COVID-19: La nuda esistenza

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2 maggio, 2020 - 09:08
Fra tutte le possibilità che l’uomo ha di abbracciare
tutto se stesso, il dramma è quella che inganna meno.
Elias Canetti
 
 
Lo psichiatra fenomenologo Gilberto Di Petta ha scritto, nella sua rubrica Viaggio al termine della psichiatria (Psychiatry on line), alcune riflessioni sul “tempo sospeso” che stiamo vivendo.
 
Di Petta lavora in un servizio psichiatrico di diagnosi e cura di un ospedale napoletano.
Pur in mancanza di dispositivi di protezione adeguati, è costretto ad andare nella trincea del Pronto Soccorso, “a mani nude, perché la gente continua ad impazzire” e i pazienti “sembrano non ridurre per nulla il loro afflusso (volontario o coatto), nonostante l’allarme contagio”.
 
Sento sulla mia pelle l’atmosfera descritta da Di Petta.
Sono ormai più di vent’anni che ho lasciato la psichiatria pubblica, quella dell’emergenza, la psichiatria degli “ultimi”. Ci ero entrato con la forza e il desiderio di giovane medico formato da un’analisi personale e da una preparazione in psichiatria psicodinamica e fenomenologica. Una psichiatria dal volto umano.
L’impatto con la sofferenza psicotica fu terrificante. Volevo continuare a mantenere mente e cuore aperti, non vanificare anni di studio in cui i maestri del passato insegnavano a essere con l’altro.
Ma quello che vivevo mi consumava. Resistetti quasi nove anni. Poi il crollo.
Ci misi sei mesi a tirarmi fuori dalle macerie. Il contatto, corpo a corpo, anima ad anima con tutto quel dolore mi aveva tramortito. Capii cosa significava burn out. Bruciato, fuso.
 
Di Petta continua a lavorare all’inferno, accogliendo i malati in situazioni di dolore estremo con la sua nota competenza e sensibilità. E’ purtroppo una rarità.
La psichiatria, sempre più incolta e organicista, è nelle mani degli psicofarmacologi che non vanno certo in pronto soccorso, ma tengono convegni sponsorizzati dalle case farmaceutiche. E che pensano che l’essere umano, quando si ammala, sia solo un agglomerato di neuromediatori sbilanciati. E i giovani psichiatri si (de)formano spesso alla loro scuola.
 
Di Petta, in un periodo in cui è necessario non avere contatti fisici– che termine orribile “distanza sociale” – si trova a vivere in luoghi in cui “è pura fantasia mantenere la distanza, perché le fiale non sono anestetici sparati da fucili telescopici, ma prevedono mani, braccia, aliti, urla, divincolamenti, carne che si scontra con la carne, uomo contro uomo”.
Perché nonostante le prediche ideologiche delle anime belle della psichiatria neo-basagliana, la cura della follia è anche questa lotta uomo contro uomo. A favore dell’uomo.  
 
“Il Governo, dal canto suo, ha sospeso tutto il sospendibile. Siamo, tutti quanti, in una condizione pressoché unica nella storia, per lo meno sperimentata da un intero scaglione umano, di “sospensione del mondo”, ovvero, in termini fenomenologici, di “epochè” generalizzata”.
 
Così Di Petta introduce l’analisi fenomenologica su ciò che sta accadendo.
 
“Neppure la memoria di chi ha vissuto l’ultima Guerra ricorda una “perdita relazionale” e una “perdita di contesto” di queste proporzioni, e una limitazione della libertà di movimento del genere. Il coprifuoco scattava solo in alcuni orari, nei rifugi antiaerei sotterranei si correva insieme, accalcandosi alla rinfusa, c’era chi raccontava storie ai bambini, e chi suonava la fisarmonica. Ci si abbracciava al deflagrare delle bombe. L’aggregazione di gruppo, da che l’uomo è al mondo, è indiscutibilmente il più potente contenitore dell’angoscia”. 
 
Questa sospensione radicale, mai vissuta prima, ci obbliga a confrontarci con l’essenzialità del vivere.  Siamo in contatto con la “la nuda struttura” della vita.
 
Qual è la nuda struttura di un’esistenza, la nuda struttura della singola esistenza di ognuno di noi?
 
