SENECA E DANTE, INSEGNANTI SULLA VIA PER LE STELLE - LA LIBERTÀ. NEL SEGNO DI CATONE

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24 settembre, 2017 - 18:07
[…] neque enim Cato post libertatem uixit nec libertas post Catonem.
(De constantia sapientis II, 2)
 
Libertà […] ch’è sì cara come sa chi per lei vita rifiuta.
(Commedia, Purg. I, 71-72)
 
La più evidente ma, allo stesso tempo, anche la più sorprendente intersezione tra il pensiero di Seneca e quello di Dante fu l’elogio di Catone Uticense, le cui virtù culminarono nel suicidio, gesto estremo di estrema libertà.
Seneca non si limitò a sostenere che il suicidio fosse lo strumento attraverso cui l’essere umano avrebbe acquistato in maniera piena e definitiva il dominio di se stesso – «chiedi qual è il sentiero della libertà? Qualunque vena del tuo corpo» (De ira, XV, 4) – ma lo attuò, dimostrando di credere nel principio secondo il quale il saggio «ritiene che per lui sia di nessuna importanza por fine alla vita» (Epistole LXX, 5), riscattando le contraddizioni che già i contemporanei gli rimproverarono e portando a pieno compimento il programma pedagogico della vecchiaia che aveva ispirato l’elaborazione di un efficace «linguaggio della predicazione» (Traina). Egli infatti non si accontentò di lasciare soltanto la testimonianza degli scritti, sia pure autobiografici quanto nessun’altra opera dell’antichità, ma, come documentò Tacito, dedicò agli amici che gli sarebbero sopravvissuti «l’unica cosa rimastagli, che era però anche la più bella: l’immagine della propria vita» (Annali, XV, 62) e soprattutto l’esempio della sua morte. E così imboccò la strada tracciata dallo stoico Catone, colui «che gli dei avevano dato come modello di uomo saggio» (De constantia sapientis, II, 2).
Diversa la prospettiva di Dante, il poeta della cristianità, che nel canto XIII dell’Inferno della Commedia condannò «coloro ch’ebbero contra sé medesimi violenta mano».
Nonostante la straziante compassione che il Dante personaggio provò verso chi, come lui, aveva patito i capricci della sorte avversa e la malvagità dei contemporanei, invidiosi e ingrati, il Dante narratore costrinse Pier della Vigna a riconoscere il proprio peccato di debolezza: «l’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto» (Commedia, Inf. XIII, 70-72). Ad imporlo fu la rigorosa applicazione della legge divina, sulla quale il poeta fiorentino fondò e sistematizzò la sua straordinaria opera della Rivelazione, paragonabile a quella che secondo lo storico Étienne Gilson era una vera e propria «cattedrale di idee», la Summa Theologiae di San Tommaso.
Dante si allineò alla posizione dei padri della Chiesa e, in particolare, proprio a quella espressa nell’opera di Tommaso il quale, traendo ispirazione da Sant’Agostino, aveva stabilito: «seipsum occidere omnino licitum non est et hoc triplici ratione» (Summa Theologiae II, II, 64, 5). Il suicidio avrebbe infatti posto l’essere umano contro natura («naturaliter quaelibet res seipsam amat»), contro la comunità di cui era parte («iniuriam communicati facit») e, soprattutto, contro Dio («vita est quoddam donum divinitus homini attributum»). Tommaso, considerando che la carità fosse dovuta nei confronti di se stessi prima e più di quanto non lo fosse nei confronti altrui (II, II, 26, 4) aveva concluso che il suicidio integrava un peccato persino peggiore dell’omicidio («gravius peccat qui occodit seipsum quam qui occidit alterum» I, II, 73, 9). Da ciò dipese la scelta dantesca di collocare il girone dei suicidi al di sotto di quello dei violenti contro il prossimo. Quanto all’ideazione della punizione inflitta alle anime di questi peccatori, il poeta fiorentino nel De vulgari eloquentia aveva già attribuito la salus alla componente vegetativa che, insieme a quella sensitiva e a quella razionale, completava la tripartizione aristotelico-tomista dell’anima umana. Perciò coloro che avessero violato l’istinto di autoconservazione, condiviso con le creature vegetali, avrebbero scontato il contrappasso della trasformazione in piante e patito la scissione conflittuale dell’anima, la schizo-frenia, che veniva così a interferire con il gesto suicida. La definizione della selva dei suicidi attraverso antitesi e negazioni e l’intrico del paesaggio, insieme allo spericolato contorsionismo sintattico che caratterizzò il canto, attuarono la rappresentazione di un’anima senza pace, violenta contro se stessa.
L’opera di Dante dunque, sublimando mediante la poesia i principi elaborati dalla patristica, sembrerebbe confortare la portata universale di un’osservazione di De Sanctis, secondo il quale «quanto il cristianesimo abbia modificato la scienza e la morale e quindi l'arte antica, si può inferire da questo solo: il suicidio antico è virtù, il suicidio moderno è colpa; il suicida pagano è un eroe, il suicida cristiano è un codardo».
