IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

Perché non uso psicofarmaci?

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8 giugno, 2018 - 09:40
di Antonello Sciacchitano
Nel lontano 1961 la risposta me la diede Thomas Szasz nel suo classico Il mito della malattia mentale. Se la malattia mentale è un mito, non si possono usare farmaci contro di lei: i farmaci sono nel reale, i miti nell’immaginario. Si può agire sul reale attraverso l’immaginario, per esempio con l’ipnosi, ma non si può agire viceversa sull’immaginario con il reale. L’immaginario è più forte del reale, come dimostrano i deliri paranoici, che l’esame di realtà non corregge.

L’analisi di Szasz va al cuore del progetto, concepito da Pinel, di medicalizzare la malattia mentale. La tesi è che la malattia mentale sia un progetto mitologico, oggi si direbbe ideologico. Szasz discute e boccia il principio ippocratico di ragion sufficiente, per cui ogni evento morboso ha una causa patogena, che nel modo organicista di concepire la malattia mentale è somatica, mentre nel modo storicistico è psichica. I due modi si fondono in modo grottesco nell’organodinamismo alla Henry Ey. La malattia mentale sembra una malattia; il sembiante morboso fa comodo a chi attraverso la malattia mira a controllare la devianza sociale. Il manicomio è sempre stato ed è tuttora un doppione della prigione, fino a 40 anni fa anche in Italia.

In realtà la “malattia mentale” è un linguaggio che serve a giocare un gioco collettivo tra parti sociali. Non si può curare il linguaggio con le pillole, affinché, per esempio, l’italiano non parli italiano o lo parli meglio. L’ispiratore di Szasz fu G.H. Mead (1934) in America, propugnatore del primato della sociologia in psicologia. Il soggetto collettivo incide sul soggetto individuale attraverso “l’altro generalizzato”, di natura fondamentalmente linguistica. Lacan non si era ancora affermato. Eppure in Europa, precisamente già nel 1953 a Roma, Lacan parlava del sintomo nevrotico strutturato come un linguaggio.

Il linguaggio non ha cause; un linguaggio si apprende. Addirittura l’apprendimento linguistico è il modello di ogni futuro apprendimento. Ognuno apprende il proprio linguaggio e costruisce così il proprio inconscio, che per essere organizzato come un linguaggio è sin dall’origine collettivo, proprio come ogni vero linguaggio. (Il linguaggio privato non è un vero linguaggio). L’isterica apprende un certo linguaggio per sedurre, manipolare e ingannare l’altro. Per la medicina prefreudiana l’isterica era una simulatrice più o meno volontaria. Come intervenire farmacologicamente, se non ci sono cause né organiche né storiche che determinano l’apprendimento linguistico, quello isterico compreso? Addirittura, se l’inconscio è strutturato come un linguaggio, sembrerebbe che non abbia senso neppure parlare di direzione della cura. Eppure…

Eppure nel 1958 al colloquio di Royaumont Lacan tenne un lungo discorso sulla Direzione della cura e i principi del suo potere. Letto a 60 anni di distanza non dovrebbe sfuggirne l’ironia. Riassunto il discorso in sei punti, il primo afferma che la parola ha tutti i poteri della cura, nel senso che pilota il soggetto a riconoscere il desiderio, mentre il sesto conclude per l’incompatibilità del desiderio con la parola.

Allora?

Allora la parola non è messa meglio degli psicofarmaci nei confronti della cura della malattia mentale. La psicanalisi sembra condannata alla stessa inanità terapeutica dell’aloperidolo, che oggi non si usa più (gli psicofarmaci hanno vita breve). Eppure…

Eppure, nella lotta reale contro l’entità immaginaria della malattia mentale, la psicanalisi ha un piccolo ma decisivo vantaggio sulla biochimica. Le deriva dal fatto che la parola veicola una dimensione simbolica che la chimica non ha: l’intermediazione della legge. Concretamente la legge è ciò che collega e mette in interazione reciproca due soggetti: il soggetto individuale e il soggetto collettivo. La cosiddetta malattia mentale non è un’entità in sé, ma è il portato dell’alterata interazione tra i due soggetti. Le variazioni qualitative portano alle nevrosi cosiddette di transfert (isteria e coazione); le variazioni quantitative alle psicosi (azzeramento dell’interazione collettiva nell’autismo schizofrenico, esaltazione e diminuzione dell’interazione nelle psicosi affettive).

Teoricamente la farmacologia avrebbe un posto nell’armamentario terapeutico della civiltà per regolare e controllare tali interazioni: i tranquillanti maggiori e minori non fanno altro che sedare, ma non cambiano la struttura della malattia, se esiste. Persa per persa, la causa terapeutica ha una sua piccola giustificazione teorico-pratica; conviene comunque tentare la psicoterapia. La quale, sottolinea Szasz, non è niente in sé. È psicoterapico tutto ciò che si fa in compagnia dell’altro, dice nell’introduzione al suo capolavoro. Psicoterapia è un modo poco meno che generico per dire interazione tra soggetti. Qualcuno ha pateticamente preteso legalizzare l’interazione psicoterapeutica come professione, codificata da un albo. Ci mancherebbe un albo per codificare i rapporti sessuali.

La compagnia di Freud ha tuttavia un merito singolare e specifico: la clinica freudiana predispone al rovesciamento del discorso del soggetto; opera per realizzare un cambiamento soggettivo, nel senso che prende in considerazione il soggetto, scartato da molte pratiche vigenti, compresa gran parte di quella scientifica. Se è vero che esiste l’inconscio, che precede il conscio e lo condiziona, la psicanalisi non esclude la possibilità di aprire linee discorsive che sembravano chiuse. Che poi siano anche terapeutiche, è tutto da vedere caso per caso. Empiricamente la psicoterapia psicanalitica funziona in molti casi; teoricamente non è detto. Allora c’è qualcosa che va detto. Meglio senza farmaci, i quali potranno anche curare, ma tolgono la parola di bocca al soggetto.

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