar­gli un destino diverso sarebbe improv­vido per cui non si può che spe­rare che Renzi ritrovi la strada del suo vero riscatto. Ci si può, tut­ta­via, scom­met­tere che que­sto sia già acca­duto da tempo, che certe sue uscite un po’ sfor­tu­nate siano solo il frutto di let­ture un po’ fret­to­lose. Sarà a causa dei suoi tanti impegni.
http://ilmanifesto.info/se-il-premier-padre-si-identifica-con-il-figlio/
 
L’ICONA TELEMACO: IL DISCORSO DELLO PSICOANALISTA DIVENTA DISCORSO DI GOVERNO
di Ida Dominijanni, huffingtonpost.it, 3 luglio 2014
E così, con un doppio salto carpiato, la generazione Erasmus dei rottamatori è diventata la generazione Telemaco degli eredi della tradizione europea. Ghost writer, neanche tanto ghost visto che sta «lanciando» il mito di Telemaco da mesi su Repubblica oltre che in un apposito pamphlet, Massimo Recalcati. Che però Renzi non cita, anzi omette a piè pari pur copiandolo testualmente, perché i politici perdono il pelo ma non il vizio, compreso il vizio di non dichiarare le loro fonti d’ispirazione millantando quello che ne traggono per farina del proprio sacco.
A Massimo Recalcati era già capitato, qualche anno fa, quando Giuseppe De Rita, fonte non dichiarata per un altro libro dello psicoanalista, ”L’uomo senza inconscio”, impostò un intero Rapporto Censis sull’idea che l’Italia berlusconiana era in preda a una vertiginosa caduta del desiderio, effetto a sua volta dell’eclissi dell’autorità e della legge paterna: i due ebbero poi modo di confrontarsi pubblicamente sul tema e Recalcati di prendere le distanze da un’interpretazione cattolico-tradizionalista della crisi dell’autorità paterna che finisce con l’invocare il ritorno del padre-padrone-patriarca perduto. Ma erano altri tempi, al potere c’era Papi, un nome un programma, che dell’eclissi della legge del Padre era l’incarnazione, e con le sue ”cene eleganti” pareva uno spot della sostituzione del desiderio creativo con un godimento compulsivo e mortifero, imposto dall’alto a tutti noi nella forma paradossale di un comandamento trasgressivo. Di fronte a tanto scempio, il ”discorso dello psicoanalista”, che di suo è e non può non essere un discorso critico, aveva di che levarsi per contrastare il ”discorso del capitalista” del Sultano di Arcore.
Ma decaduto Papi, per sentenza ricevuta più che per meriti politici degli avversari, che fare, e che dire, per uscire dal ventennio dei Proci? Di nuovi padri all’orizzonte non se ne vedevano, nella desertificazione della politica, e quanto ai vecchi si eclissavano da soli, uno dopo l’altro salvo nonno Giorgio; e in mancanza di padri il mito di Edipo, quello che da che mondo è mondo consente ai figli (maschi) di mettersi al posto del genitore uccidendolo e sbranandone le spoglie, non funziona più. Ci voleva un altro mito per consentire a un figlio (maschio) senza-padre di prendere il potere legittimandolo in qualche modo. Ed ecco allora un bel Telemaco pronto per l’uso. Telemaco, che con la casa invasa dai Proci guarda il mare e aspetta che il padre, o qualcosa del padre, dal mare ritorni per ristabilire la legge. Telemaco, «il giusto erede, il figlio giusto, l’icona del figlio”. Telemaco che cresce in assenza del padre e rischia di non ereditare nulla, solo distruzione e devastazione, e somiglia tanto ai figli del ventennio dei Proci nostrano che ereditano ”un corpo morto, un’economia impazzita, una terra sfiancata, un indebitamento illimitato”. Telemaco l’anti-Edipo, che a differenza di Edipo non uccide crudelmente il padre, non foss’altro perché il padre s’è eclissato, ma si accontenta di fare a patti con il suo indebolimento e di citarne una vaga testimonianza.
Peccato che il destinatario del nuovo mito si presti e non si presti a incarnarlo. La vittimizzazione della ”generazione Erasmus” gli calza a pennello, ma lui non sta davanti al mare a scrutare l’orizzonte e non parte alla ricerca del padre perduto: scalpita e in mancanza di padri da uccidere rottama i fratelli maggiori, con un rito non meno violento di quello di Edipo (pur sempre di un regolamento di conti fra maschi si tratta).
Ma quel rito, annota adesso Recalcati, ci sta già alle spalle: siamo ”oltre la rottamazione”, anzi proprio grazie ad essa ”il figlio giusto” può farsi erede della tradizione. Ora si potrebbe osservare che ”i figli giusti” il debito simbolico con i padri e con la tradizione lo nominano e lo pagano prima di prendere il potere, non dopo (Renzi dovrebbe leggere con più attenzione i discorsi di Obama); e si potrebbe giocare a lungo con il seguito della storia: che fine fa Telemaco, chi ristabilisce la legge a Itaca, qual è la dea della saggezza che lo accompagna, eccetera eccetera. Lasciamo aperto il finale e auguriamogli buon viaggio. Però una cosa possiamo sommessamente dirla fin d’ora: quando il discorso dello psicoanalista diventa discorso di governo non è mai una buona notizia.
http://www.huffingtonpost.it/ida-dominijanni/icona-telemaco-discorso-psicoanalista-governo_b_5554621.html?utm_hp_ref=italia-politica