L’affermazione può tuttavia essere confutata con riferimento a entrambi i termini di paragone che essa prese in considerazione. Già Platone e Aristotele, infatti, salvo specifiche eccezioni condannarono il suicidio sulla base di motivazioni che sarebbero state in seguito mutuate dai padri della chiesa. In particolare, Platone sostenne: «una cosa è chiara che cioè gli dei si prendono cura di noi e, noi uomini, siamo un po’ come un loro possesso. E dimmi un po’, allora, non ti arrabbieresti anche tu se uno dei tuoi schiavi si uccidesse a tua insaputa senza che tu avessi consentito alla sua decisione di morire e non lo puniresti, per questo suo gesto, se ne avessi ancora la possibilità?» (Fedone, VI). Dal suo ragionamento, fondato sulla negazione della libertà dell’essere umano rispetto agli dei-padroni, dipese la prescrizione di seppellire fuori del centro abitato i suicidi, quasi a scongiurare la ritorsione delle divinità nei confronti di tanta disobbedienza. All’estremo opposto, però, anche Sant’Agostino (De Civitate Dei, I 22, 23, 24) e San Tommaso (Summa Theologiae, suppl. 96, 6) ammisero quei suicidi che, ispirati da Dio, si configuravano piuttosto come martiri.  
Perciò sull’ortodossia cristiana di Dante non è lecito né proficuo dubitare, neppure dopo aver constatato che proprio a Catone il poeta fiorentino, sulla scorta del modello virgiliano (Eneide VIII, 670), affidò il compito di custodire, con la severità che gli fu propria in vita, il regno del Purgatorio; vale a dire il teatro della liberazione dal peccato e l’itinerario del viaggio verso il cielo, che costui esortava le anime a compiere senza indugi e senza alcuna nostalgia per la vita terrestre. Nella Commedia si intersecarono riferimenti a tre differenti viaggi, secondo un’articolazione sui tre livelli, storico, narrativo e allegorico: il peregrinare di Dante, di corte in corte, in seguito all’esilio da Firenze; l’attraversamento di Inferno, Purgatorio e Paradiso lungo il quale si sviluppò la vicenda narrata nel poema; il pellegrinaggio espiatorio della anime impegnate a risalire il Purgatorio. Tre esperienze distinte seppure a tratti sovrapposte, accomunate tuttavia sul piano teleologico dalla loro utilità a ricondurre il viaggiatore a Dio.  
Il gesto di Catone, quindi, anche dalla prospettiva cristiano-medievale di Dante non allontanò il suo autore da Dio ma lo rese addirittura degno di presiedere il cammino durante cui le anime si sarebbero spogliate, sia pur faticosamente, delle passioni terrestri per fare finalmente ritorno alla patria celeste.
Al riguardo, Auerbach ritenne che il suicidio di Catone risultò «una prefigurazione di quella libertà cristiana che ora egli è chiamato a custodire e in vista della quale anche qui egli resiste ad ogni tentazione terrena; di quella libertà cristiana da ogni cattivo impulso che porta all'autentico dominio su se stesso, appunto quella libertà per raggiungere la quale Dante è cinto del giunco dell'umiltà, finché la conquisterà realmente sulla sommità della montagna e sarà coronato signore di se stesso da Virgilio». Insomma, «vindica te tibi» (Epistole I, 1), secondo la perentoria esortazione di Seneca.
Ma per portare a compimento l’obiettivo della rivoluzione dell’interiorità intrapresa dal filosofo latino, l’uomo avrebbe dovuto cessare le occupazioni che lo avevano distratto dalla cura di sé, appesantendone l’anima. Perciò la promessa dell’immensità fu condizionata da Seneca al previo affrancamento dalle distrazioni terrestri: «in alto si trovano spazi immensi e l’anima è ammessa a possederli, ma a patto che porti con sé il meno possibile di elementi corporei, che si sia mondata da ogni impurità e si sia innalzata libera e leggera e contenta del poco» (Questioni naturali I, Pref. 11). Anche a questo proposito, l’atteggiamento di Catone tratteggiato da Lucano offrì un prezioso esempio di austerità, tenuto conto del fatto che «egli considerava il semplice atto di sfamarsi alla stregua di un banchetto e un tetto per ripararsi dal freddo come una sontuosa dimora e il vestirsi di una toga ruvida, al modo del romano Quirite, come una veste preziosa» (Bellum Civile, II, 390).  
La comune ammirazione per Catone determinò anche un’intersezione di carattere stilistico, dal momento che nella Monarchia Dante adottò una formulazione che parrebbe ispirata alla concinnitas senecana, per riconoscere che il nemico di Cesare «preferì uscire libero dalla vita, piuttosto che senza libertà restare in essa» (II, V, 15). Dante dunque, lungi dal giustificare semplicemente il suo suicidio in ragione dell’ignoranza della Rivelazione sulla quale aveva eretto quell’enclave di beatitudine che fu il Limbo, lo celebrò alla stregua di un atto eroico, ispirato dalla medesima coscienza del dissenso che avrebbe guidato anche lui durante la sua travagliata esistenza. 
