CUORE DI TENEBRA
Viaggio al termine della psichiatria
di Gilberto Di Petta

MENTRE LA PSICHIATRIA SI ESTINGUE LA CLINICA RIVIVE NEL RACCONTO…

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14 agosto, 2018 - 16:01
di Gilberto Di Petta
E’ difficile da accettare, me ne rendo conto,
ma non sempre i comportamenti che non si riescono a spiegare sono frutto di follia
”.
C. De Rosa
“[…] porteremo la macchina dove vuoi, spiegheremo cosa significa il nostro infinito.”
P. Di Petta
Ed è anche l’unico che ha il coraggio di fare quello che il suo maestro voleva:
 aprire la finestra della sua stanza verso la libertà, il silenzio e la luce.

M. Lanzaro
 
 
 
La psichiatria, che, per certi versi, data la sua mancanza di indagini di laboratorio e strumentali dirimenti, sarebbe dovuta essere la branca più clinica della medicina, sta invece perdendo drammaticamente proprio la sua dimensione clinica. La clinica richiede tempo e riflessione, observatio et ratio. Un tempo che lo psichiatra contemporaneo sembra non avere più. La mia paura è che, con la scomparsa della dimensione clinica, scompaia anche il pensiero critico che fonda e che consegue alla clinica. E’ in questo modo che in due secoli e mezzo si è lumeggiata una ratio nell’ambito di quei disturbi psichici e comportamentali genericamente ascritti alla follia, e sottratti al linciaggio dell’orda. Mi pare che nel cuore della psichiatria si siano aperte delle falle che tendono a lacerarla, e nessuna delle placche che si stacca è versata alla clinica. E che fine fa, allora, questa nostra clinica? La ritroviamo, assai fulgida, nei romanzi e nelle pellicole cinematografiche. Forse la clinica non interessa più agli psichiatri contemporanei, ma, evidentemente, interessa ancora ad un pubblico di lettori colti, i quali sentono che la clinica degli stati psicopatologici è una via regia alla conoscenza dell’uomo.  Descriverò prima questa frattura scomposta della psichiatria tra i cui labbri  la clinica degli stati psicopatologici è scivolata via, poi esaminerò tre libri usciti di recente, due scritti da psichiatri, uno da un ingegnere, nei quali, invece, il gusto della descrizione clinica ha il sapore inconfondibile delle origini della nostra disciplina. 
   Una frattura scomposta si è aperta lentamente nel corpo della psichiatria stessa. Fino a squarciarla, e a farne un organismo disfunzionale. Fino al punto da far apparire, nello stato dei fatti, tre psichiatrie totalmente differenti, come se esse non avessero più nulla in comune. Si tratta di tre psichiatrie che strutturano tre mondi e tre modi di incarnarli diametralmente diversi. Essi sono così configurabili : 1) il mondo della psichiatria molecolare; 2) il mondo della psichiatria manageriale; 3) il mondo della psichiatria quotidiana.
Credo che nessuna disciplina medica abbia fatto, o subito, percorso dissociativo analogo. E tanto basti a ribadire la peculiarità della psichiatria stessa, o quanto meno la sua non facile omologabilità alle altre discipline mediche. Che fine fa, in questa triplice frattura, l’esperienza vissuta reciproca di psichiatri e pazienti, cioè lo sciame di fenomeni che costituisce la psicopatologia e la clinica di tutti i giorni? Ho sempre più l’impressione che la clinica del vissuto, non trovando più posto in nessuna di queste psichiatrie, espulsa come un nocciolo indigeribile, diventa racconto, romanzo, saggio di letteratura, pellicola cinematografica. Ma vediamo i dettagli.
Il primo mondo, quello più ufficiale, è il mondo della psichiatria molecolare. Esso è costituito e  trasmesso essenzialmente dalle Cliniche universitarie. E’, oggi, la ragion d’essere della psichiatria medica. Questo mondo molecolare è un’evoluzione della cosiddetta psichiatria organicista dell’Ottocento, o della psichiatria positivista. Alla sua base c’è la convinzione griesingeriana che le malattie mentali siano tout court malattie del cervello, con eziopatogenesi e terapia biologiche. E’ una psichiatria, questa, della quale abbiamo avuto tutti noi nozione durante gli anni di specializzazione. Certo, chi tra noi è più anziano ha visto la progressiva sparizione dalle Cliniche universitarie di quegli strutturati non allineati, in favore dell’avvento di dottorandi e di ricercatori molecolari. Fino a circa venti anni fa ancora si poteva incontrare una certa multidisciplinarietà in ambito accademico, e lo specializzando poteva percepire le sfumature e le contraddizioni della disciplina. Certo, che la psichiatria trasmessa nelle scuole di specializzazione, prevalentemente basata su DSM-5, neurobiologia, psicofarmacologia fosse lontana dalla psichiatria quotidiana di uno psichiatra, ormai è un dato che abbiamo dolorosamente acquisito.    In effetti questo sistema accademico-convegnistico-societario non è assolutamente rilevante, preso nel suo blocco, quando si va a discutere del caso clinico singolo. Questa psichiatria confonde brutalmente la psicopatologia e la clinica con la nosografia. Le diagnosi vengono date per scontate, e considerate entità naturali in maniera rozzamente ed ingenuamente fantascientifica.  Ne abbiamo nozione evidente, di questo mondo, durante i congressi nazionali ma, soprattutto, internazionali. Il controtransfert dello psichiatra clinico rispetto a questa psichiatria è soprattutto la noia. Una noia abissale, profonda. Un senso di estraneità. Quasi che ascoltasse cose che non hanno a che fare con il suo lavoro quotidiano. La noia per presentazioni sempre uguali, prevedibili, con grafici indecrittabili a primo acchitto, noia per il modo di procedere e, spesso,  noia e l’antipatia suscitata da chi professa questa psichiatria, quasi con mistica sacerdotale, ovvero con amministrazione del verbo e della verità. I cattedratici e i ricercatori di questo ambito spesso hanno l’aria di coloro che sanno, dei maestri del tempio, dei portatori della rivoluzione della scoperte scientifica, dei profeti della svolta. Invece la serietà dubitativa della ricerca dovrebbe farli apparire come dei mendicanti dell’essere, come dei mancanti, come coloro che si trovano con un pugno di mosche in mano o con una congerie di dati che spesso non sono congruenti. La locuzione più utilizzata nei sacri paper sulle riviste impattate ed indicizzate di questa psichiatria è this suggests. Ovvero, dopo tutta una elencazione di materiali, di metodi, di molecole, di esperimenti, di citazioni, lo psichiatra clinico, che rimarrebbe il destinatario del messaggio, rimane perplesso. Pensa a qualcuno dei pazienti che ha lasciato a casa e scopre che sul suo caso tutti questi Soloni non gli hanno detto nulla di nuovo.  Di fatto la ricaduta della psichiatria molecolare è quella di una psichiatria suggestiva, ovvero una psichiatria di suggestione. In questo momento, tuttavia, questa è la psichiatria mainstream, connessa con la psichiatria accademica di tutto il mondo, che promette dal 1845, ovvero da Griesinger, di riscrivere la storia delle malattie mentali. Personalmente ho sentito dire che la schizofrenia sarebbe come la Sclerosi Multipla o amenità del genere. Dunque con meccanismo flogistico autoimmune. Altre volte, più spesso, che la schizofrenia è un processo neurodegenerativo. Peccato che non si sappia di quali neuroni, cosa che invece è nota in tutte le vere patologie neurodegenerative.  Di fatto questa psichiatria ha alimentato la riscrittura di una decina di versioni del DSM, dimostrando uno sforzo di concordanza sulle definizioni, ma attribuendole spesso a contenuti altri. Il passaggio dal piano molecolare al piano nosografico al piano farmacologico è espressione, come dicevo, di una rozzezza medievale. Ritengo inutile soffermarmi sui profitti e sui giochi di potere che si muovono, invece, dietro questa psichiatria. L’impressione è di un gigantesco circuito che si autoalimenta, che mantiene il carrozzone della formazione accademica, i fondi per la ricerca, l’incremento delle pubblicazioni che fanno titolo, di quelle che contano.  