 

TELEMACO SENZA FILI

di Massimo Gramellini, lastampa.it, 3 luglio 2014
Hai venti minuti per parlare davanti a una platea di europarlamentari gentilmente offerti da un’azienda di surgelati. Puoi berlusconeggiare, ribadendo lo stereotipo dell’italiano simpatico, furbo e un po’ cafone. Oppure mariomonteggiare, ipnotizzando con dei mantra numerici un pubblico che non chiede di meglio per continuare a dormire in pace. Potresti persino enricoletteggiare e produrti in una lista di promesse di buon senso che qualunque presidente di turno dell’Unione Europea ripete senza sosta da vent’anni. Invece, essendo Renzi e non facendoti difetto l’autostima, decidi di renzeggiare. Evochi lo spirito dei tuoi idoli Blair e Obama – nessuno dei due, guarda caso, centroeuropeo – e ti produci in un monologo carico di valori, passioni, riferimenti storici e letterari. Avendo letto il libro omonimo dello psicanalista Recalcati, attingi a «Il complesso di Telemaco» ed elevi il figlio di Ulisse che cerca di meritarsi l’eredità a simbolo della tua idea di Europa. Il problema è che lo stai dicendo proprio all’assemblea dei Proci, che oggi non sono i principi di Itaca e neppure i politici italiani che ogni giorno costringono Penelope Boschi a fare e disfare la tela delle riforme. Sono i burocrati di Strasburgo, i ragionieri di Berlino e gli eurofobi di Farage e Le Pen: tutta gente molto prosaica e prevenuta, che da te vorrebbe sapere soltanto una cosa: quando pagherai i debiti, affamando sempre di più quegli scansafatiche baciati dal sole dei tuoi connazionali.
Per fare fuori i Proci che il destino ti ha dato in sorte un bel discorso purtroppo non basta. Come Telemaco, avresti bisogno dell’esperienza di Ulisse. Invece hai solo D’Alema.
http://www.lastampa.it/2014/07/03/cultura/opinioni/buongiorno/telemaco-senza-fili-1vPOoi2hk5jK6t3tASaTkI/pagina.html

 