 
La coscienza del dissenso
 
L’in-venzione della coscienza fu opera di Seneca, sulle cui orme si sarebbero incamminati Shakespeare, Goya, Dostoevskij, Van Gogh e Freud.
Con-sciens (talvolta declinato con-scius) era termine originariamente impiegato per esprimere la condivisione di un sapere con qualcun altro. Dalla complicità tra due o più individui si passò all’interiorizzazione, al confronto con se stessi, per opera di Terenzio che inserì la parola nel contesto di una più ampia espressione: «ego conscia mihi sum, a me culpam esse hanc procul» (Adelphoe, 3, 2). Successivamente Orazio vi ricorse per esprimere il concetto di rimprovero: «Hic murus aëneus esto: nil conscire sibi, nulla pallescere culpa» (Epistole I, 1, 60-61). Toccò quindi a Seneca riassumere in un’unica parola, conscientia, la straordinaria complessità che ne avrebbe poi assunto il significato definitivo, conferendo, come del resto fu solito fare, nuovo e maggior valore a verba (e retrostanti res) non originali. 
Egli addivenne alla straordinaria scoperta della propria interiorità essendo stato costretto dalle contingenze politiche a dedicarsi con sempre crescente impegno all’otium anziché al negotium: vir fortis, trasformò la necessità storica in virtù filosofica e sovvertì la gerarchia dei valori quiritari e i principi dello stoicismo, dimostrando che l’animo incontrovertibile dell’aspirante saggio avrebbe annientato le avversità e non viceversa (De providentia II, 1).
Il rivoluzionario ripiegamento verso l’interiorità e la correlativa condanna della vita pubblica furono certamente stimolati dalla tragica deriva politica che aveva segnato il tramonto della Repubblica e dei suoi valori fondamentali; infatti, come spiegò Traina commentando il De brevitate vitae, nella poetica senecana «emerge il senso acuto di una realtà instabile, di un’esistenza perennemente insidiata; come se, ad ogni passo, dovesse mancare il terreno sotto i piedi […] Da Tiberio a Nerone e, poi, sotto Domiziano, le famiglie senatorie vivono una vita precaria, sospesa a un cenno di Cesare».
La medesima drammatica dialettica tra potere egemone e intelligencija si sarebbe ripetuta nella storia culturale occidentale: l’arbitrio dei principi infatti non portò alla libertà una minaccia peggiore di quella della ferocia dei re medievali, dell’autoreferenzialità della borghesia ottocentesca, dell’invasamento delle dittature del XX secolo.
L’attenzione posta sul presente (si consideri uno dei significati dell’avverbio modo) e l’esortazione a ritrovare la misura, il limite, insomma il modus – alle quali Seneca pervenne per fronteggiare l’alienazione e gli eccessi della propria epoca – definirono la modernità intellettuale dell’età classica, rispetto alla quale la modernità dell’età di mezzo e quella dell’età borghese avrebbero contratto un importante debito.
I risultati della riflessione, quindi, furono nel complesso assai maggiori rispetto all’invenzione della sola coscienza del dissenso; nondimeno il processo di conquista dell’interiorità, in quanto geneticamente legato al conflitto tra l’individuo e la comunità, ebbe il sapore di una ribellione e l’imperativo «in te ipse secede», se mai costituì una ritirata, fu una ritirata strategica all’interno dell’ultimo cerchio di mura, al riparo delle quali stabilire l’auto-nomia individuale riconoscendo alla coscienza la funzione di legge sovrana.
Distinguendo l’importanza della coscienza, Seneca prese coscienza della più importante distinzione: quella tra il bene e il male. Se per un verso ammonì che il peccatore, pur riuscendo a sfuggire alla punizione umana per il male commesso, non avrebbe comunque potuto eludere il senso di colpa e la tortura della conscientia (Epistole IIIC, 15-16) – la quale aveva finito per soppiantare quello «spirito divino che osserva e spia i nostri vizi» (Epistole XLI, 1) – per l’altro attribuì al medesimo ineludibile giudice anche il ruolo di miglior consigliere. Era stata appunto la scoperta della coscienza a indurlo a relativizzare in termini qualitativi, anziché quantitativi, il tempo e a fargli concludere che «non è un bene vivere, ma vivere bene» (Epistole LXX, 4).
Vivere bene per Seneca significò prepararsi a vincere la morte o, meglio, la paura che essa procura e perseguire la virtù; in ciò assistiti dallo spirito divino dimorante nell’animo dell’individuo (e anzi, come detto, con esso coincidente), dal momento che «nessun uomo è virtuoso se privo di un dio» (Epistole XLI, 2).