Fino a quando nei trattati di anatomia patologica e di patologia generale non ci saranno delle pagine o un capitolo dedicato alle malattie mentali, la psichiatria molecolare rimane eterea, rimane l’avvenire di un’illusione, comeuna religione, parafrasando uno che ci sperava, o che diceva di sperarci, nelle conquista della biologia, come il vecchio Sigmund. Ho incontrato psichiatri veramente molto esperti che mi hanno confessato, a cena, che in trentanni di intenso lavoro sul campo non hanno mai letto uno, un solo articolo delle migliaia pubblicati in ambito di psichiatria molecolare. Cionondimeno essi hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Non credo che un cardiologo potrebbe dire lo stesso. Se, per ipotesi, improvvisamente sparissero tutte le Cliniche universitarie, l’ operatività dello psichiatra di trincea, impegnato nei Servizi, non ne risentirebbe effetto alcuno. Dunque, allo stato, questa psichiatria rappresenta una gloriosa inutilità ed un immenso spreco di risorse, a parte il rilascio della patente psichiatrica agli specializzandi (che poi dovranno re imparare da soli il mestiere). A questa psichiatria spocchiosa dobbiamo, tuttavia, almeno in parte, la rivoluzione di Franco Basaglia. Da uomo dotato di grandi prospettive, Basaglia provò grande rabbia nel vedere quanto l’assetto accademico fosse chiuso ad ogni tentativo di innovazione e di penetrazione. Per lui, come per Freud, grandi esclusi dall’Accademia autoreferenziale, vale il detto : “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo”  
C’è una poi una psichiatria manageriale, esercitata soprattutto fuori dalle università, in genere dai Direttori dei DSM e dai direttori di UOSM; è, questa, una psichiatria delle organizzazioni e di comunità. Anche a questo livello la clinica piuttosto scompare.  Il paziente non conta più come caso clinico singolo. Scompaiono la clinica, l’urgenza, la cura, il silenzio, il rischio, la prescrizione del farmaco. E’ una psichiatria di riunioni, di dati, di box virtuali, di processi, di procedure, di protocolli, di budget. Dal suo vertice i pazienti sfumano in utenti o clienti indistinti, massa critica, tutti uguali. Tutti psicotici, come la notte di Hegel, in cui tutte le vacche sono nere. E’ una psichiatria di collocamento, più che di collegamento, che distribuisce prebende, emolumenti, convenzioni, accreditamenti, che costruisce carrozzoni, residenze, che mercanteggia con il privato convenzionato. Essa occhieggia alle direzioni generali delle ASL. I suoi sacerdoti, come accenavo, sono i Direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale. La loro mission è aziendalizzata, debbono far quadrare i conti a seconda delle politiche e degli orientamenti vigenti. Sono dei burocrati. Condividono poco la giornata dell’operatore. Dànno molte cose per scontate. Quando si parla con loro si sente che, pur col sorriso sulle labbra, pur considerandosi territoriali e democratici, essi fanno parte integralmente dell’establishment. Essi sono il volto pulito dell’istituzione. Quello peggiore. Con la fusione delle ASL in macroaree i Direttori dei DSM si sentono dei piccoli imperatori. Il dominio del loro regno copre mari, monti e città. Il Direttore del manicomio aveva una sfera di influenza su circa 5-10-15000 persone, tra ricoverati e operatori. La sua sfera di influenza rimaneva confinata dentro la cinta muraria. Alcuni  direttori di DSM hanno una sfera di influenza potenziale su 1 o 2 o 3 milioni di persone. Essi hanno un ottimo alibi da contrapporre alla critica sulle disfunzioni del sistema, che è l’estensione del campo territoriale e l’impossibilità del suo governo. Del quale governo, anzi, governance, tuttavia, essi vanno fieri. Si lamentano in molti, per la verità. Quando ci parli sembra che gli sia piovuto il cielo addosso. Ma nessuno di loro si dimette mai. Hanno la loro parte nei convegni organizzati in zona, proprio come gli universitari. Generalmente, nei convegni, dicono cose abbastanza irrilevanti. Sono abbastanza odiati dagli operatori. Ho fatto lavori di gruppo con operatori che hanno preso metà del tempo per mettere da parte l’odio contro il Direttore. Di questo odio, ad ogni modo, essi si nutrono, come saprofiti, o lo ignorano. La sensazione che dà loro essere a capo di imperi così vasti è inebriante. Le cose che in maniera fintamente democratica fanno passare al vaglio delle riunioni con gli operatori sono già state decise in riunioni al vertice, nelle quali sono andati in genere a prendere ordini. Se fanno attività clinica la fanno nel privato. Ma il vero manager non fa proprio più attività clinica, la considera una cosa quasi senza senso, appartenente ad uno stadio precedente, larvatico della sua vita, cioè di quando era un illuso clinico. Poi ha scoperto, invece, che la sua vera vocazione è il potere. Il verbo di questa psichiatria è gestire. E’, questa, una psichiatria, oltre che di collocamento, gestionale. Che, storicamente, è succeduta alla psichiatria custodialistica. Questi 40 anni potremmo intitolarli : dalla reclusione manicomiale alla gestione territoriale. L’imbuto in cui è finita la rivoluzione psichiatrica è la gestione. Contano i contenitori logici, le strutture, anche se vuote, anche se funzionano al minimo filo di gas, anche se finte o su carta. I Direttori dei DSM, su imitazione dei cattedratici, tengono in piedi il sistema dei valvassini e valvassori che è caratterizzato dai vari posizionati, dai vari strutturati semplici, dipartimentali o complessi. Tutto un cerchio magico di galoppini, di bravi, in alcuni casi di leccaglutei. Tra costoro ci sono i vessati che hanno il compito di dire ai Direttori che va tutto bene e che si stanno tutti adoperando per realizzare la loro vision, La vision del lider maximo. Sulla porta di uno di questi lider, nel mio girovagare, ho trovato la seguente scritta : “Se mi stai portando un problema vuol dire che tu ne sei parte. Dunque, insieme al problema portami anche la soluzione. Altrimenti vuol dire che il problema sei solo tu”. Generalmente sono inspirati politicamente. Ma questo fa parte del gioco. Nessuno si scandalizza. E sono convinti, alcuni, che i loro operatori sono una massa di sfaticati, degenerati, fregastipendio demotivati. Essi sono affetti dalla Sindrome di Cadorna, ignobile generale capo di stato maggiore durante la Guerra del 15-18, che mandava schiere di fanti al massacro contro le mitragliatrici austriache senza esitazione. Spesso senza scopo se non l’effimera conquista di una quota di terreno carsico di poche centinaia di metri. Dunque il passaggio dalla figura del Direttore del manicomio alla figura del Direttore del terricomio è compiuta. Con la differenza che quelli o, meglio, alcuni di quelli, hanno fatto la rivoluzione, questi sono, chi più ci meno tutti, l’emblema della restaurazione. Absit injuria verbis. La faccia mia, come si dice a Napoli, sotto i piedi di quei tanti o di quei pochi Direttori che non sono così. Come il mio e quelli senza i quali il concetto di Salute mentale non esisterebbe più.  
C’è, da ultimo, uno psichiatra quotidiano, cioè di tutti i giorni, banale, di territorio, di centro diurno, di comunità, di spdc. Egli è il destino amaro che attende l’entusiasta e ignaro specializzando. La carne da cannone. Una psichiatria quotidiana che attualmente non si sente rappresentata né in sede universitaria, né di congressi, né di management aziendale, dove la parola clinica compare solo accanto a governance, ma vuol dire qualche altra cosa. Una psichiatria tradita dagli stessi psichiatri. Tradita tutti i giorni, perché negata come problema, dai molecolari e dai manager. Una psichiatria di cui nessuno parla. Lo psichiatra quotidiano, che tutti invocano e deprecano, come il pane quotidiano nella preghiera del Pater Noster, lo sfigato del discorso, è invece quello più numeroso, che si carica di responsabilità enormi, i cui pazienti sono di carne ed ossa, e non di carta, numeri epidemiologici o portatori di molecoline endocraniche. I pazienti di questo psichiatra sventurato,  in genere, in quanto puzzano di umano, della peggiore umanità, si suicidano, uccidono, si perdono, si drogano, si scompensano o, semplicemente, si trascinano giorno dopo giorno nella non vita che la cronicità della malattia gli riserva. Lo psichiatra sfigato