Secondo la visione fenomenologica proposta da Di Petta “la struttura della vita, ridotta alla sua essenza, è una struttura correlata al mondo, da cui proviene e verso cui si progetta”.
 
E cosa accade alla nostra esistenza, quando, come ora, siamo privati del contatto con il mondo o lo dobbiamo ridurre ai minimi termini?
 
Tanto può accadere, di atroce e di potenzialmente salvifico.
 
L’atrocità è quella di un anonimo congedo dal mondo. Per chi muore e per chi resta, nella privazione del contatto, l’ultimo. Uno strappo di cui sto già constatando gli effetti traumatici. Lacerate parti del sé che non sono pronte a lasciar andare il proprio familiare.
Le “scomparse senza rito” paralizzano nel gesto incompiuto, un irrisolto che richiederà nuovi riti per non cristallizzarsi in modo autodistruttivo.
 
E se l’atto di sospensione del clinico, del fenomenologo è un atto volontario per avvicinare l’esistenza del sofferente cercando di mettere tra parentesi ogni presunto sapere, la sospensione di massa che ci è imposta, questa sospensione dell’ovvio, dell’ordinario, dell’abituale, ci porta di fronte, secondo Di Petta a un “paesaggio di desertificazione psicotica”.
Le nostre vite, spogliate di ogni relazionalità che non sia virtuale, tendono a impregnarsi di vissuti paranoici. “Paranoici del sospetto e tutti fobici del contagio, ossessionati dalla contaminazione, con l’incentivo dei media ad essere ancora più paranoici e fobici possibile, al punto tale da non poterci toccare neanche noi stessi il volto con le nostre mani. Al punto che la concavità delle nostre mani non sembra più fatta per la convessità del mondo”.
 
Come sostenere questo isolamento disperante, le angosce persecutorie per cui anche la maniglia del portone può essere veicolo d’infezione e morte? O l’amico, la persona amata. 
 
Mi chiedo, con Di Petta, se “questo, per assurdo, può avere anche, al di là di tutto, paradossalmente, una connotazione positiva, alla stregua di un collaudo di tenuta”.
 
Qual è il punto di fusione della nostra struttura?
 
Domenica 8 marzo, giornata durissima.
Le sirene delle ambulanze come unico sottofondo. La notizia della morte di due conoscenti, alcuni miei pazienti che si ammalano. Decine di messaggi carichi di angoscia. Mi sento stretto, perseguitato. Nonostante ciò devo mantenere il mio ruolo terapeutico.
Come se la mia struttura non potesse cedere. Non ora.
Vado a letto con un senso di angoscia che si allevia ben poco con una lunga pratica di meditazione.
Ce la farò?
 
Sogno di trovarmi con in mano una borsa in cui è conservato del cibo per me e le persone che ne hanno bisogno. Mi si avvicina un collega medico con cui ho condiviso gli studi universitari. Come già faceva ai tempi, anche ora vuole infastidirmi.  E difatti rovescia dell'acqua nella borsa, rischiando di guastare il cibo in essa contenuto. Esasperato, decido di fargliela pagare. Lo affronto con violenza e, afferrandolo per il collo, mi accorgo che se insistessi potrebbe morire soffocato. Mi fermo, ma forse non faccio in tempo. Credo lui muoia.
Sono preso dal senso di colpa, ma il mio amico resuscita.
Lo afferro allora con ancora maggior violenza e lo scaravento a terra.
A questo punto la sua morte dovrebbe risultare inevitabile, ma lui risorge ancora.
Mi pervade una grande angoscia perché mi rendo conto che non sono rispettate le leggi fisiche:  
i morti risorgono e ciò mi trasmette una sensazione persecutoria. Capisco allora, nel sogno, che questa può essere un’occasione per allargare le porte della percezione. Invece di farmi risucchiare dall'angoscia per un mondo che assume una coloritura persecutoria, posso cercare un'opportunità per aprirmi a qualcosa che non conosco, per imparare a vedere "oltre" le categorie che abitualmente utilizzo per "giudicare" il mondo.
 