LO PSICANALISTA RENZI MOLLI TELEMACO E CI PARLI DI ULISSE

di Giulia Regogliosi, ilsussidiario.net, 5 luglio 2014
Parlando al Parlamento di Strasburgo all’esordio del semestre italiano, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha citato il personaggio di Telemaco come il segno degli uomini del nostro tempo, che diciotto anni dopo Maastricht devono meritarsi l’Europa, eredi tutti di un regno ancora da conquistare.
Il riferimento ha inevitabilmente richiamato la recente opera dello psicanalista Massimo Recalcati, che ha formulato la teoria del complesso di Telemaco in opposizione ai complessi di Edipo e di Narciso: più che di complessi nel senso freudiano del termine, si tratterebbe di atteggiamenti delle diverse generazioni che si sono succedute dal ’68 ad oggi nei confronti dei “padri”. Non sappiamo quanto Renzi conosca libro e teorie dello psicanalista: ma è interessante il riemergere in tempi brevi di una figura mitica che dopo le secentesche Adventures de Télémaque di Fénelon non ha avuto moltissima audience.
In un mio libretto di qualche anno fa, In attesa del Padre, avevo individuato un tipo di figure mitiche definite come figli di un padre assente: i figli dei grandi eroi autori di gesta famose, sempre lontani da casa per obblighi o per sventure, o morti in giovane età carichi di gloria. Sono i vari Oreste, Neottolemo, Illo e appunto Telemaco, affidati a madri o nonni o pedagoghi, con ambizioni confuse e compiti inquietanti, a rischio di sopraffazione o corruzione. Così ne riassume la sorte sinteticamente Omero: “Molti dolori ha nella casa il figlio di un padre lontano, che non abbia altri difensori”. Il padre assente è una figura in qualche modo ingombrante, conosciuto solo di fama, punto di riferimento irraggiungibile per chi fa già fatica a diventare grande.
Nei primi quattro libri dell’Odissea Telemaco ha però un aiuto nella sua fatica. La sua iniziazione, la convocazione dell’assemblea, l’organizzazione del viaggio verso gli antichi compagni del padre, è guidata da Atena, che riesce a trasformare il ragazzetto, secondo la sprezzante definizione di Antinoo, in un giovane deciso e capace di capire: “A lui nel cuore / pose forza e ardimento, lo fece pensare a suo padre / ancor più di prima. Lui, riflettendo nell’animo, / fu preso da stupore, perché capì che era una dea./” Subito “tornò dai pretendenti”. Anche l’incontro con Nestore e Menelao, pur non molto ricco di notizie, inserisce il giovane in una storia da cui era stato escluso, in un mondo di uomini diversi dal nonno straniato dal dolore e i pretendenti dalla giovinezza beffarda; e lo rende orgoglioso per il riconoscimento di una dote che già l’accomuna a Ulisse: “sei di buon sangue, ragazzo, per come sai parlare!”
Un’iniziazione, dunque, voluta dalla dea, perché Ulisse tornando trovi un alleato in grado di aiutarlo a rimettere ordine e non un giovane estraneo nella propria casa, “avvilito nel suo cuore”.
Gli anni di avvilimento ed estraneità hanno però conferito a Telemaco una diffidenza estesa anche agli dèi, nonostante il riconoscimento dell’aiuto divino già ricevuto: al padre che gli si rivela Telemaco inizialmente non crede, pensa ad un malevolo inganno divino, non capisce perché mai gli dèi potenti dovrebbero scomodarsi per lui, per loro. Ulisse ha invece conservata intatta la sua fiducia e usa per convincere il figlio le sue stesse parole: tutto è facile per gli dèi abitatori del cielo.
“Non verrà più qui un altro Ulisse”: è il momento di credere e agire, ora o mai più. E bisogna credere anche ad altro: che di fronte ad un numero enorme di nemici si possa combattere in due con un paio di servi.
Telemaco pensa che Ulisse abbia un piano di riserva, alleati potenti da tirare fuori chissà da dove; ma Ulisse gli risponde con pazienza che è insieme fermezza educativa: “dimmi se a noi Atena e il padre Zeus / basteranno o se devo pensare ad un altro difensore”. Da questo momento i due sono compagni di lotta, con una complicità che li separa da tutti gli altri: all’arrivo di Eumeo ancora ignaro “Telemaco dalla sacra forza sorrise / cercando il padre con gli occhi”.
Il giovane avrà i suoi momenti di errore, come l’armeria lasciata aperta che permette ai nemici di difendersi: tuttavia è segno di maturità anche la pronta ammissione dello sbaglio. Sarà capace di contenersi, di nascondere l’identità di Ulisse alle donne di casa e, dopo la strage, di consigliare Ulisse sulla salvezza dei servi rimasti onesti e di farsi ascoltare da lui.
Ancora una persona c’è da persuadere. Telemaco è cresciuto con la madre, in un rapporto di protezione e a tratti di irritato distacco. Recuperato il rapporto col padre vorrebbe che tutto si sistemasse rapidamente, che la coppia di genitori si riformasse senza aspettare oltre; ma sia il padre sia la madre lo richiamano a non intromettersi in qualcosa che è soltanto loro: Penelope gli dice che hanno dei segni segreti, Ulisse che saprà farsi riconoscere. Con delicatezza la coppia non ancora riunita ricorda al figlio ritrovato il mistero dell’unità sponsale.
È dunque vero che siamo tutti dei Telemachi? Ed è con Telemaco che si identifica l’attuale generazione di giovani non più ribelli, non più narcisisti? A Renzi dovremmo chiedere che ne è stato degli Ulissi che hanno fatto l’Europa, allo studioso se ci sono davvero dei padri al di là dei mari sulla cui riva i giovani attendono.
http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2014/7/5/SPILLO-Lo-psicanalista-Renzi-molli-Telemaco-e-ci-parli-di-Ulisse/512307/
 
Audio 

GIOVANI AL LAVORO

da radio24.ilsole24ore.com, Cuori e denari, 3 luglio 2014
Ospiti: Massimo Ferlini, vicepresidente della Compagnia delle Opere, Federico Vione, amministratore delegato di Adecco, Luigi Ballerini, medico, scrittore e psicoanalista freudiano.
Vai al link e clicca su Riascolta la puntata:
http://www.radio24.ilsole24ore.com/programma/cuoridenari/2014-07-03/giovani-lavoro-104458.php?idpuntata=gSLAxVBpi&date=2014-07-03
 
Video

RECALCATI A POPSOPHIA: NOSTALGIA DELL'AMORE 
Da youtube 2 luglio 2014

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

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