dei Servizi ha in carico di centinaia di persone di cui risponde personalmente. E’ stressato dai turni, è affetto da stanchezza cronica, quando non da burn out (sindrome sconosciuta ai molecolari e ai manager). E’ oppresso dall’idea della denuncia, ha sul collo la responsabilità ogni giorno di quello che fa e di quello che non fa, di quello che scrive e di quello che non scrive, di quello che dice e di quello che non dice. Utilizza i congressi come valvole di sfogo per annoiarsi durante le relazioni e passeggiare in qualche piazza, o corteggiare qualche collega. E’ oppresso, oltre che da tutto il gravame che gli cade addosso, dai manager che pretendono che il suo lavoro quotidiano si ricalchi nelle cornici che essi hanno disegnato. E’ il milite ignoto, questo fante, rimasto in trincea con il cerino in mano, colui che non farà mai carriera, che deve inventarsi le soluzioni, fare il saltimbanco, fare le capriole, cercare di portare la pelle a casa. Vessato, in un mondo che celebra le magnifiche sorti e progressive, egli è rimasto a fronteggiare tossici, dementi, homeless, ragazzini dirompenti, criminali antisociali e psicopatici con la patente di pazzi. Tutte le riforme che si succedono imprimono un marchio indelebile sulla sua pelle. Egli è il terminale di tutto. Sindaci, carabinieri, vigili, 118, Pronto soccorso, cittadini qualunque: tutti hanno lui sulla bocca. Per questo lo sfigato teme ogni riforma, perché pensa che si traduca nell’ennesima sodomizzazione a secco nei suoi confronti. Non può che fondersi gli emisferi cerebrali e rompersi quelli glutei. Un giorno, forse, egli ha avuto anche una vocazione. Oggi non sa più per chi combatte. La sua principale aspirazione è andare in pensione prima possibile. Se ha possibilità va via dal pubblico. Con gli anestesisti e i chirurghi, gli psichiatri quotidiani rappresentano il numero critico dei medici che lasciano il pubblico per il privato. Se avesse la possibilità di parlare, questo milite ignoto, se qualcuno lo ascoltasse, farebbe propria la frase del vecchio Gino Bartali : “Tutto sbagliato, tutto da rifare”. Ma non c’è pericolo, perché egli non conta niente, deve solo trascorrere l’intera vita a sentire, oltre ai deliri dei pazienti, quelli dei suoi colleghi furbi, capaci e fortunati: i  molecolari e i manager, confezionati come realtà meravigliose. Guai a criticare. Egli si ritrova, senza esserlo, a fare lo psicologo, il sociologo, il medico : come tu mi vuoi. Uno nessuno e centomila. Lo psichiatra quotidiano è buono per tutte le stagioni, per tutte le occasione, per tutti quegli esseri umani che non trovano cittadinanza da nessuna parte.  E’ lui l’ultimo erede del famoso modello biopsicosociale di cui non parla più nessuno. Perché lui ce l’ha addosso il biopsicosociale, che è l’essere umano. E non può mettere nessun trattino tra le varie specifiche. Credo che lo psichiatra quotidiano italiano, in questo momento, nel mondo occidentale, sia un eroe senza pari. Girando sopra e sotto l’Italia, in lungo e in largo l’Europa, ho imparato ad avere grande ammirazione di questi colleghi dallo sguardo umido e triste, come il viandante di Nietzsche, silenziosi, senza più la forza di protestare. Sono i veri eroi della quarantennale psichiatria italiana. Nessuno psichiatra europeo o americano accetterebbe di lavorare un’ora sola nelle condizioni in cui quotidianamente lavora lo psichiatra italiano. E per quello che è pagato lo psichiatra italiano. Che questo mio scritto porti lontano nel tempo, quando finalmente la psichiatria non esisterà più, questa figura unica, creativa, sfiancata e di eccezionale valore che è stato, a cavallo di questi due secoli, lo psichiatra italiano dei Servizi.
Non sarei arrivato alla lucidità di queste riflessioni se non dopo avere lavorato, negli ultimi anni, per molte ore in supervisione con specializzandi o con giovani clinici. Ebbene, mentre essi mi esponevano i loro casi clinici, mentre ne discutevamo, non ho mai sentito da loro citare una sola review, una sola metanalisi, un solo dato neuroscientifico, un solo nome di quelli che circolano dentro le brochure dei grandi convegni patinati della psichiatria mainstream. Gli ho sentito citare Freud, Minkowski, Kraepelin, Bleuler, Jung, Callieri e potrei continuare, Jaspers, e altri. Tutte letture fatte di stramacchia, personali, o perché consigliate dalle scuole di specializzazione in psicoterapia che essi, o alcuni di essi fanno. O nomi sentiti citare dai docenti che afferiscono alle loro scuole di specializzazione. Non ho mai sentito citare la vision di un Direttore di Dipartimento. Il sospetto è che sulla carne e sulle ossa degli operatori del quotidiano poggia tutta la peggiore psichiatria, ovvero quella dei pazienti e delle loro famiglie, quella vera, mentre i molecolari e i manager  si occupano del sesso degli angeli, lautamente retribuiti, e chiamati fuori del caos inestricabile. Come si comporterebbero uno psichiatra molecolare o un manager durante un turno di guardia notturno nel mio SPDC con almeno quattro chiamate dal PS, una crisi in reparto ed una consulenza urgente in ortopedia? Come si comporterebbero un molecolare o un manager a casa di un paziente barricato dove bisogna coordinare per un TSO? O di fronte ad una famiglia smarrita, stanca, provata? Di fronte ad una madre o ad un padre attoniti per l’esordio psicotico del figliolo, grande promessa della musica, dello sport, della scienza, che non ti mollano finchè non spezzi una parola in favore della speranza, anche se di parole, alla fine di un turno, non te ne rimangono più? Come mai le luci della ribalta stanno sui molecolari e sui manager e il buio sta sulle migliaia di operatori quotidiani silenziosi e sanguinanti? Come mai le fila delle vittime sono fatte di operatori? Come mai le denunce arrivano solo agli operatori?       
A questo punto, anche per rialzare il morale, e per farmi perdonare di questo sfogo, vi propongo tre letture intense e veloci per questa coda estiva che rimandano, invece, con una punta di soddisfazione, proprio al mondo della psichiatria clinica, che, credo, costituisca il primo amore di ognuno di noi.
Il primo romanzo è quello di un collega psichiatra, Corrado De Rosa. Il titolo è L’uomo che dorme, Rizzoli, 2018. Protagonista è propro uno psichiatra, il dottor Costanza, il quale, a dispetto del nome, vive nella precarietà della sua esistenza come unica certezza. Sullo sfondo di un complicato caso da inquadrare, un omicida seriale di prostitute, il dr. Costanza vive svogliatamente la ormai splendida città di Salerno. 
Il secondo è di Paolo Di Petta, ingegnere: I-dentity gen, L’erudita, Roma, 2018. Si tratta di un breve ma intenso excursus tra vite che brillano come mine, al sole che cuoce l’asfalto e il cemento della periferia metropolitana, metafora di un mondo il cui centro sfugge a tutti, e rispetto a cui ognuno di noi è periferico. Un mondo che ci tiene in orbita, come lanciati nel circuito di un gigantesco raccordo anulare, l’anello di Saturno che è anche il pianeta della malinconia. Qui la clinica entra in varie forme. C’è Nick, schizofrenico cronico post180 che è l’autentico genius loci della Traversa, la via Gluck o la via Paal dei protagonisti; c’è il paranoico inventore del moto perpetuo, e c’ è’ il giovane psichiatra pazzo che taglia con il mondo e scompare arruolandosi nella Legione straniera, c’è l’adolescente autolesionista.  
Il terzo è di Massimo Lanzaro, psichiatra: DSM-5 e i film che raccontano la psiche, ARPANet, Milano, 2015. Scrive Massimo nell’introduzione che psichiatria e cinema hanno come obiettivo comune il compito di comprendere le vicende umane, tanto è che mondo del cinema e mondo della psichiatria sono reciprocamente affascinati. Il testo è pregevole e chiaro, una sorta di scansione critica, film dopo film, scritta con attenzione psicopatologica al disturbo mentale rappresentato, così come esso è codificato nel DSM 5.  Sicchè il testo è ancipite, ci si trovano considerazioni e indicazioni concernenti pellicole salienti per noi e al tempo stesso ci si trovano spunti psicopatologici assai interessanti, come il delirio erotomane di de Clerambault, collegato al film L’amore fatale, oppure la Sindrome di Capgras o la Sindrome di Cotard (v. film Synechdoche).
