L’emergenza reale della Salute Mentale in Italia, una risposta a Gilberto Di Petta
3 settembre, 2016 - 17:30
3 settembre, 2016 - 17:30
Il compito delle scienze sociali, secondo Domenico De Masi, è “essere moleste”, evidenziando nel rassicurante riprodursi della realtà contraddizioni ed incompatibilità che possono risultare fastidiose, a volte spiacevoli, ma hanno il merito di riportarci al senso delle cose che facciamo e alla distanza tra queste e i valori in cui crediamo. In Notti di ordinaria psichiatria, Gilberto Di Petta ha avuto la straordinaria capacità di rappresentare, in tre storie di emergenza notturna, l’emergenza reale che vive il sistema della Salute Mentale nel nostro Paese, la frustrazione e la mancanza di speranza che accomuna operatori e utenti, l’uso residuale e contenitivo cui la psichiatria sembra essere relegata. Ma Gilberto va oltre la rassegnata descrizione delle incoerenze di sistema e pone una serie di quesiti, che potrebbero essere, per chi ne ha ruolo e responsabilità, i punti di un ideale programma di riorganizzazione dei servizi. Provo a coglierne alcuni.
Nessuna delle persone che hanno costellato quella notte in SPDC era seguito dai Servizi Territoriali. Ciononostante, tutti avevano una terapia psicofarmacologica prescritta da centri specialistici pubblici o privati convenzionati. Dunque, il bisogno, la sofferenza, si era manifestata ma la domanda di assistenza non era stata colta dai Servizi Territoriali (o lo era stata, ma senza una reale presa in carico). Senza voler demonizzare la funzione del privato convenzionato (su cui pure occorrerebbe una riflessione seria, a partire dalla verifica di efficacia degli interventi e dal rapporto costo/beneficio degli stessi) questo segnala che il Servizio Pubblico non attua quella funzione di regia, di committenza e di verifica che attiene alle proprie responsabilità. Nella migliore delle ipotesi, si tratta di un sistema che dispone di risorse che non sono in relazione tra loro. Tocca all’utente o al familiare districarsi nel labirinto di sigle, strutture, approcci specialistici, e spesso di spendere di tasca propria per ottenere ciò cui si ha diritto.
E ancora: “La sezione ospedaliera - scrive Di Petta - diventa la prima linea”. Ecco un altro paradosso dell’attuale situazione dei Servizi, non solo in Campania. Il polo che esprime la maggiore intensità di assistenza sanitaria diventa il riferimento abituale per problemi di ogni genere. E’ perfino superfluo argomentare sulle cause che generano questi flussi, ma mi piace cogliere l’analogia molto attuale con la medicina generale. Sul piano organizzativo, la migliore risposta ad un uso improprio del Pronto Soccorso ospedaliero è considerata una maggiore responsabilizzazione dei medici di medicina generale ed il loro aggregarsi in strutture territoriali (le Case della Salute) per garantire una presenza sulle 12 ore, con la possibilità in alcuni casi di accogliere anche brevi degenze, e con il servizio di continuità assistenziale a rispondere alle urgenze notturne. Dunque: prossimità territoriale, continuità assistenziale, possibilità di risposta nelle 24 ore. Ma non erano queste le caratteristiche che avrebbero dovuto assumere i Centri di Salute Mentale?
Un altro aspetto che emerge più volte nel racconto è il riduzionismo nell’approccio terapeutico, il “bagno psicofarmacologico”, sedativo, contenitivo, di cui parla Di Petta. Non c’è oggi psichiatra, anche il più acceso organicista, che non sia disposto ad ammettere che le possibilità di prognosi favorevole si accrescono esponenzialmente se l’approccio terapeutico è ispirato all’integrazione degli interventi farmacologici, psicoterapici e sociali, questi ultimi estesi alla rete relazionale prossima dell’utente. Se a ciò aggiungiamo le consolidate evidenze sugli effetti iatrogeni per nulla trascurabili che agli psicofarmaci – specie quando assunti a lungo termine – vengono attribuiti, non si comprende come sia eticamente e deontologicamente sostenibile un intervento fondato esclusivamente sui farmaci.
