EMDR E GENITORIALITÀ: IL CASO DI G.

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12 settembre, 2018 - 19:46

Il primo legame affettivo che il bambino instaura, per una predisposizione innata, su base biologica, fin dai primi attimi di vita, nei confronti dell’adulto che si prende cura di lui (caregiver), rappresenta un legame di lunga durata ed emotivamente significativo per entrambi i membri della coppia. Bowlby (1969), nell’ambito della sua teoria evolutiva, definisce tale legame come legame di attaccamento, caratterizzato dalla ricerca di vicinanza fisica alla figura di riferimento, che a sua volta diventa una base sicura per il bambino.

Secondo la teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969, 1973, 1979), come risultato delle concrete esperienze di relazione con ciascuna delle figure di attaccamento, il bambino costruisce, fin dai primi mesi di vita, degli schemi cognitivi definiti “Internal Working Models” (IWM; Modelli Operativi Interni, MOI). Il termine “operativi” sottolinea la natura dinamica di questi schemi, che vanno incontro a diverse modificazioni in base alle esperienze vissute (Zaccagnino, Cussino, Saunders, Jacobvitz e Veglia, 2011). Questi modelli non sono delle copie del mondo, ma dei processi di interiorizzazione della relazione nel corso dello sviluppo (Veglia, 1999). In particolare, ognuno di essi conterrà una rappresentazione delle figure di attaccamento e una, complementare, di Sé nell’interazione con loro.

Bowlby (1969, 1988), sempre all’interno della sua teoria evolutiva, ha inoltre proposto che il comportamento del caregiver sia organizzato e guidato da un sistema diverso e complementare all’attaccamento: l’accudimento. La tendenza ad accudire può attivarsi nel genitore in risposta ai segnali di attaccamento del bambino e alle sue richieste di protezione, ma anche in base a una valutazione più o meno consapevole di altre fonti di informazione che si associano a situazioni percepite come spaventanti, pericolose o stressanti per il piccolo.

Inoltre, come i comportamenti di attaccamento sono inizialmente determinati da una spinta biologica e, poi, controllati a livello superiore attraverso rappresentazioni cognitive delle esperienze vissute (MOI), così avviene anche per l’accudimento (Bowlby, 1969; George e Solomon, 1999; Slade, Belsky, Aber e Phelps, 1999). Mentre il bambino sviluppa un MOI della relazione con la figura di attaccamento, questa costruisce un MOI della relazione di accudimento con il bambino, in cui interagiscono la rappresentazione di Sé come caregiver e la rappresentazione delle caratteristiche del piccolo (George e Solomon, 1996).

La costruzione di tale modello si accompagna e dipende da un importante cambiamento di prospettiva su di Sé che si verifica nel genitore: da persona che invia segnali di attaccamento per ricevere accudimento, a persona che riceve tali segnali e vi risponde (Solomon e George, 1996; George e Solomon, 2008b). Ciò significa che con la nascita di un figlio, più che in ogni altra occasione precedente, il sistema dell’accudimento avvia la sua maturazione più profonda, sviluppando nel caregiver un senso di genitorialità che dipende dalla relazione reale con il bambino e dal senso di adeguatezza provato nell’accudirlo. Lo sviluppo del sistema e dei comportamenti di accudimento è il prodotto di una complessa interazione di fattori biologici ed esperienziali (la rappresentazione di sé come caregiver e la rappresentazione della nascita, l’esperienza che la madre fa della nascita, fattori legati al bambino), che possono esercitare un’influenza positiva o negativa sulla relazione con il bambino e sulla qualità del suo attaccamento (Zaccagnino, 2009). Ciò si accorda anche con quanto evidenziato da Pryce (1995), il quale sostiene l’influenza e l’interazione tra vari fattori (es. specie, genotipo, sviluppo neurologico della madre, storia di sviluppo, cultura) nel concorrere a determinare un modello di accudimento - o mothering - più o meno funzionale per il benessere psico-emotivo del bambino.