Al risveglio entro nelle emozioni del sogno. Non posso scappare, tutto è a rischio.
Non basta il cibo cui ci si aggrappa nell’illusione di sopravvivere.
I colleghi si ammalano, alcuni muoiono. Una dottoressa, mia paziente, lavora in prima linea in un ospedale che accoglie i pazienti di Codogno. Oggi ha la febbre. Un suo collega la polmonite. Io stesso sono un medico e la persecuzione sta nel medico untore che mi porto dentro.
Come posso “allargare le porte della percezione”?
Arriva, profonda, una comprensione: sii pronto a morire. Guardo la possibilità della morte, smetto di fuggirla o attaccarla. Basta difendersi nel tentativo di trovare una qualche protezione. Posso morire. Sono pronto.
 
Il respiro cambia, si fa addominale. Mi sento leggero, libero. E’ un momento di svolta. L’inclusione della morte approfondisce il mio desiderio di vita. M’ immergo in ciò che faccio con maggior ardore. E la vita intorno a me risponde. Sto ancora vedendo pazienti in studio, alcuni hanno bisogno di sentire la presenza pur nella distanza fisica. Soffrono l’idea delle sedute on line. Cerco di prepararli per quanto posso e, dopo tre giorni, decido il passaggio alle sedute in videochiamata.
“La condizione di struttura nuda dell’esistenza porta con sé questo sentimento di precarietà e il sentimento di ultimità”.
 
Non solo precarietà e ultimità, come scrive Di Petta.  Anche intimità. Sì, mi sento più intimo con me stesso, più intimo con le persone intime che sono nella mia vita. Più intimo in ogni gesto del quotidiano perché questa ultimità lo carica di unicità.
Come se un acceleratore di significato stesse espandendo ogni momento della mia vita.
C’è un avvicinamento al cuore delle cose, al cuore delle relazioni, illuminate da questa esperienza estrema.  Chi conta, cosa conta? Vedo i volti delle persone; alcuni si sfuocano, altri si stagliano con nitidezza. Guardo tutto con una lente d’ingrandimento.
 
Vado con ancora maggior decisione verso l’essenziale. In questo processo di spoliazione, individuo spietatamente ciò che mi sembra valere, scarto il superfluo. Tutti i sensi sono attivati per percepire la sostanza. E mi spingono verso il sesto senso.
Seguo questo processo, comprendo che non posso costruire la nuda struttura della mia vita, posso solo scoprirla.
 
E continuo a sognare.
 
La notte del 19 marzo sogno di trovarmi alla periferia di Bergamo, la mia città. Sembra di essere alla mensa dei poveri. Mi metto in coda in attesa del mio turno, sentendomi infastidito da una cartelletta gialla di cartone che tengo in mano (di quelle che usava mio padre e uso io stesso per ordinare i documenti). La cartelletta mi rende difficile mettere i cibi sul vassoio.
Il sogno prosegue e vedo in questa mensa altre persone, professionisti che lavorano in centro città dove ho lo studio.
E a un certo punto, con gioia, vedo mio padre. Mi dice che, almeno una volta alla settimana, viene a mangiare in questo posto. Sono contento di poterlo incontrare fuori città e mangiare insieme. Decido di posare la cartelletta su un tavolo per avere le mani libere e godermi l'esperienza del pranzo senza troppi impedimenti.
 
Non ricordavo la festa del papà, ma non avevo fatto i conti con la matematica dell’inconscio, cui nulla sfugge. Da giovane ero contento quando mio padre si prendeva una pausa. Una possibilità di respirare, di togliersi dalla schiacciante pressione lavorativa. A mio padre, quando aveva diciotto anni, era stato tolto mezzo polmone per una malattia che lo aveva colpito nell’infanzia. Ventiquattro anni dalla sua morte e continuo a sognarlo. Nei sogni litighiamo, gioiamo, scopriamo. Il mio rapporto con lui continua a evolvere.
 
Mi colpisce la coda alla mensa dei poveri. Come se il mio inconscio stesse registrando il mutamento di abitudini che questa crisi comporterà. Io e altri professionisti troveremo una modalità più semplice di vivere, trasformeremo anche la pausa pranzo, torneremo a un nutrirci basico, essenziale. Una ripulitura dal troppo che ci appesantisce. Anche il poggiare la cartelletta- con documenti- è un modo di iniziare a liberarsi di ciò che ingombra e cui sono comunque un poco attaccato. Altri passi verso la nuda esistenza.
 