Unicamente a questo dio interiore sarebbe stato peraltro necessario e, allo stesso tempo, sufficiente rispondere, senza bisogno di «innalzare le mani al cielo né [di] pregare il guardiano del tempio affinché permetta di avvicinarci all’orecchio della statua del dio, quasi che così potessimo più facilmente essere ascoltati: la divinità ti sta vicino, è con te, è dentro di te». Seneca pertanto esortò a non essere distratti e assillati dal rito pubblico, quella religio civilis caposaldo del mos maiorum contro cui si era abbattuta la scure di Lucrezio, a dimostrazione che la difesa dell’interiorità rispetto al pericolo dell’alienazione fu e sarebbe rimasta il punto di convergenza di pensatori che traevano spunto da posizioni dottrinali anche distanti. Davvero il «linguaggio dell’interiorità» (Traina) si sarebbe imposto per la sua comprensibilità universale.
L’ostilità verso la pratica religiosa e le sue convenzioni si spiega non solo alla luce del proposito di vincere il timor – ad essa naturalmente connesso e nemico del saggio tanto quanto l’alternativa proiezione verso il futuro, la spes – ma anche in ragione della diffidenza nei confronti delle mode, degli usi comuni e più in generale di tutto ciò che possedeva connotati popolari. Del resto, autentico specchio delle trasformazioni sociali, il termine populus un tempo accostato a quello di Senatus, da organo vitale di un corpo sano e unitario, era degradato fino a corrispondere al greco ὅχλος, massa informe, male dilagante, che della decomposizione (corruptio) di quel corpo era stato causa e, al contempo, effetto.
Coerentemente Seneca predicò il disprezzo di qualunque altra espressione di conformismo, ritenendolo il peggior nemico della coscienza individuale, il principale ostacolo alla consapevole distinzione tra ciò che è autenticamente bene e quanto invece non lo è: «non sappiamo valutare cose che vanno valutate non in base all’opinione comune, ma in base alla natura; esse non hanno niente di magnifico, da cui il nostro spirito possa essere attratto, eccetto la nostra abitudine di ammirarle. Infatti, non vengono lodate perché sono desiderabili, ma vengono desiderate perché sono lodate» (Epistole LXXXI, 29). In questo intransigente rifiuto dell’opinione comune riecheggiava ancora il modello Catone, a proposito della cui insofferenza verso il malcostume dell’ormai agonizzante Repubblica Plutarco raccontò: «era convinto che si dovesse percorrere la strada opposta alle abitudini del suo tempo, perché secondo lui non erano buone e avevano bisogno di un cambiamento radicale […]. Spesso, dopo colazione, si faceva vedere in giro scalzo e senza tunica; non è che con queste stranezze cercasse la notorietà, ma voleva abituarsi a provare vergogna soltanto per le cose che davvero lo meritano e a non preoccuparsi delle altre che di cattivo hanno solo la fama» (Vita di Catone, 6). Durante il viaggio della vita, anche Seneca avrebbe esortato a scegliere con attenzione e in coscienza il percorso da intraprendere, in quanto «tutte le strade più frequentate e note sono le più ingannevoli. La regola alla quale dobbiamo più fedelmente attenerci è di non seguire come pecore il gregge che ci cammina davanti, dirigendoci non dove si deve andare, ma dove tutti vanno. Eppure non c’è cosa tanto atta ad implicarci nei mali più gravi, quanto il nostro adeguarci alle chiacchiere, il ritenere giusto ciò di cui tutti sono fermamente convinti e, poiché disponiamo di innumerevoli esempi, il vivere non di ragione, ma di conformismo» (De vita beata I, 3).
In Al di là del bene e del male, Nietzsche ritenne che anche questa folla indistinta possedesse una propria coscienza, la «coscienza del gregge» appunto, rispetto alla quale ogni manifestazione di autonomia, «la volontà di far parte per se stessi», insomma «tutto ciò che innalza l’individuo al di sopra dell’armento prende da questo momento significato di cattivo». Mezzo secolo più tardi, Artaud nel saggio su Van Gogh, che egli considerò «suicidato della società», concluse che il padre dell’espressionismo «poteva trovare l’infinito se la coscienza bestiale della massa non avesse voluto appropriarsene e tenerselo stretto tra le cosce». L’intellettuale francese però sarebbe stato ancora più esplicito nella definizione della drammatica dialettica tra coscienza individuale e coscienza collettiva e delle tragiche conseguenze del dissenso: «la società ha fatto strangolare nei suoi manicomi tutti coloro di cui ha voluto sbarazzarsi o difendersi, poiché s’erano rifiutati di rendersi complici con lei di certe incredibili oscenità. Perché un pazzo è anche un uomo che la società non ha voluto ascoltare e a cui ha voluto impedire di pronunciare delle insostenibili verità. […] Van Gogh aveva scoperto che cosa e chi era, quando la coscienza generale della società, per punirlo di essersi sottratto a lei, lo ha suicidato».  