Ciò che più mi ha colpito, tuttavia, è stata la descrizione del ruolo che utenti e familiari assumono nei confronti del ricovero: da un lato passività e sopportazione, dall’altro la ricerca di sollievo, sia pur temporaneo, ad una pena che si considera ineluttabile ed invincibile. Nell’evocare e sostenere questo sentimento, il ricovero denuncia il suo fallimento prima ancora di essere stato realizzato. C’è un’antinomia reale tra questo modo di interpretare il ricorso al ricovero ospedaliero e l’idea che l’intervento, per essere terapeutico, debba tendere a restituire a utente e familiari il controllo negoziale sulla propria esistenza; e la capacità dei Servizi di coinvolgere attivamente le persone assistite nei progetti di vita che li riguardano; e il fatto insomma di essere soggetto o oggetto di un processo di cura.
Voglio cogliere, infine, il richiamo che Di Petta rivolge indirettamente all’accademia, alle Scuole di Specializzazione, chiedendosi quale e quanta formazione essi ricevano per comprendere ed orientare le opportunità che una crisi, nel suo disvelamento di un campo di possibilità, offre. Anche in questo caso la sollecitazione rinvia a domande di portata più ampia, che ci interrogano sulla reale adeguatezza dei contenuti didattici che il sistema formativo trasmette rispetto al “portafoglio” di competenze oggi indispensabili per lavorare nella rete dei servizi sociosanitari di comunità. Ma come perseguire questa coerenza di fini in contesti che rimangono separati dal sistema sanitario e sociale, senza una reale possibilità di integrazione nella salute mentale territoriale?
Mi accorgo solo ora di non aver commentato l’accenno critico che Gilberto rivolge alla sanità Campana e alle promesse più che decennali rivolte a cittadini e operatori, puntualmente disattese. La speranza è che le cose cambino, certo, ma perché ciò avvenga è necessario essere speranza e non semplicemente averla. La notte della psichiatria va illuminata dalla luce che ciascuno sente di poter accendere, anche a costo di essere molesto, ossia - letteralmente - di “rappresentare qualcosa che opprime, che è difficile da sopportare”. Come ha fatto Di Petta.
Nessuna delle persone che hanno costellato quella notte in SPDC era seguito dai Servizi Territoriali. Ciononostante, tutti avevano una terapia psicofarmacologica prescritta da centri specialistici pubblici o privati convenzionati. Dunque, il bisogno, la sofferenza, si era manifestata ma la domanda di assistenza non era stata colta dai Servizi Territoriali (o lo era stata, ma senza una reale presa in carico). Senza voler demonizzare la funzione del privato convenzionato (su cui pure occorrerebbe una riflessione seria, a partire dalla verifica di efficacia degli interventi e dal rapporto costo/beneficio degli stessi) questo segnala che il Servizio Pubblico non attua quella funzione di regia, di committenza e di verifica che attiene alle proprie responsabilità. Nella migliore delle ipotesi, si tratta di un sistema che dispone di risorse che non sono in relazione tra loro. Tocca all’utente o al familiare districarsi nel labirinto di sigle, strutture, approcci specialistici, e spesso di spendere di tasca propria per ottenere ciò cui si ha diritto.
E ancora: “La sezione ospedaliera - scrive Di Petta - diventa la prima linea”. Ecco un altro paradosso dell’attuale situazione dei Servizi, non solo in Campania. Il polo che esprime la maggiore intensità di assistenza sanitaria diventa il riferimento abituale per problemi di ogni genere. E’ perfino superfluo argomentare sulle cause che generano questi flussi, ma mi piace cogliere l’analogia molto attuale con la medicina generale. Sul piano organizzativo, la migliore risposta ad un uso improprio del Pronto Soccorso ospedaliero è considerata una maggiore responsabilizzazione dei medici di medicina generale ed il loro aggregarsi in strutture territoriali (le Case della Salute) per garantire una presenza sulle 12 ore, con la possibilità in alcuni casi di accogliere anche brevi degenze, e con il servizio di continuità assistenziale a rispondere alle urgenze notturne. Dunque: prossimità territoriale, continuità assistenziale, possibilità di risposta nelle 24 ore. Ma non erano queste le caratteristiche che avrebbero dovuto assumere i Centri di Salute Mentale?