Il fil rouge che lega questi testi è la clinica della follia, raccontata in una maniera talmente vivida come sembra non poter più essere raccontata nel mondo della psichiatria contemporanea. Non se ne può parlare ai convegni, non si insegna nelle scuole di specializzazione, non se ne parla più neanche nelle riunioni di équipe. Sembra che stiamo perdendo il linguaggio, noi psichiatri. Anche la psichiatria quotidiana che impatta la follia continuamente, è diventata afasica. Ma forse stiamo atrofizzando anche il pensiero, senza il quale non si mette la clinica della follia in forma di racconto. 
“Antonio colse nelle parole della donna la consapevolezza di una madre che vede il figlio frantumarsi in mille pezzi. Gli venne in mente Luca, come si sarebbe comportato lui se avesse avuto lo stesso problema con suo figlio?” In questo passaggio di  Corrado De Rosa un frammento di quello che accade in ogni istante dentro lo psichiatra clinico, costretto a misurare ogni situazione con il metro del proprio vissuto. Senza poterlo trasferire, spesso, proprio a nessuno. Il primario del dr. Antonio Costanza è un capo incapace di comandare, servo sciocco dell’istituzione, che impone l’uso di farmaci del secolo scorso perché la farmacia, su dettato della direzione strategica aziendale, fa storie sulla spesa. Che accetta ricoveri incongrui solo per togliere castagne dal fuoco a chi di riguardo glielo chiede. Ecco uno spaccato autentico in cui lo psichiatra quotidiano lavora, tra il disfarsi della propria vita privata, affettiva, personale, e il senso etico di anteporre i bisogni dell’altro fragile alla squallida economia aziendale, lo sfumare di opportunità di carriera, il carico emotivo di quei casi impossibili, di cui il sistema pubblico italiano sta diventando al tempo stesso il terreno di coltura e il ricettacolo, mentre il sistema privato-convenzionato, parallelo, si sceglie quelli da potersi coltivare come clienti fidelizzati.
“Come sta adesso?” “Sento delle voci”. Quella frase era stonata. Nessun elemento lasciava intendere che Riccio soffrisse di allucinazioni”. Questo passaggio in cui il dottor Costanza in carcere colloquia il presunto killer delle prostitute documenta con grande semplicità la sensibilità del clinico che registra immediatamente una stonatura, ovvero che valuta la positività o negatvità di un segno a seconda della Stimmung, ovvero del suo accordo con un complesso di altri segni che implicitamente durante il colloqui egli ha rilevato. Dove sta in questo il portato della psichiatria molecolare? Cosa dicono al dr. Costanza la psichiatria molecolare e quella manageriale in questo passaggio? Nulla. Nulla di nulla. Solo la sua sensibilità clinica lo cava dall’impaccio. Anzi, in sede processuale si ritroverà contro il proprio Priamario manager, venduto alla psichiatria di convenienza, quella delle perizie come tu mi vuoi. Cosa viene insegnato agli specializzandi ? Certo non a sentire l’accordatura dello strumento umano quando qualcuno parla. Il colloqui continuano con un contrappunto continuo  tra il vissuto del Dr. Costanza e quello di Gaetano Riccio. Il dottor Costanza, come ognuno di noi, è un self made psychiatrist. Il romanzo di Corrado è una miniera di spunti di riflessione e, al di là della trama vagamente noir, apre una serie di microstorie capaci comunque di farci sentire a casa, o dentro le mille sfaccettature del nostro lavoro. Ognuno di noi può ritrovare un pezzetto di sé nel dottor Costanza.
 “Vedo una sagoma in lontananza, è Nick che cerca cicche di sigarette per terra, calpestate, annerite da mille scarpe che le hanno pestate sull’asfalto. Le raccoglie, poi le porta nella sua stanzetta e se le fuma mentre il solito Rachmaninoff aiuta a scandire e dare ordine ai suoi pensieri. I suoi giorni appiccicati gli uni agli altri, tutti dello stesso colore, come il tempo vissuto dentro gli ospedali. Ti ho pensato Nick, nelle notti a piedi per Camden Town, quando ricordarti mi sapeva di casa e di accoglienza, sono contento che sei tra i primi che rincontro in questo mio ritorno. Rovisto nelle tasche, le rivolto, ho delle cartine e del tabacco che ho preso alla macchinetta automatica di Bruxelles Central, gli do ogni cosa. “Non fumare tutto insieme Nick” gli grido dietro, mentre egli fugge contento della sua refurtiva. Lo vedo scomparire in un punto, nero nel nero.”  Eidetica questa descrizione del mondo della vita di un paziente schizofrenico che non ha mai conosciuto il Manicomio. Nuovo cronico, dunque, che ha consumato la sua vita tra le mura domestiche, uscendo nella traversa solo la notte, come uno spirito delle tenebre, in cerca di un attimo di vita nella brace della sigaretta. L’autore. Paolo Di Petta,  lo coglie nella sua aura senza tempo tinta, scandita dai farmaci e da un eterno Rach, solenne tragico simbolo della follia domiciliarizzata. Nick morirà qualche anno dopo  questo racconto, di infarto fulminante, confermando il dati della letteratura che fissano a 20 anni di meno l’aspettativa di vita degli psicotici. Purtroppo anche di quelli non istituzionalizzati.  Cionondimeno capace, Nick, di generare immenso affetto, al punto da evocare l nostalgia del protagonista per casa, e al punto da rappresentare, nella sua richiesta compulsiva, l’accoglienza. Nick è come Melampo, il vecchio cane di Itaca, l’unico che riconosce Ulisse al suo ritorno. La sua innocenza, la sua tenerezza lasciano traccia indelebile in queste pagine che, per altri aspetti, affrescano una periferia violenta e anonima.
Massimo Lanzaro in poco più di cento pagine non trascura veramente alcun angolo della psicopatologia. Solo Kurt Schneider c’era riuscito nella sua psicopatologia clinica. In più il discorso di Lanzaro, che è già di chiarezza cartesiana, quando tratta di passaggi psicopatologici si alleggerisce con notazioni interessanti di critica cinematografica, di aneddoti e di aspetti biografici dei protagonisti.  A volte Massimo riunisce più film sotto una categoria diagnostica, ma riesce sempre in modo equilibrato ad articolarne le connessioni. “Psicologicamente lo schermo cinematografico offre allo spettatore uno spazio che ha tutte le caratteristiche della realtà non tangibile, che rammenta quella sperimentata nei sogni. Ma come ci risulta a volte difficile dare un nome alle nostre emozioni o addirittura spiegare un sogno in dettaglio, così può essere complicato dire esattamente perché un film ci è piaciuto o meno o cosa ci ha colpito.”
Ecco, uguale è nella clinica del quotidiano.  Siamo debitori a cinema e letteratura, perché senza di essi, travolti dalla nostra urgenza routinaria, neache noi riusciamo più a chiamare per nome quello che ci accade e che ci travolge quando incontriamo i nostri pazienti.  Mi piace pensare, allora, che l’incredibile mondo della psichiatria clinica, quello di Alice in Wonderland, quello per cui molti di noi sono diventati psichiatri, che non trova più spazio nell’ambito accademico, nell’ambito manageriale, e neanche nell’ambito della psichiatria quotidiana, trova asilo tra le pagine di libri forse non professionali, ma decisamente  più utili di tanti paper e di tante circolari a capire il mondo di chi tutti i giorni abbiamo di fronte, di chi compromette la propria e l’altrui esistenza, e di chi, come noi, si gioca a volte in un incontro anche il proprio destino. E anche a dare dignità umana e culturale all’oscuro lavoro  cui siamo, noi psichiatri quotidiani, dannati senza gloria.
Corrado De Rosa (1975), Paolo Di Petta (1973) e Massimo Lanzaro (1971) sono tre “splendidi quarantenni” che appartengono, come recita il risvolto di copertina de L’uomo che dorme, “a una generazione a tratti infantile, maldestra in amore, che è cresciuta con i Lego rimanendo incastrata tra i mattoncini colorati delle possibilità e le macerie del disincanto”.
A loro tre, rari nantes in gurgite vasto, nonché miei compagni di destino e di strada, con profonda gratitudine e grande affetto, questo mio articolo è dedicato.
Colle d’Anchise
10 agosto 2018 