L’elaborazione della morale del gregge conseguì, secondo Nietzsche, all’istinto di obbedienza spinti dal quale, in maniera docile e del tutto spontanea,  molti si lasciano soggiogare da pochi – «in ogni tempo, da quando è esistita l'umanità, sono esistiti anche armenti umani (gruppi familiari, comunità, stirpi, popoli, Stati, Chiese) e c'è stata sempre una enorme massa di gente che obbedisce, in rapporto al piccolo numero di coloro che comandano» – al punto che, «con il progredire di questo istinto sino alle sue estreme aberrazioni», persino questi pochi finirebbero per obbedire a quello stesso strumento di comando che essi medesimi hanno imposto.
Di fronte a un meccanismo così paradossale, preordinato ad annientare le coscienze individuali, l’intellettuale consapevole di se stesso si sentì investito di una missione pedagogica.
Seneca rivendicò questa funzione, non senza un certo orgoglio, nelle Questioni naturali (III, Pref. 1) – oltre che nelle Epistole (VIII, 2-3) – ed essa si rivelò nelle sue opere integrando la funzione poetica, sulla quale anzi talvolta finì per prevalere, condizionando ogni scelta stilistica. Costretto ad «allontanarsi dalla stanza dei bottoni» (Traina) della res publica minor, egli si convinse di poter giovare alla res publica maior attraverso i propri insegnamenti.  
Il ruolo dei docenti e dell’istituzione scolastica nel complesso sarebbe stato uno dei bersagli della polemica di Nietzsche nei confronti della sua epoca: era la scuola guglielmina – quella ridicolizzata da Heinrich Mann attraverso la figura tragicomica del professor Unrat – l’ovile presso cui il gregge veniva accuratamente selezionato, per castrarne l’indipendenza e farne obbedienti «servitori della moda». L’altare insomma sul quale lo studio e l’insegnamento della storia erano stati sacrificati allo scopo di giustificare l’egemonia di quella bovina creatura reazionaria che fu ed è il tipo borghese.
Applaudendo l’isolato eroismo intellettuale di Sigieri di Brabante, Dante sembrò voler denunciare la non dissimile condizione delle Università Medievali rispetto alla quale soltanto l’amore per la verità indusse l’averroista a ribellarsi: egli infatti, nonostante i pericoli a cui andò incontro, «leggendo nel vico degli strami, sillogizzò invidiosi veri» (Par. X 137-138), verità scomode, «insostenibili» come quelle di cui avrebbe parlato secoli dopo Artaud.     
Invidiosi veri però furono anche i malcostumi denunciati dallo stesso poeta fiorentino che nel confronto con l’avo Cacciaguida (Par. XVII) manifestò la consapevolezza tanto dell’importanza della missione di cui era stato investito per grazia divina, quanto delle sue conseguenze presso i contemporanei. Perciò, pur prevedendo che la devozione alla verità avrebbe reso la Commedia un’opera inattuale – invero qualunque «coscïenza fusca o de la propria o de l'altrui vergogna pur sentirà la tua parola brusca. Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, tutta tua visïon fa manifesta; e lascia pur grattar dov' è la rogna» (124-129) – Dante trovò coraggio pensando al servizio che avrebbe reso a «coloro che questo tempo chiameranno antico», una res publica maior che vinceva i confini non soltanto dello spazio, l’ingrata Firenze, ma anche e soprattutto del tempo. E, rassicurato da questo pensiero, non avrebbe esitato a volgere i propri rimproveri contro «le più alte cime», benché avesse candidamente ammesso il timore procurato dalla prospettiva dell’inimicizia dei più potenti personaggi della propria epoca: «per che di provedenza è buon ch'io m'armi, sì che, se loco m'è tolto più caro, io non perdessi li altri per miei carmi» (109-111).
Del resto Dante, già nella Monarchia, aveva delineato quella responsabilità universale dell’essere umano, legata all’amore per la verità che impone di giovare ai posteri quanto si è tratto giovamento dagli avi. Un principio assonante a quello espresso da Seneca nel De brevitate vitae (XIV, 1) secondo il quale «Soli omnium otiosi sunt qui sapientiae vacant, soli vivunt; nec enim suam tantum aetatem bene tuentur: omne aevum suo adiciunt; quicquid annorum ante illos actum est, illis adquisitum est».
Tra i precetti che Seneca consegnò ai posteri ci fu anche quello di non lasciarsi «logorare in una volontaria schiavitù da un ingrato ossequio tributato ai superiori» (De brevitate vitae II, 1), un’occupazione alienante, quella del compiacimento del potere, che tuttavia lo stesso filosofo praticò nei confronti dell’odiato liberto di Claudio, Polibio, allorché si trovava proprio come Dante nell’insopportabile condizione di esule.
La stessa schizofrenia avrebbe portato alla pazzia il protagonista diviso in due de Il sosia di Dostoevskij. Due anime confliggenti all’interno della medesima coscienza. La coscienza delle antinomie. Anche Shakespeare, del resto, pur deridendo l’ambizione sociale di Malvolio nella Dodicesima notte, compì in pratica enormi sforzi per ottenere uno stemma nobiliare e riscattare la vergogna legata al proprio mestiere. Fu appunto la contraddittoria relazione che egli intraprese con la società dei suoi tempi a renderlo un così significativo profeta della modernità.   