Non sopporto in questi giorni la continua litania: “Niente e nessuno sarà come prima”.
Non ci credo. Alcuni politici saranno come prima. Peggio no, non è possibile.
E noi, riusciremo a proseguire nel lavoro di trasformazione? Scrivo proseguire perché non credo alle illuminazioni legate all’emergenza. Non credo alle cadute da cavallo con istantanee conversioni. Credo solo in un percorso lungo, duro e tormentato. Altalenante, ambivalente, impossibile senza l’aiuto di compagni di viaggio.
 
Il 23 marzo sogno di camminare sotto il cielo stellato su un sentiero innevato e ghiacciato.  Percepisco l’angoscia della situazione ma mi dico che posso continuare a guardare il cielo e  sentire la forza di quest'esperienza. Il paesaggio è magnifico nel suo silenzio essenziale.
Un’amica mi precede di un centinaio di metri. Cappotto nero e andatura vacillante.
Si sostiene con un bastone. Non riuscendo a procedere, l’amica torna indietro, ed io, avvicinandola, le propongo di mettersi delle scarpe più adatte - tipo quelle che indosso io stesso. Lei ostinatamente, pur essendo una donna di grandissima intelligenza, vuole calzare scarpe eleganti o con i tacchi. Mi rimproverava, dicendo che le scarpe che le ho suggerito di indossare le farebbero alzare la glicemia e scompensare il metabolismo.
Sono colpito e addolorato da questo rimprovero.
 
Mi sveglio percependo un senso di profonda solitudine. Da giorni sono a casa solo.
Tanti contatti telefonici o video ma nessun abbraccio. Sento il mio corpo pervaso dal ghiaccio della solitudine. Pratico automassaggi, “mi tengo”, ma il corpo soffre. Ancora, persecutoriamente, una parte di me vive la distanza fisica come un rifiuto. L’amica nel sogno non solo non accoglie il mio suggerimento, ma mi rivolge parole glaciali. Come posso avvicinare le mie parti? Quella intelligente ma sui tacchi e quella con i piedi per terra. Come posso sostenere il rimprovero del mio severo giudice interno?
 
I miei pazienti mi portano le loro angosce ma anche la loro resilienza. Mi raccontano sogni con immagini di siepi rase al suolo. Inizia la primavera ma qualcosa la rade al suolo. C’è perdita, straniamento. Lotta per resistere, imparare. Dico loro che la terapia è un fattore protettivo, come un vaccino. Credo a questo. Sento il loro coraggio, determinazione. Hanno giorni critici ma poi si riprendono.
 
Condivido con loro la nudità della solitudine.
 
Durante la notte mi rannicchio e dialogo con le mie parti allo stremo.
 
Mi addormento e sogno di essere con mio zio Beppe, il fratello di mio padre, e le sue sorelle, tutte donne anziane. Lo zio è sofferente e dice che questa nuova situazione crea smarrimento perché “si sono persi i confini delle cose”. Dice anche che sarà necessario del tempo per abituarsi. Emerge una progettualità rispetto alla possibilità di un nuovo apprendimento. Poi, stanco, si mette disteso vicino a me ed io gli poso una mano sul polmone come gesto di cura. Anche mia sorella, oltre agli altri parenti, assiste a questo prendersi cura.
 
Ecco, la cura. Accoglienza, gesti semplici. Mano sul polmone. Il polmone dello zio, del padre, dei pazienti. I miei polmoni.
Ci vuole tempo per abituarsi ma già nel sogno s’intravede la possibilità di nuovi apprendimenti.
                                                           
Bergamo - 27 marzo 2020
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Commenti

Solitudine e isolamento non sono la stessa cosa ma entrambi ci consentono di elaborare il dramma interiore che stiamo vivendo e con la specificità di una pandemia che mette in crisi la relazionalità umana. Questo non ci esime dal prendere consapevolezza individuale e collettiva del nostro disagio. La nuda esistenza si manifesta nella mancanza e nell'impotenza che fa dell'uomo un essere limitato, mortale e imperfetto.


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