 
 

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Commenti

Grazie, Gilberto.

Per la sintesi originale di questo articolo che è alimento nutriente e medicamento consolatorio per la mente e l'animo di chi si identifica nello psichiatra senza qualità, quello "terminale", il milite ignoto. Questo è real food for thoughts.

Grazie perché hai compreso il mio tentativo di "usare" il cinema un pò come pretesto, per ri-raccontare la clinica ed auspicare una rinascita della psicopatologia partendo dalla nosografia.

Per aver colto la mia personale disperanza rispetto alla necessità fondamentale di tornare a chiamare le cose col loro nome, di fermarsi, indugiare a volte e cercare le parole e nelle parole (a proposito, sembra che oggi sia la giornata in cui si celebra l'equivalenza mediatica dei termini "reato" e "peccato").

Un dubbio forse mi resta: chi è davvero alienato dal "mondo reale", chi è in verità privo di inter-azioni e passioni AUTENTICHE?
Chi è stato quasi del tutto prosciugato nell'interiorità (e nel portafogli) dal quotidiano estenuante, ma si sveglia una domenica mattina ed incontra lo sguardo veramente perso di un infermiere o genuinamente ritrovato di un paziente?
O gli opulenti manager e molecolari, dediti a confezionare (e confezionarsi) "realtà meravigliose", in cui interagiscono con persone meravigliose e ricevono premi meravigliosi?
La gratitudine e l'affetto sono reciproci.

Massimo

Caro Massimo,
dopo lunga militanza a Londra, con funzioni apicali, hai avuto il coraggio di tornare ad Itaca. "Perchè il cielo era sempre plumbeo", mi dicesti una mattina al bar. Mi facesti venire in mente un altro cielo, "il cielo sopra Berlino". Era ormai il secolo scorso quando anche io decisi di tornare ad Itaca, dopo aver scoperto che neppure più in Germania dimorava la psicopatologia che gli stessi Tedeschi avevano inventato. Il destino poi ha incrociato i nostri silenzi ai cambi di guardia. "Psichiatri senza qualità", con il sogno nel cassetto di ridare dignità alla disciplina che abbiamo amato, che amiamo, forse ultima possibilità di convergenza, sul campo, di scienze umane e scienze naturali. Forse questo nostro essere immersi, ma non sommersi, nel mondo della vita, autentico, fatto di sguardi persi e di sguardi ritrovati, ancora ci legittima, come uomini e come clinici. Mi auguro che non dovremo essere proprio noi i cerimonieri di una psichiatria che muore. Sappi che quando è sera e manco dal reparto da qualche giorno, ed ho una notte davanti, con pazienti che non conosco, mi bastano, sfogliando i diari clinici, tre righe tue per risentirmi familiare con l'ignoto. di questi tre righi, uno, tra virgolette, è il vissuto del paziente, espresso con le sue parole. Sarebbe bello se i giovani colleghi potessero, tra mille carte, mille file, mille molecole, almeno riuscire a fare questo. A mettere qualcosa di questo grande silenzio in parole comprensibili.