Di fronte all’accusa di incoerenza, Seneca si difese ricorrendo a una fondamentale conquista dello stoicismo di mezzo: il principio del progresso, secondo cui l’essere umano, in quanto creatura perfettibile, avrebbe potuto elevarsi dalla miseria intellettuale e spirituale fino a raggiungere la saggezza, percorrendo le diverse tappe di un lungo viaggio. Il viaggio della vita.
 
Viaggio e prospettiva esterna
 
La Commedia si aprì istituendo il parallelismo tra cammino ed esistenza terrena. Moto del corpo ma anche dell’intelletto, come avrebbe dimostrato l’esortazione di Ulisse a «seguir virtute e canoscenza» (Inf. XVI, 126). In effetti, non soltanto lo sviluppo ma persino il senso del poema si ressero sull’interazione tra i differenti e addirittura antitetici significati attribuiti al termine peregrinatio nel corso del medioevo: dall’originaria intenzione di esprimere la condizione di marginalità, quando non addirittura di clandestinità, di coloro che si trovano ad andare per agros, vale a dire a percorrere strade poste fuori dai centri abitati i cui dimoranti guardavano con sospetto questo genere di viaggiatori, la parola passò gradualmente a individuare la pratica sempre più diffusa di raggiungere la Terra Santa o altri luoghi sacri per espiare i peccati, chiedere la grazia.
Si compì dunque una radicale trasformazione: il pellegrino religioso avrebbe beneficiato di uno status giuridico particolarmente favorevole, assicurato da apposite patenti, e i segni distintivi che indossava gli avrebbero garantito accoglienza e aiuto. Dante narratore, peregrinus suo malgrado, diede conto del marchio di infamia che gravava sull’esule e del caro prezzo al quale si sottoponeva chi era costretto a elemosinare ospitalità di corte in corte, sentendosi spesso rifiutare soccorso e protezione e provando «sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e 'l salir per l'altrui scale» (Par. XVII, 58-60); Dante personaggio scelto da Dio per compiere il pellegrinaggio esemplare, beneficò invece di un permesso speciale da opporre ai demoni che ne ostacolarono il passaggio: «vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare» (Inf. III, 95-96; Inf. V 22-24; Inf. VII 8-12).
Trovandosi nel Purgatorio, poi, in mezzo ad altri pellegrini diretti come lui verso la salvezza, il poeta si rese conto che, dopo la morte, sarebbe tornato ad affrontare le fatiche del percorso espiatorio, consapevole che quelle terrene, sperimentate durante l’esilio, ne furono una prefigurazione; egli, anzi, se ne lasciò ampiamente ispirare nella descrizione della scenografia spaziale, temporale ed emozionale del più terreno tra i regni dell’aldilà.
Dalla lettura complessiva della Commedia, emerge dunque l’idea della vita-viaggio condotta verso un nuovo inizio. Un concetto già espresso da Seneca che, ricorrendo a un efficace ossimoro, definì la morte vero e proprio dies natalis. Per il filosofo latino l’esperienza terrena, così incerta e insidiosa, era una traversata marina durante la quale spesso l’individuo non sarebbe stato padrone della navigazione: la metafora impiegata da Dante nel Convivio (I, 3, 5) per rendere l’idea della propria condizione di esule – «veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade» – avrebbe infatti rievocato l’immagine della navis quassa che Seneca riferiva alla situazione del sapiens ormai privato di autorevolezza, estendendo all’individuo una simbologia tradizionalmente riservata al funzionamento delle istituzioni patrie.
Tanto il viaggio intrapreso dall’incamminato verso la saggezza (proficiens) quanto quello del penitente in cerca del perdono (inizialmente homo viator e, poi, peregrinus) avrebbero teso verso il fine ultimo dell’incontro tra l’animo umano e lo spirito divino: se per Dante il premio delle sofferenze terrene sarebbe stato il ritorno a Dio, per Seneca i mali sopportati durante la vita avrebbero offerto all’uomo virtuoso l’occasione per emulare, rivaleggiare e infine trionfare sulla divinità che non era né sarebbe stata costretta ad affrontare analoghe prove.