Inoltre, riprendendo un aspetto già sottolineato da Bowlby (1969), George e Solomon (1999) propongono di approfondire le caratteristiche specifiche del sistema di accudimento, prestando maggiore attenzione alla relazione presente tra bambino e genitore. La loro ipotesi è che le caratteristiche di tale relazione possano influenzare il nesso tra esperienze passate di attaccamento nel caregiver e stile di attaccamento sviluppato dal bambino, rappresentando un elemento di rilievo per comprendere il comportamento e la qualità dell’accudimento del caregiver. Il MOI dell’accudimento, più in particolare, rappresenterebbe dunque il più importante predittore della qualità dell’attaccamento sviluppato dal figlio, in quanto capace di guidare lo stato mentale del caregiver nei suoi confronti (Solomon e George, 1996). È possibile inoltre ipotizzare che gli aspetti relativi al MOI dell’accudimento si associno alla capacità del genitore di sviluppare, o utilizzare, un’adeguata Funzione Riflessiva all’interno della relazione di accudimento (Grienenberger, Kelly e Slade, 2005; Slade, Grienenberger, Bernbach, Levy e Locker, 2005; Trapolini Ungerer e McMahon, 2008). Tale funzione consente al caregiver di contenere nella propria mente una rappresentazione del bambino in quanto persona con sentimenti, desideri e intenzioni ed è alla base dell’accudimento sensibile (Slade, 2005); essa permette infatti al piccolo di scoprire questi suoi stati mentali, proprio attraverso la rappresentazione che di essi si fa il genitore. Un caregiver in grado di accogliere e contenere l’esperienza del bambino svolge quindi un ruolo cruciale nel mantenere e facilitare una serie di processi legati allo sviluppo; difficoltà, distorsioni o mancanza di tale capacità sono considerate, invece, fattori di rischio per lo sviluppo di varie forme di psicopatologia.

Un altro importante fattori di rischio per il benessere del bambino è la presenza di abusi, traumi o maltrattamenti; in questi casi accedere agli stati mentali del genitore può essere terrificante e potenzialmente annientante. Infatti quando ricordi traumatici irrisolti affiorano alla mente di un genitore mentre è intento a rispondere alle richieste di attaccamento del proprio figlio, la sofferenza mentale legata a questi ricordi attiva il sistema di attaccamento del genitore contemporaneamente al loro sistema di accudimento.

Il bambino si trova quindi ad interagire con un genitore turbato dal continuo e frammentario emergere alla coscienza di dolorose, e spesso terrorizzanti, memorie relative a lutti e traumi, che assume atteggiamenti ed espressioni di dolore, paura, o talora improvvisa e immotivata collera, mentre risponde alle esigenze di attaccamento del bambino.

La figura di attaccamento, nelle interazioni che portano alla disorganizzazione dell'attaccamento, è "al tempo stesso la fonte e la soluzione” (Main & Hesse, 1990, p.163) dell’allarme del bambino, e questo porta ad una situazione di paura senza sbocco.

Seguono quindi, la disorganizzazione del comportamento di attaccamento e il disorientamento nelle strategie attenzionali durante le interazioni di attaccamento (Liotti, 2004). Crescendo il bambino non sarà in grado di riflettere sul suo stato interiore o di gestire emozioni intense (Fonagy & Target, 2001), in quanto un’iperattivazione del sistema di attaccamento può eccedere le capacità di attenzione e coscienza del bambino, portandolo a quel tipico disorientamento che caratterizza il pattern del bambino disorganizzato (per una discussione più dettagliata sull’attaccamento disorganizzato si veda Liotti e Farina, 2011).

Tuttavia, è molto importante ricordare che una precoce disorganizzazione dell’attaccamento, seppur importante fattore di rischio, non condanna in modo deterministico a successivi disturbi dissociativi o alla vulnerabilità al PTSD: durante lo sviluppo possono intervenire molte esperienze emotive correttive, figure di attaccamento alternative e fattori protettivi nella tutela del bambino disorganizzato da qualsiasi conseguenza patologica (Zaccagnino et al., 2011). Oppure il genitore che non ha ancora risolto le esperienze traumatiche vissute, può diventare progressivamente in grado (per esempio, grazie alla psicoterapia) di elaborare tali esperienze, offrendo, nel corso degli anni, un’esperienza d’attaccamento sempre più sicuro e stabile.

In un percorso di presa in carico, il protocollo EMDR di intervento sui traumi aiuta il paziente ad accedere ai ricordi traumatici inerenti l’attaccamento e ad elaborarli con una risoluzione adattiva.

L’acronimo EMDR sta per Eye Movement Desensitization and Reprocessing ed è una metodologia clinica che, attraverso i movimenti oculari ed opportuni interventi di sostegno da parte del terapeuta, permette all’individuo di accedere ai ricordi traumatici bloccati ed integrarli progressivamente nei circuiti di memoria “adattivi”. Quindi, man mano che il paziente identifica e rielabora i suoi traumi precoci con l’aiuto dell’EMDR, diventa gradualmente capace di separare il presente dal proprio passato, narrando un’autobiografia coerente. E’ inoltre importante sottolineare che l’approccio EMDR può essere utilizzato a monte per rafforzare la tolleranza emotiva e installare le risorse necessarie prima dell’elaborazione dei traumi.