Un altro aspetto che emerge più volte nel racconto è il riduzionismo nell’approccio terapeutico, il “bagno psicofarmacologico”, sedativo, contenitivo, di cui parla Di Petta. Non c’è oggi psichiatra, anche il più acceso organicista, che non sia disposto ad ammettere che le possibilità di prognosi favorevole si accrescono esponenzialmente se l’approccio terapeutico è ispirato all’integrazione degli interventi farmacologici, psicoterapici e sociali, questi ultimi estesi alla rete relazionale prossima dell’utente. Se a ciò aggiungiamo le consolidate evidenze sugli effetti iatrogeni per nulla trascurabili che agli psicofarmaci – specie quando assunti a lungo termine – vengono attribuiti, non si comprende come sia eticamente e deontologicamente sostenibile un intervento fondato esclusivamente sui farmaci.
Ciò che più mi ha colpito, tuttavia, è stata la descrizione del ruolo che utenti e familiari assumono nei confronti del ricovero: da un lato passività e sopportazione, dall’altro la ricerca di sollievo, sia pur temporaneo, ad una pena che si considera ineluttabile ed invincibile. Nell’evocare e sostenere questo sentimento, il ricovero denuncia il suo fallimento prima ancora di essere stato realizzato. C’è un’antinomia reale tra questo modo di interpretare il ricorso al ricovero ospedaliero e l’idea che l’intervento, per essere terapeutico, debba tendere a restituire a utente e familiari il controllo negoziale sulla propria esistenza; e la capacità dei Servizi di coinvolgere attivamente le persone assistite nei progetti di vita che li riguardano; e il fatto insomma di essere soggetto o oggetto di un processo di cura.
Voglio cogliere, infine, il richiamo che Di Petta rivolge indirettamente all’accademia, alle Scuole di Specializzazione, chiedendosi quale e quanta formazione essi ricevano per comprendere ed orientare le opportunità che una crisi, nel suo disvelamento di un campo di possibilità, offre. Anche in questo caso la sollecitazione rinvia a domande di portata più ampia, che ci interrogano sulla reale adeguatezza dei contenuti didattici che il sistema formativo trasmette rispetto al “portafoglio” di competenze oggi indispensabili per lavorare nella rete dei servizi sociosanitari di comunità. Ma come perseguire questa coerenza di fini in contesti che rimangono separati dal sistema sanitario e sociale, senza una reale possibilità di integrazione nella salute mentale territoriale?
Mi accorgo solo ora di non aver commentato l’accenno critico che Gilberto rivolge alla sanità Campana e alle promesse più che decennali rivolte a cittadini e operatori, puntualmente disattese. La speranza è che le cose cambino, certo, ma perché ciò avvenga è necessario essere speranza e non semplicemente averla. La notte della psichiatria va illuminata dalla luce che ciascuno sente di poter accendere, anche a costo di essere molesto, ossia - letteralmente - di “rappresentare qualcosa che opprime, che è difficile da sopportare”. Come ha fatto Di Petta.
Commenti
non mi permetto di criticare, in particolare, l'ultimo collega che si è comportato, temo, come si sarebbe comportato qualsiasi psichiatra reperibile in analoga circostanza, a meno che ... . a meno che il servizio nel suo complesso non fosse diretto e organizzato per rispondere e decodificare la domanda 'vera' che i singoli casi pongono. Mi sono chiesto se anch'io mi fossi trovato nel tipo di servizio che emerge sullo sfondo, non mi sarei comportato allo stesso modo. Forse non avrei dato Haldol e Diazepam a quel paziente ma poi? in ogni caso condivido totalmente l'analisi puntuale di Fabrizio Starace. In particolare, condivido il suo riferimento a "essere speranza" che indica una strada, quanto meno sul piano dell'etica individuale. Sul piano politico, credo che ben si comprenda come generici richiami all'aumentare le risorse dei servizi di salute mentale quanto meno non siano adeguati. Più risorse per fare cosa? Per estendere interventi inappropriati ? Probabilmente si dovrebbero studiare forme di finanziamento dei servizi sulla base di indicatori che evidenzino comportamenti virtuosi di presa in carico dei problemi e di coinvolgimento dei servizi appropriati; evitando, però lo scaricabarile delle competenze (tipo: questo non è mio ma tuo!). Anche qui, tuttavia, come per il sistema paese (e per l'Europa) deve esserci una possibilità giuridico-pratica di governance che non può essere lasciata agli psichiatri ma richiede forme di integrazione dei servizi che nonostante l'enfasi sul lavoro di rete sembra sempre una chimera.
l'intervento di Antonio mi pare molto puntuale sul tema delle regole.
E' evidente che basarsi sulla buona volontà per risolvere e/o superare problematiche in realtà strutturali appare non tanto utopistico ma francamente inapproppriato.