Proprio in questi giorni ho iniziato la lettura di 'Liberi tutti', un bel libro sulla storia della psichiatria italiana alle prese con l’Europa e con sé stessa, lo definirei, scritto da Valeria P. Babini (Il Mulino). Avevo spesso sentito parlare della provincialità della freniatria - teniamo la vecchia denominazione - italiana, molte volte dallo stesso Gilberto e in alcune altre occasioni. Leggere però con precisi e appuntiti particolari della battaglia, dalla melina, per così dire, messa in atto dai direttori manicomiali e dagli accademici del tempo perché le idee di Kraepelin, e quindi della psichiatria clinica (tedesca), non attecchissero in Italia fa ora, davanti alle parole di Gilberto, quasi spavento. Vorrei così tenere al centro del mio commento la clinica, vista però da psicologo, parte e figlio della tradizione psicopatologica italiana ma allo stesso tempo fuori dalle considerazioni più prettamente mediche.
Quando terminai l’università ad Urbino, s’era nel luglio del 2004, chiesi alcuni consigli di lettura a Mario Rossi Monti, che m’aveva insegnato Psicologia clinica e Psichiatria e le cui lezioni appassionanti avevo seguito nell’aula del collegio Tridente, progettato dal celebre architetto Giancarlo De Carlo. Scrissi a Mario chiedendo suggerimenti di lettura: come potevo proseguire i miei studi da, per citare Gilberto, 'self made psychopathologist'? Mi consigliò, tra gli altri testi, 'Percorsi di Psicopatologia' (CIC), a cura di Arnaldo Ballerini.
Dopo un paio di mesi, mentre ero intento a svolgere il mio anno tirocinio al CIM di Maglie, mia città di origine, alle prese con lo studio e 'la psicologia e la psichiatria quotidiane', gli scrissi, chiedendogli questa volta quale fosse, suo parere, il posto degli psicologi in una psichiatria e in una psicopatologia come quella italiana: i libri parlavano e si rivolgevano infatti solo agli psichiatri. Lui mi scrisse di insistere nello studio e che in Italia ci sarebbero voluti sempre più psicologi clinici, perché gli psichiatri stavano 'perdendo la capacità di fare clinica'.
Trovai quindi la mia strada facendomi studente viaggiante ma sempre, direi adesso, come fuori posto. Nel 2005/ 2006 iniziai la specializzazione a Milano in una ottima scuola psicoanalitica e allo stesso tempo presi a frequentare i corsi di psicopatologia di Figline Valdarno. A Milano quasi non potevo confessare di frequentare gli psichiatri, peggio ancora i fenomenologi, e a Figline Valdarno ero un osservato speciale perché allora uno dei 4/ 5 psicologi (su più di quaranta iscritti) a frequentare il corso di psicopatologia (stessa esperienza provata la prima volta alla Salpêtrière) e a dover sopportare - perché vere - battute sulla pochezza delle conoscenze psicopatologiche della categoria (battute ingiuste, tra l’altro, per chi proveniva dalla scuola clinica urbinate e non era giunto lì per caso).
Rispetto molto le note di Corrado e Gilberto sulle scuole di specializzazione in psichiatria che riporto alla mia esperienza di studio e di lezione: nelle scuole di psicoterapia manca del tutto o, quando va bene, è considerata solo in parte minore e superficiale la questione della conoscenza della psicopatologia e quindi della clinica. Tanto è sostituito dalle teorie e dalle certezze/ dubbi di scuola, così che a volte mi stupisco non poco leggendo o sentendo che i giovani colleghi studiano la ‘psicopatologia’, per poi sentir precisare che si tratta della ‘psicopatologia psicoanalitica’, di quella cognitiva, sistemica etc. Psicopatologia ‘di scuola’, certo non di incontro e di faccia a faccia prima di tutto tra persone ed esistenze, ma bensì di incontro (spesso pregiudiziale) tra teoria e casi clinici.
Portare quindi la clinica e i pazienti ai convegni è considerata una mossa azzardata e più di una volta mi sono sentito fare osservazioni piccate per i miei interventi, dopo aver portato ad esempio un contributo che aveva un attacco clinico-vissuto, che non partiva quindi dalla discussione dei testi e delle teorie (come quando una volta descrissi le reazioni degli operatori e dei pazienti ad un grave fatto di cronaca, un omicidio-suicidio avvenuto nel CSM che frequentavo per un tirocinio).
Così spesso i seminari e i convegni vertono su tutto tranne che sul paziente, cosa per noi psicologi, che siamo comunque meno interessati -forse - alla discussione infinita e spesso sterile sulla neurobiologia dei disturbi mentali (del cervello), ancora più grave che per gli psichiatri; un mio caro amico, psicoanalista milanese, maestro di clinica e gestione dei casi complicati, dopo un paio di ore dall’inizio dei convegni era solito dirmi: “Paolo, ma perché ai convegni mi viene sempre voglia di suicidarmi?”. Reazione ‘controtransferale’ che affianco alla noia descritta da Gilberto.
Non si può credere di insegnare psicopatologia agli psicologi insegnando loro il DSM, fosse pure l’ultima edizione rivista, perché li si allontana definitivamente dalla psichiatria e dalla clinica per venderli al mercato delle ricerche 'mainstream', al mercato della ricerca secondaria sulle funzioni elementari, sui livelli e le percentuali senza ritorno sulla clinica stessa. Basta osservare i poster presentati alla maggior parte dei convegni di psicologia (non a tutti per fortuna) nei quali si trovano di solito quasi unicamente ricerche sull’effetto psicologico degli psicofarmaci, sull’efficacia di qualche ergoterapia, ricerche su campioni di centinaia di pazienti, risultati di qualche psicoterapia iper-specifica etc., come la psicologia fosse 'ancella della medicina' (Palma 2017), e invece nessun accenno, o quasi, alla clinica, alla psicopatologia o anche solo al senso e così alla storia della nostra materia, campo interessante e quasi del tutto neglecto (del quale invece si interessa e bene Costanza Jesurum, 2017), all’importanza delle letture altre da quelle di scuola: “Paolo, tu leggi sempre cose che non dovresti leggere!”.
Qui mi lego, per concludere, alla questione dei romanzi così ben descritti e consigliati da Gilberto. La questione delle storie, direi, della loro centralità per la nostra professione di psicologi, psicopatologi e fenomenologi, ma anche piscoanalisti, è fondamentale. È davvero imprescindibile. Una volta Lorenzo Calvi, tra il pubblico ad una presentazione di un testo di Antonio De Luca in via dei Serpenti a Roma, ebbe ad affermare che alla fenomenologia era consegnata la responsabilità di portare avanti la ricerca sul fronte della ‘cura’ e della psicopatologia che, dopo le ricerche schneideriane, avrebbe terminato il suo dire. In questo senso la lettura di romanzi, la visione di film, la lettura dei quotidiani e degli inserti, la visita di mostre e musei, rappresenta la possibilità per noi terapeuti di esercitare il nostro diapason clinico, la nostra praecox gefühl, ovvero l’unico modo (fatta salva la conoscenza della psicopatologia generale) di avvicinare altre vite oltre la nostra, altri vissuti oltre quelli noti, così da rendere migliore la nostra possibilità di percepire, ascoltar e vedere i malati, di renderla più leggera e pregnante allo stesso tempo, perché, come dice in maniera evidente il regista Theo Angelopoulos parlando della nascita dei suoi capolavori:
“Una frase ascoltata per caso in strada, oppure letta in un libro, una notizia irrilevante comparsa sui giornali, un’immagine, intorpidita o dormiente in fondo al magazzino delle immagini che ognuno di noi possiede (...) in quel preciso momento gli si è ripresentata, trasformata. Quel momento è divietato così, in modo inatteso, un incontro privilegiato con l’indicibile”.
Di tutte queste riflessioni, e soprattutto della possibilità di metterle per iscritto (e, spazialmente parlando, per 'esteso') ringrazio Gilberto, Corrado, Riccardo, Manlio e Francesco.
Paolo Colavero

Caro Paolo, anni fa i uno dei suoi testi, Rossi Monti scriveva che voi psicologi, non potendo essere assorbiti dai farmaci, rappresentavate l'ultimo polmone epistemologico per una clinica del vissuto. Purtroppo le cose non sono andate così. Certo non assorbiti dai farmaci, ma assorbiti da scuole con taglio direttivo, nozionista, pragmatico. Confrontandomi sul campo in questi anni, spesso mi sono trovato di fronte a psicologi attaccati al DSM, rigidi sulle diagnosi, privi di speranza per i pazienti, non disposti a rischiare nulla, scettici sulla reale possibilità di movimento dei pazienti, desiderosi di farsi valere supportando diagnosi, manchevoli di dubbio, di silenzio, di slancio umano. Ovviamente non generalizzerei. Ma ho perduto la fiducia che uno psicologo, solo per il fatto di non essere uno psichiatra, possa fare la differenza. Questo mi ha fatto capire che il problema non è rappresentato solo dalla saturazione farmacologica, ma piuttosto dal vuoto culturale, dalla mancanza di esperienza clinica, dall'assenza di una adeguata psicoterapia personale, dal riempimento di questo vuoto con strutture concettuali rigide, applicate pedissequamente, senza possibilità di revisione. Questo mi ha spaventato. Un esercito di siffatti psicologi rappresenta la fine della cura come ascolto, come contatto, come fiducia, come speranza, come rischio. Il tuo percorso è una delle possibili viae crucis dove praticare l'incontro. Sul resto, ovvero sullo stato della psicoterapia, la parola è doveroso lasciarla a Corrado Pontalti.