Alla luce di quanto discusso, è evidente l’interesse e l’importanza dello studio della qualità del sistema di accudimento al fine di approfondire le caratteristiche specifiche dell’esperienza stessa, i possibili fattori in grado di favorirla od ostacolarla, cogliendo le sue peculiarità rispetto al modello operativo dell’attaccamento. Tra gli strumenti che meglio valutano la qualità del sistema di accudimento genitoriale, quello d’elezione è la Parent Development Interview (PDI, Aber, Slade, Berger, Bresgi e Kaplan, 1985; versione italiana a cura di Zaccagnino, Vianzone e Veglia, 2006). Si tratta infatti di un’intervista clinica semi-strutturata volta ad indagare le rappresentazioni genitoriali (ovvero i MOI dell’accudimento) circa se stessi nel ruolo di genitori, il proprio bambino e la relazione con questi. Il focus di tale strumento è il presente e l’evoluzione del legame col piccolo, a proposito del quale vengono poste domande riguardanti comportamenti, pensieri e sensazioni. Ai genitori viene altresì richiesto di descrivere quelle che sono le proprie modalità di risposta ai segnali del bambino, come si percepiscono nel ruolo di genitore e le emozioni sperimentate, soffermandosi sia sugli aspetti più piacevoli sia sulle difficoltà. Successivamente, il genitore fornisce una descrizione di sé in questo ruolo, elencando quelli che ritiene i propri punti di forza e di debolezza, e le eventuali somiglianze tra il proprio stile di accudimento e quello adottato in passato dai propri genitori. Infine, vengono indagate le reazioni del bambino ai momenti di separazione, ai cambiamenti di abitudini o alla non disponibilità del genitore, immaginando come il bambino possa sentirsi in queste situazioni.

Nello specifico vengono codificate tre caratteristiche principali della rappresentazione genitoriale: la rappresentazione genitoriale dell’esperienza affettiva; la rappresentazione genitoriale dell’esperienza affettiva del bambino e lo state of mind del genitore in relazione al bambino.

Inoltre, attraverso i trascritti delle PDI, è possibile valutare anche la funzione riflessiva genitoriale; nello specifico sono indagate la consapevolezza della natura degli stati mentali, la capacità di produrre uno sforzo esplicito per individuare gli stati mentali sottesi al comportamento, la capacità di riconoscere gli aspetti evolutivi degli stati mentali e la ricchezza di stati mentali riferiti all’intervistatore (Slade, 2008).

La struttura e la natura delle domande di questa intervista si basano sulle ipotesi prima esposte, ovvero che la rappresentazione dell’accudimento costruita dal caregiver sia in grado di predire in modo significativo la qualità dell’attaccamento del bambino e che le esperienze di accudimento vissute nel presente dal genitore possano influenzare l’associazione tra le proprie esperienze passate di attaccamento e il tipo di attaccamento sviluppato dal figlio.

Nell’ottica di un intervento clinico che si focalizzi sulla gestione dell’esperienza dell’accudimento, sui vissuti del genitore associati ad essa, e su una riflessione profonda e guidata sugli stati mentali propri e del bambino nell’interazione, la PDI potrebbe sicuramente rappresentare una risorsa preziosa per un lavoro sulla genitorialità dove si utilizza la terapia EMDR, e costituire certamente un ottimo componente di un piano terapeutico (Allen e Fonagy, 2006; Slade, 2006; 2008). L’intervista, infatti, potrebbe essere impiegata sia come strumento di screening in soggetti ritenuti “a rischio”, in un contesto di prevenzione e valutazione precoce delle difficoltà connesse con il divenire genitore, sia come base di lavoro con la terapia EMDR e spunto di riflessione sui temi emersi dall’intervista stessa (Baradon, Fonagy, Bland, Lenard e Sleed, 2008, Odipo, 2002; Trapolini, Ungerer, e McMahon, 2008). Potrebbe, infatti, essere usata per indagare in profondità le situazioni di disagio già in corso e per ottenere indicazioni utili a strutturare interventi mirati, che tengano in considerazione non solo le difficoltà e le fragilità, ma anche le risorse e i punti di forza del genitore e della relazione stessa.