La via sono NUOVE REGOLE DI INGAGGIO mutuate dalle buone pratiche quelle si forse frutto del volontarismo che però mostrano una "possibilità" che DEVE farsi regola a condizione che si introduca un principio desueto ma indispensabile: premiare il "buono" sanzionare il "cattivo"
Sarò un po' poco politically correct ma io credo che toccare nel bene o nel male le persone nel portafogli serva.. oh qunato serva
Caro Fabrizio Starace, ti ringrazio per aver riletto in una chiave di senso "sistemica" la cifra di quella notte. Ti ringrazio perchè, stando all'interesse mostrato da Angelozzi, da te e da migliaia di colleghi più "in penombra", quella notte è diventata "la notte" della psichiatria italiana o "salute mentale" che dir si voglia. Chi, come te, come Angelozzi , riveste posizioni più apicali, è evidentemente percorso da un brivido di coscienza che, al di là della domanda, reclama le risposte. Chi, come me ed altri colleghi, non è in questo momento investito da funzioni organizzative di livello più elevato, esprime senzaltro una sofferenza, pur non demordendo dall'etica e dal senso di responsabilità professionale. Per quanto mi riguarda, cercando un raccordo tra la mia formazione psicopatologico-fenomenologica e la mia pratica quotidiana, sento che, oltre a ripensamenti di carattere organizzativo, necessitiamo della rifondazione di un modello di psichiatria umanistica, clinica e sociale, capace di accogliere la variegata domanda che si abbatte sui nostri servizi. Una psichiatria che, pur non disconoscendo la propria appartenenza all'area della medicina, vada fiera del suo essere una disciplina di confine, e dunque fiera di adottare una metodologia che affonda le sue radici nelle scienze umane e nelle scienze sociali. Non esistono tre psichiatrie, una biologica, una psicologica e una sociale. Ne esiste una sola. Che tuttavia appare sempre refrattaria nel lasciarsi cogliere come intera. E che, nel suo brillare per frammenti, mostra tutto il fianco della sua vulnerabilità. Noi operatori sentiamo il bisogno di prendere del tempo per noi, per rifondarci sul piano intersoggettivo, per riscoprire il senso degli incontri con i pazienti e con la gente. Noi operatori sentiamo il bisogno di essere sottratti ad una burocratizzazione che ci uccide, e di tornare a discutere di emozioni, di vissuti, di situazioni, di andamenti e decorsi clinici, oltre le categorizzazioni delle SDO. Oltre l'emergenza e i budget di cura. Oltre la medicina difensiva. Oltre la tragedia della "collocazione" degli utenti. Oltre la frustrazione della cronicità. Oltre i fallimenti e le confusioni. Abbiamo una storia che dobbiamo tornare a valorizzare, abbiamo un linguaggio molto ricco di cui ci dobbiamo riappropriare. Abbiamo bisogno che gli amministratori ci riconoscano quelle competenze relazionali e psicopatologiche che, con buona pace di altre figure più o meno equipollenti (dal neurologo allo psicologo), solo noi psichiatri possediamo. Dunque bene la cura dell'organizzazione, ma è necessaria una cura del modello di riferimento, divenuto quanto mai confuso e disarticolato, e una cura di noi operatori come persone. Temo che se questo processo non avrà corso, oltre al nostro burnout, la sofferenza degli esseri umani che a noi si appella rimarrà senza nome, senza ascolto, senza senso, pur essendo soddisfatti gli standard di obiettivo. I colleghi che incontro in giro per l'Italia, e con cui lavoro spalla a spalla tutti i giorni, nonostante tutto sono persone che hanno idee nella testa e passione nel cuore. Spesso si muovono con un sentimento di isolamento, e non percepiscono attenzione. Cionondimeno mettono in pratica una psichiatria dettata dall'esperienza e dal buon senso, inventandosi soluzioni e risposte a volte imprevedibili e inimmaginabili. Facciamo qualcosa per noi stessi e per difendere una disciplina nata dall'Illuminismo, e purtroppo destinata ad essere stritolata, per la sua ambiguità metodologica, da un tempo che vuole paradigmi certi, brevi, semplici e diretti. Dall'idea di psichiatria che trasmetteremo al futuro, ne va l'idea di uomo che il futuro avrà. Dunque la partita è del tutto aperta, e con persone come te ci sentiamo di giocarcela fino in fondo.