TO SUGGEST TRADUZIONE: suggerire, proporre, indicare, insinuare, far pensare a.
TO SUGGEST SINONIMI: hint, prompt, intimate, advance, propose, offer, raise, move, propound, indicate, show, point, tell, point out, denote, insinuate, creep, infer, insert, insinuate oneself.

Migliaia di parole, migliaia di ammiratori...
Clinica, Pratica, Ideale, Tecnica...

La diagnosi diventa fantascienza?
Non credo proprio, in tutta coscienza,
se ne possa fare senza,
con ogni ambivalenza,
è ingiusto negarne l'esistenza!

Ergo maledico omnes nisi dominus meus,
Asinus Lambendo, sive dominus meus...

Il medico quotidiano, c'est un medecin imaginaire, un parto romantico della fantasia, che nega la realtà mostruosa, che il medico sia più eine Art Banalität des Bösen è ormai acclarato e per questo castigato da qualche magistrato.

Ecco perché introduci facilmente tre romanzi...

Ultima frontiera del Savior Manager è un certo PTRI, praticamente una vessazione burocratica pretesa come obbligo dalle esose case di cura private da noi inevitabilmente reclamate.

Gli studi scientifici invece, sinceramente, semplicemente non li sapete leggere, non li sapete usare, perché il mostruoso banale medico quotidiano non sa usare Pubmed o non vuole aggiornarsi. Eppure è facile e necessario e se per caso impara ad utilizzare un LAI o un SSRI al posto di un Moditen o di una BDZ è opera indotta attraverso mediazioni e suggestioni oscure, che comunque partono dalla realtà "Evidence Based" oggettivamente leggibile e comprensibile a patto di leggere in inglese e capire la differenza tra studio, coorte, metanalisi, campione, review e controllo.

Auguri... anche per l'omonimo di Petta...

Caro Manlio, ti ringrazio perchè non manchi mai di testimoniare "in corpore vili" la difficoltà e la passione di chi resiste ogni giorno, sine ira et studio, nei Servizi Pubblici di Salute Mentale italiani.

Ho letto questo slancio di Gilberto sotto un pino del mio Trentino, con quattro nipoti che si rincorrevano nel bosco accanto a me. Ho letto, pensato e ritornato a Roma mi sono detto: "vediamo il profluvio di commenti che sicuramente Gilberto ha stimolato, in una sfida lucida, reale, drammatica, disperata. Ci sono rimasto male, solo tre letture e un solo commento (anche se di altissimo spessore). Forse è questo il dramma. Non sappiamo più confrontarci con la radicalità delle evidenze in una cecità che mi sembra essere il vero luogo oscuro. Concordo su tutto. Le specializzazioni sono luoghi del nulla con i giovani lasciati soli senza nemmeno beneficiare, nella quotidianità clinica, buttata loro addosso anche nelle università, della psichiatria molecolare che, peraltro, è ugualmente intrecciata con quella manageriale, anche se nella managerialità delle università e delle scuole di specializzazione in psicoterapia. Scrivo tutto minuscolo perchè tali sono. Volete sapere da quante scuole sono stato cacciato perchè non coerente con i "modelli salvifici e rassicuranti delle scuole stesse? Lo dirò un'altra volta a pochi amici, accanto al caminetto della mia età. Su un solo punto non sono d'accordo con Gilberto. Anche lo psichiatra del quotidiano ha le sue pesanti responsabilità. Forse pigrizia e monotonia sono il risultato di ciò che descrive Gilberto, ma forse ne sono anche l'incipit. Giro anch'io tanto nelle scuole e nei servizi. Spesso mi sento accolto con affetto e stima, poi ritorno e nulla di quello, poco poco che avevamo condiviso è diventata pratica. Bastano le riflessioni di Gilberto per dare conto dell'espulsione totale della psicoterapia dai servizi per l'età evolutiva? e dove iniziano i giochi dei mondi altri se non in quegli anni? Forse modificherei l'affermazione di Gilberto sul passaggio dal manicomio alla managerialità del tel territorio. Bisogna esplorare più a fondo se non vi è stato semplicemente il passaggio dalla cronicità del manicomio alla cronicità del territorio con la forza di convinzioni latenti " che tanto la cronicità è ineluttabile". Grazie a Gilberto per questa sua sfida inesausta ma noi dove siamo?

Caro Corrado, ti ringrazio perché se una persona rischia di apparire come malinconica e disperata vox clamantis in deserto, due persone fanno una coppia e, come tu ci hai insegnato, tre persone fanno un gruppo. Il numero impressionante di visualizzazioni di questa disamina critica interna al dibattito tra gli specialisti lascia pensare che ci sia una vasta area di consenso silenzioso. Ho la sensazione che le difficoltà quotidiane prevalgano sull'esercizio del senso critico. Che l'esposizione mediatica spaventi. Che anche per formulare un commento c'è bisogno di tempo, di riflessione, di mettere in ordine il pensiero, ti trovare le parole. Un tempo, quello nostro, che non ha più tempo. Un linguaggio che non ha più struttura lessicale e sintattica, un pensiero fatto di icone. Una giornata densa di cose da fare. Un affaccendarsi, anche quello dei nostri Servizi, che fa da contraltare all'insabbiarsi delle vite che approcciamo. Forse la disperazione che qualcosa possa davvero cambiare? E' come se la speranza non appartenesse più all'orizzonte del futuro, è come se lo spirito del tempo, lo Zeitgeist fosse frammentato, in modo tale che ogni evento non è più concatenato ad un altro. Allora ho letto, bello, sono d'accordo, passo appresso. Oppure questo silenzio che è assordante, fatto di circa quindicimila persone che scorrono queste righe e non commentano, dice che stiamo vivendo una quiete prima di una tempesta? Cioè che il cambiamento sarà catastrofico e fuori dalla nostra portata? certo, la responsabilità di noi psy, forse la più grave, come tu dici da anni, è quella di non essere riusciti a perimetrare la complessità della dimensione psichica. Anche sub specie patologica, ma avremmo avuto gli strumenti per sottolineare che la mente umana non è una semplice emanazione del cervello, e che il campo di relazioni che un essere umano instaura equivale al suo mondo interno, è il suo mondo interno. In questo abbiamo dato troppe cose per scontate. Adesso lottiamo di retroguardia, gli incontri che riusciamo ad avere con i nostri pazienti hanno tutti il sapore del tuo caminetto, che è il sapore della nostalgia. Cosa riusciremo a trasmettere, cosa riusciremo a salvare, a tutelare, cosa riusciremo ad estrarre da questo fiume di acqua sporca, di riciclo e di consumo, che si porta via il nostro bambino? o i nostri bambini? Ti abbraccio.