Infine, la somministrazione dell’intervista nelle diverse fasi di lavoro terapeutico permetterebbe di monitorare, guidare e verificare l’efficacia dell’intervento con EMDR, con particolare riferimento alla rappresentazione dell’accudimento (MOI) e al livello di Funzione Riflessiva genitoriale rispetto al momento della presa in carico. Ciò al fine di valutarne l’impatto sul benessere del genitore, del bambino e sulla qualità della relazione stessa (Baradon, Fonagy, Bland, Lenard e Sleed, 2008; Miller, 2009; Shilkret, 2005; Steele e Steele, 2008).


 

IL CASO CLINICO DI G.

Ad illustrare quanto enunciato dal punto di vista teorico viene presentato un caso clinico, nel quale è stato utilizzato l’EMDR, in concomitanza con l’uso clinico delle domande della PDI. G., una donna di 35 anni, si presenta con una forte sintomatologia depressiva e gravi difficoltà nella relazione e gestione del proprio bambino di 6 mesi. Al momento della presa in carico non assume psicofarmaci (anni prima aveva avuto due episodi depressivi maggiori per cui aveva assunto il Lexotan per un anno).

La strategia terapeutica ha previsto dapprima un intervento di psicoeducazione e la somministrazione della PDI, che ha permesso l’individuazione sia delle situazioni presenti di disagio e disregolazione emotiva con il figlio, sia di quelle funzionali e adattive. È stato quindi intrapreso il lavoro EMDR sulle risorse della paziente per attivare i fattori di protezione con l’istallazione delle risorse positive. Partendo poi dai momenti presenti di difficoltà nella relazione con il figlio, attraverso la tecnica del float-back, sono state individuate le esperienze traumatiche legate alla relazione disfunzionale della paziente con la propria madre. Ad ogni ricordo difficile, poi, è stato applicato il protocollo standard EMDR; le situazioni individuate e trattate erano accomunate da credenze negative relative alla propria inadeguatezza e il senso di colpa.

Dopo la rielaborazione dei ricordi traumatici, G. ha potuto rileggere tali esperienze nell’ottica delle proprie dinamiche di attaccamento disfunzionali, permettendole una percezione di sé più adattiva e positiva. Conseguentemente anche i livelli depressivi si sono ridotti notevolmente, determinando l’aumento della compliance, una maggiore accettazione di sé e del proprio valore personale e la riduzione significativa dei comportamenti di disregolazione emotiva nella relazione con il figlio.

Pertanto, l’utilizzo della PDI, con il float-back, ha permesso l’individuazione rapida dei nodi e dei canali principali del disturbo ed ha consentito di ripristinare velocemente la funzionalità e il benessere della paziente ed il suo comportamento adeguato e responsivo verso il figlio. La somministrazione della PDI prima e dopo il trattamento, ha inoltre permesso il riscontro concreto delle modifiche comportamentali nella relazione mamma-bambino. I punteggi relativi alle scale della rabbia, della disregolazione emotiva, del senso di colpa, dell’ostilità sono diminuiti, mentre i punteggi del senso di autoefficacia, della gioia, del calore, della focalizzazione sui bisogni del piccolo, della riflessività sulla relazione si sono incrementati.

In conclusione, ricordi di eventi particolarmente stressanti o traumatici tendono ad essere immagazzinati in modo disfunzionale nel cervello in uno stato non metabolizzato, sotto forma di “network mnestici” contenenti costellazioni di percezioni, credenze negative, emozioni e sensazioni corporee che possono essere riferite alle esperienze difficili nell’ambito del caregiving. Dato che il modello di attaccamento che sviluppa il bambino, a seguito di modalità di accudimento particolarmente disfunzionali messe in atto dai genitori, conterrà network mnestici caratterizzati da ricordi legati alle esperienze di rifiuto e/o di maltrattamento, sembra particolarmente promettente la possibilità di sviluppare un protocollo di intervento terapeutico che preveda l’impiego dell’EMDR; ciò permetterebbe infatti l’elaborazione e l’analisi dei modelli di relazione disfunzionale impliciti nella relazione genitore-bambino e dei ricordi difficili di quest’ultimo, in concomitanza con l’uso clinico delle domande della PDI. Infatti, il genitore che ha acquisito consapevolezza ed elaborato i propri traumi può contenere e sostenere emotivamente il proprio figlio; attraverso una sintonia, un contatto e modalità di interazione e accudimento adeguati e funzionali, un genitore può rafforzare la relazione con il proprio figlio, anche quando è stata precocemente danneggiata.

Alla luce di quanto esposto, l’approccio EMDR può, quindi, essere utilizzato per contribuire a spezzare la trasmissione intergenerazionale di accudimenti traumatici e disfunzionali, e poter quindi influenzare positivamente le generazioni future.

 

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