Perciò, alla luce di questa profonda differenza e a dispetto dei numerosi tentativi di cogliere una profezia di cristianità nel pensiero di Seneca – culminati con l’invenzione di una corrispondenza con San Paolo – non si può proprio sostenere alcuna coincidenza tra le rispettive concezioni del divino; tuttavia lungo i percorsi che avevano rispettivamente immaginato alla riconquista del cielo, Seneca e Dante individuarono entrambi un punto d’osservazione così distante dalla terra da consentire una prospettiva intellettuale totalmente distaccata dagli affanni che contraddistinguono la vita su di essa; così, nella Commedia, «l’aiuola che ci fa tanto feroci» (Pd. XII 151) risultò un’esplicita citazione dell’aia che nelle Questioni naturali (I, Pref. 10) eserciti di formiche dotate di intelletto umano si sarebbero contese con la medesima sete di conquiste che portò gli uomini a litigarsi il mondo «ferro et igne». Dallo spazio, il mondo e le umane cose sarebbero apparsi talmente infimi e meschini da non destare alcun interesse in chi, come lo Scipione ciceroniano, avesse goduto di una simile visione astronautica.
Seneca e Dante immaginarono questo speciale osservatorio tramutando in ispirazione poetica l’esperienza personale che li aveva costretti ai margini delle rispettive società, ad osservarne le contraddizioni da una posizione defilata. Perciò la loro opera risultò inattuali e sconveniente quanto quelle di un gran numero di altri avanguardisti: Courbet, pur di intraprendere la rivoluzione realista, fu rifiutato all’Esposizione universale e, quindi, allestì a proprie spese l’esterno Pavillon du realism; Dostoevskij, disgustato dall’ipocrita mentalità borghese che si stava diffondendo in Russia sul modello francese, si rifugiò nel sottosuolo; Gauguin, Rimbaud e Conrad si immersero, chi idealmente, chi concretamente nella natura, alla ricerca di se stessi; Van Gogh guardò dentro di sé per poi ritrarsi in mezzo agli internati, incarnando lo spirito inquieto di Amleto, il tragico principe che, pur di sottrarsi ai dubbi suscitati in lui dall’esistenza presso la corte di Elsinor, si era riparato nella follia.
In ciò, dunque, consistette la profezia di modernità espressa da Seneca e da Dante: la delusione nei confronti della morale imperante, la morale del gregge, e il conseguente conflitto con il potere egemone avrebbero costretto, in ogni epoca, gli intellettuali dotati di coscienze indipendenti a gravi ristrettezze di mezzi ma, allo stesso tempo, li avrebbero resi liberi di maturare quella straordinaria apertura di vedute che permise loro di giungere alla scoperta del mondo e soprattutto di se stessi.      
 
 
De-siderio
 
Sia Seneca sia Dante concepirono l’ascensione dell’anima in cielo e la comune immagine della vista astronautica della terra, sotto forma di insignificante aia, attesta proprio l’influenza della tradizione latina sull’itinerario del viaggio dantesco, escludendo così che esso abbia tratto ispirazione esclusivamente dalla seconda lettera di San Paolo ai Corinzi (12, 1-4) e dalla letteratura odeporico-escatologica islamica.
Del resto, sebbene l’occidente precristiano avesse confinato l’oltretomba nel sottosuolo (a eccezione del Sogno di Scipione di Cicerone), l’idea di un legame tra l’uomo, esule in terra, e il firmamento fu evocata dal termine latino desiderium la cui etimologia rivela chiaramente il rimpianto legato al distacco dalle stelle; un sentimento nostalgico che implica al contempo la speranza di tornarvi.
Cosa fu la Commedia se non, a livello poetico, l’allegoria del ritorno dell’umanità alla patria celeste dopo l’esilio terreno e, a livello pratico, un’elencazione di esempi, precetti e moniti finalizzati allo scopo? Dante rivendicò espressamente l’utilità del suo poema, per quanto scomodo, definendolo «vital nodrimento», mentre nel De monarchia aveva già attribuito all’uomo il medesimo compito fondamentale individuato da Seneca: «prodesse hominibus».
Il carattere universale attribuito dal poeta fiorentino alla vicenda emerse dalla scelta di modificare la citazione biblica contenuta nella terzina iniziale della Commedia, «nel mezzo del cammin di nostra vita». Rispetto all’espressione impiegata nel libro del profeta Isaia – «in dimidio dierum meorum» (XXXVIII 10) – Dante non soltanto introdusse l’analogia tra vita e cammino, sconosciuta all’originale, ma si considerò rappresentante dell’intero genere umano, suggerendo a Benvenuto da Imola, autore del trecentesco Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, la considerazione «omnes sumus viatores et peregrini in mundo».