Per fortuna le letture sono oltre 11000 ma resta il dispiacere che in troppi tacciano e non aggiungano come te commenti che sono un naturale allargamento del discorso.
La rete è questo se la di usa al suo meglio

Gilberto Di Petta è forse l'unico in Italia, da qualche tempo a questa parte, a dare voce ad un disagio diffuso in chi lavora in psichiatria. Questa sua analisi magistrale del vissuto dei professionisti della psichiatria territoriale costretti oltre che ad un lavoro impossibile per antonomasia, ad un silenzio imposto dal mondo accademico (“psichiatria molecolare”) e da quello istituzionale (“psichiatria manageriale”), è in gran parte condivisibile, anche se filtrato da una visione iperpatica che solo occasionalmente lascia spazio al sollievo sarcastico.
Si assiste ormai sistematicamente al sacrificio non solo della psichiatria fenomenologica ed esistenziale, la cui parabola agonica è ormai pluridecennale, tanto che i suoi adepti hanno ormai introiettato la necessità di una sopravvivenza clandestina, ma anche semplicemente della psichiatria clinica: una disciplina, questa, fino a pochi decenni fa molto vivace, e, dall'epoca del DSM-III in poi, anch'essa in fase di dismissione, come io stesso ben percepii quando, nel 1994, pubblicai un testo che, anacronisticamente, potrei definire "dipettiano", “Due apologhi sulla fine della psiche” a testimonianza che il disagio degli psichiatri clinici dei servizi non é certo iniziato ora.
Di Petta cita Basaglia come un esempio di ribellione al sapere accademico-politico del suo tempo, ma dimentica che i suoi epigoni, fedeli di una fede che ha perduto la sua ragione e ormai da anni indovati nelle sacre e segrete stanze della governance regionale ed in gran parte confluiti nella “psichiatria manageriale”, rappresentano da tempo la terza agenzia di dismissione della clinica: quella della ”psichiatria migliore del mondo che opera per i bisogni del cittadino e per l'inclusione dei malati nel tessuto sociale”. Si tratta, forse, della agenzia che con più forza tacita ipocritamente le evidenze della clinica quotidiana e con esse il disagio di chi vi deve porre fronte: la riduzione degli psichiatri a mere unità intercambiabili, specialisti di serie B rispetto a quelli “eccellenti” che i soldi per l'azienda non li chiedono per dei progetti aleatori, ma li portano attraendo ampi volumi di liberaprofessione ortopedica, oculistica, dermatologica, ginecologica, cardiologica; l'”accesso diretto” nei CSM, creata per facilitare gli psicotici, li riempie ora della psicopatologia della vita quotidiana della piccola borghesia provata dalla crisi e dalla distruzione del tessuto sociale - gli psicotici, quelli veri, sono invece sempre più abbandonati ad una vita che non possono gestire o a cui non possono adattarsi ed il loro unico sollievo è forse l'incontro con lo psichiatra territoriale, almeno quello che lo ascolta e sa ascoltarlo; il ricorso al PS (strutture già criticamente intasate giorno e notte da urgenze medico-chirugiche) per ogni problematica psichiatrica e di tossicodipendenza, dai minori multiproblematici di 10 anni ai novantenni confusi, agitati e insonni; la neo-manicomialità affidata al privato sociale, e quindi neppure più controllabile, se non tramite i vincoli di spesa; l'utilizzo di queste stesse comunità per la maggioranza dei malati autori di reato che non trovano posto nelle sporadiche REMS costituite dopo la chiusura degli OPG; l'uso della psichiatria territoriale per ogni tipo di certificazione ad uso sociale e assistenziale, ma anche per l'interruzione delle gravidanze dopo il terzo mese, soprattutto se in presenza di malformazioni fetali, per le questioni patrimoniali di chi, tra gli utenti, ha ancora qualcosa, e per le “perizie come le vuoi”; l'introduzione a casaccio, sponsorizzata ai Direttori, dei nuovi neurolettici, in gran parte meno efficaci e più tossici (alcuni anche rimossi dal mercato dopo lanci eclatanti) dei vecchi; infine, una informatizzazione imperante anche se sempre scarsamente efficiente, che ormai media i rapporti tra gli operatori (ah le care, vecchie, odiate riunioni d'equipe!), cartelle elettroniche che assomigliano ormai a quelle dei reparti medici e che niente dicono del vissuto, della vita vera, della psicopatologia, delle prospettive e delle possibilità effettive dei nostri pazienti.
L'elenco delle “criticità”, per non dire delle voragini etiche, umane, antropologiche e scientifiche, potrebbe essere molto lungo, e rispecchia quel “biopsicosociale” che lo psichiatra dei servizi si trova addosso, ma non nella sua accezione trionfante e totipotente che la “psichiatria migliore del mondo” enuncia nei congressi, bensì in quella, in gran parte tragica, di un paese in forse irreversibile recessione e senza alcuna speranza di reinvestire costruttivamente sulle sofferenze dei pazienti e che, forse, ben percependo questo e non avendo soluzioni praticabili, fa direttamente scomparire il problema attraverso linguaggi altri, sterili e sterilizzanti, del tutto inappropriati alla comprensione e alla gestione della follia.

Riccardo Dalle Luche

Caro Riccardo, il tuo commento è un epitaffio sulla lapide della psichiatria italiana e, per certi versi, mondiale. Se Atene piange, Sparta non ride. Voglio dire che anche le psichiatrie di nazioni come la Francia e la Germania, con tradizioni molto più salde della nostra, annaspano nello smarrimento del senso. Un filo di recupero potrebbe essere proprio quello della psichiatria clinica. La psichiatria clinica dovrebbe tornare egemone, nei programmi di formazione e nell'applicazione dei piani di assistenza. Nella sagomatura dei progetti riabilitativi e nelle linee guida farmacologiche. La clinica esercitata nell'incontro, discussa in riunioni ad hoc, sviscerata nei suoi dispositivi di rilevamento estetici, linguistici, fenomenologici. Da questo punto di vista la psichiatria potrebbe tornare ad essere leader anche rispetto a tanta medicina organica che, soffocata dai dati, ha parimenti smarrito la clinica. La clinica, in definitiva, come possibilità da parte dei pazienti di dire la loro attraverso sintomi che rientrano in quadri di leggibilità. Forse è un sogno. Tuttavia, quando si arriva ad un punto morto, di fronte ad un sentiero interrotto, ad una parete cieca, allora si torna sui propri passi. Forse la renaissance della clinica non è solo il sogno romantico di alcuni di noi, ma una concreta possibilità di uscire dallo scacco e di rivitalizzare i Servizi. Concordo con te sul fatto che la psichiatria postbasagliana, avendo espunto la clinica, si sta accartocciando come capita a chi si lancia in avanti senza un contrappeso. A chi perde la base di esperienza svettando in ciò che Binswanger chiamava l'esaltazione fissata. Come è accaduto in europa a vaste correnti della politica progressista. Il fondo è come una catapulta, se l'arco si tende troppo, finisce per scattare e ritravolgere. La clinica della follia, e la follia stessa nella sua inerenza alla ragione e alla condizione umana, forse sono e saranno i migliori garanti della verità. In un certo senso questa prospettiva ci riporta al tanto vituperato pensiero hegeliano. La realtà ha le sue ragioni, e qualunque posizione eccentrica rispetto alla realtà venga presa, con il tempo essa viene dialetticamente superata. Questa è una dura lezione anche per quelli di noi che hanno flirtato, contro Hegel, piuttosto con Kierkegaard e con Nietzesche. Io sono stato uno di questi.
Grazie

Al desiderio della Clinica, si oppone il nichilismo cioè il Fastidio della pratica quotidiana...


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