L’esistenza terrena, quindi, corrispose alla condizione di esule errante in cui si sarebbe trovato qualunque uomo in seguito all’allontanamento di Adamo ed Eva dal Paradiso. L’ulteriore esilio politico – che sarebbe stato ripetutamente profetizzato a Dante personaggio nel corso del proprio viaggio oltremondano – finì poi per corrispondere, con il suo carico di privazioni e di umiliazioni, alle fatiche purgatoriali grazie alle quali «l’umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno». Che il percorso alla volta delle stelle fosse accidentato e pieno di insidie era d’altra parte già stato espresso anche da Seneca «non est ad astra mollis e terris via» (Hercules Furens II, 437). Entrambi gli autori dunque concepirono e accettarono l’incontro con il male alla stregua di una necessità lungo la strada verso il cielo; visione identica che scaturì però da presupposti diversi, espressione dei differenti significati assunti nel tempo dal termine providentia – dal concetto stoico di universale Logos razionale, attraverso l’ancora indefinito uso ciceroniano e la divinizzazione operata da Tiberio delle qualità di lungimiranza e di prudenza del predecessore Augusto, fino al disegno divino di cui parlò San Paolo rivolgendosi ai Romani. Un prisma che era stato ulteriormente arricchito dall’atteggiamento di un eroe rivoluzionario, Enea, il victor tristis del poema virgiliano a cui Dante si sarebbe ampiamente ispirato. Minimo comun denominatore di tutte le declinazioni del concetto fu la serena accettazione delle avversità, quella capacità in cui per Lucrezio consisteva la pietas: «pacata posse omnia mente tueri» (De rerum natura, V, 1203).
Dal trionfo sulla paura, il timor legato alla religione tradizionale che Lucrezio aveva immaginato essere un terribile mostro incombente dall’alto dei cieli sulla testa degli esseri umani – «super mortalibus instans» da cui il concetto deteriore di superstitio – e che già Polibio (Storie, VI, 56) aveva considerato, sia pure con ammirazione, il più efficace instrumentum regni nelle mani della élite senatoriale per soggiogare il gregge, emerse l’esortazione etica a rivolgere uno sguardo diverso al cielo e, quindi, da questo alla terra. 
La riconquista della patria celeste venne a coincidere con la levità dell’anima finalmente libera dalle passioni, dagli affanni, dai turbamenti, in seguito alla contemplazione serena e distaccata di quanto, appesantendo lo spirito, seguitava a precluderne il ritorno alle stelle.
Dante sperimentò la beatitudine procurata dal progressivo dissolvimento del legame con l’esistenza terrena nel corso della sua risalita del Purgatorio, allorché la nostalgia veniva vinta dal richiamo del Paradiso. Allo stimolo sonoro allusero chiaramente i ripetuti riferimenti alla tradizione monodica dei canti liturgici che accompagnavano il cammino delle anime espianti attraverso tutta la seconda cantica, mentre, in cielo, alla maggiore intensità della luce sarebbe corrisposta una sempre più soave, benché meno intelligibile, sonorità e le due componenti, visiva e acustica, avrebbero dato ripetutamente vita a un’esperienza mistica di perfetta armonia.  Il confinamento della musica strumentale all’Inferno – presso il quale la cacofonia della dannazione finì per rappresentare l’antitesi della beatitudine polifonica del Paradiso – e il trionfo nel Purgatorio del canto istituirono una diretta relazione tra il ritorno alla patria celeste e la vocatio, ovvero la chiamata della vox.   
Questa considerazione porta alla moderna concezione del desiderio il cui termine freudiano di riferimento, Wunsch, distinto dal Lust che identifica il piacere concupiscente, la cupido che per Lucrezio era, insieme al timor, vulnera vitae, è stato tradotto da Lacan nel francese Voeu, vocazione.  
La parola tedesca individua infatti un’aspirazione, una tensione alla quale si sarebbe riferita già la radice indoeuropea *uen da cui deriva.
Il desiderio finirebbe così per costituire un imperativo etico alla consapevole rinuncia degli ingannevoli piaceri terreni di cui si pasce il gregge, per imboccare l’accidentato percorso che conduce alle stelle seguendo il richiamo della vocazione. Necessario allo scopo risulterebbe allora distogliere lo spirito dalle occupazioni più alienanti, dissentire rispetto ai capricci imposti dalla moda, «le cose desiderate [soltanto] perché sono lodate», rivendicare se per se stessi e considerare la propria vocazione, finendo così per scoprirsi già sulla via del ritorno, giacché con-sidero implica un impegno intellettuale profuso con la complicità delle stelle.
Trovarsi in armonia con il desiderio postula la serena accettazione dei disagi e delle difficoltà che si incontrano necessariamente lungo il percorso del dissenso, alla luce della consapevolezza che la repressione del desiderio per inseguire gli idoli del gregge comporterebbe un male di gran lunga peggiore: la malattia dell’alienazione, il «vivo inferno» di Lucrezio.
 
È questo l’insegnamento comune lasciato da Seneca e da Dante sulla via per le stelle, non soltanto attraverso le opere, ma anche mediante l’immagine delle loro vite. Vite votate al dissenso e all’impegno intellettuale. Vite sperimentate attraverso le difficoltà poste dalle contingenze storiche. Vite inattuali perché rivolte al futuro, al desiderio di ricondurre la res pubblica maior alla sua patria celeste. 
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Condivido l'etica del cum-scire, della coscienza come condivisione del sapere dell'altro, cioè del suo desiderio. Il soggetto collettivo nasce lì. E muore lì, per far posto al suo rinnovamento. La vita morale è un lento dissolvimento del soggetto nell'oggetto. Il suicidio è solo un'accelerazione del processo di transizione.


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