IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

Cinque anni dopo: debiti e crediti

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29 gennaio, 2021 - 09:10
di Antonello Sciacchitano
A cinque anni esatti dall’inaugurazione di questa rubrica sul soggetto collettivo (http://www.psychiatryonline.it/node/6015), avviata grazie alla benevolenza e alla stima di Francesco Bollorino, che ancora ringrazio, ha senso che il responsabile faccia un consuntivo.
Un tratto è immediatamente evidente. È un consuntivo a debito. Dopo cinque anni di gestione della rubrica con regolari contributi mensili, talvolta quindicinali, riconosco di aver contratto un debito. Infatti, a prescindere dalla loro accoglienza problematica, data la mia inclinazione a pensare la psicanalisi in termini galileiani, estranei ma non estrinseci alla metapsicologia freudiana, nei miei post non ho ancora pagato il debito contratto con il titolo della rubrica.
Cosa intendo con “soggetto collettivo”? Di fatto, come dice il titolo, i debiti contratti sono due.
 
Il primo debito: il soggetto

Soggetto collettivo: un sostantivo e un aggettivo problematici.

Il sostantivo mi pone meno problemi dell’aggettivo, almeno restando in ambito lacaniano, tuttora il mio con qualche modifica. Secondo Lacan il soggetto dell’inconscio è l’argomento che scivola lungo la catena dei significanti inconsci. Come si sa, la definizione lacaniana di significante è tautologica; sorprende che sia concreta, cioè abbia senso clinico: il significante rappresenta il soggetto per un altro significante.[1] Nell’attesa della rappresentazione, il soggetto “manca a essere”: non ha luogo, perché al suo posto c’è il desiderio dell’altro, o l’altro desiderio, che occupa la mancanza ontologica soggettiva dove, attraverso l’angoscia, sentimento non senza oggetto, si prepara il posto al soggetto che verrà. È questa l’ontologia debole della psicanalisi, che non prevede soggetti dati a priori in via trascendentale.
Nell’“algebra” di Lacan i significanti del discorso principale, quello a maggiore valenza politica, sono due: S1S2. Il primo, il significante principale o maître, è il significante ontologico del trauma originario, o della rimozione primaria, l’Urverdrängung secondo Freud, che inaugura la storia del soggetto; il secondo è il significante epistemico che sa qualcosa dell’evento inaugurale. Sotto Sc’è il soggetto; sotto Sl’oggetto del desiderio; soggetto e oggetto formano il fantasma inconscio non solo individuale.
In termini freudiani, S1alimenta lo sciame (essaim, in francese omofonoa S1) dei significanti della ripetizione, intervallati di quando in quando da S2, che scandisce il tempo di sapere.Per semplicità si può immaginare che la ripetizione sia un processo stocastico di tipo poissoniano con eventi indipendenti a probabilità costante. Allora la probabilità che non si verifichi alcun evento nell’intervallo di tempo dall’inizio del processo è esponenziale negativa rispetto a t; significa che la probabilità della somma di due eventi è il prodotto delle rispettive probabilità. Poisson anticipa Murphy: “Se il peggio può accadere accade”.

La formazione della catena significante è un processo inconscio, da Freud detto primario; avviene per condensazione (Verdichtungo metafora) e spostamento (Verschiebungo metonimia) di significanti senza che il soggetto ne abbia la minima coscienza. In termini saussuriani, le associazioni inconsce (Einfälle) dei significanti avvengono sotto la sbarra della significazione linguistica, che separa il significante dal significato; in termini freudiani, la vita psichica (das Seelenleben) oscilla intorno alla barriera della rimozione, di cui Lacan propone una versione non antropomorfa. Fine del bigino lacaniano, abbastanza chiaro, una volta spogliato dall’abbigliamento fenomenologico.

Ai freudiani traduco il discorso nel loro linguaggio in modo semplice: per le più varie contingenze storiche dell’evoluzione soggettiva la parola si scinde in due parti: una, la rappresentazione di cosa (la Sachvorstellung, cioè il “significato”), si stacca dall’altra, la rappresentazione di parola (la Wortvorstellung, cioè il “significante”); la cosa va nell’inconscio, la parola resta nel preconscio, sede del patrimonio linguistico del soggetto;[2] li separa la barriera della rimozione (Verdrängung), che la psicanalisi riesce talvolta a superare, sempre a fatica, date le linee di resistenza (Widerstände) ordite dal conformismo della cultura vigente. Il punto strutturale da acquisire è che l’inconscio sa la “cosa” (das Ding) ma non può dirla. Questa è la rimozione originaria, a prescindere da ogni fissazione primaria (Fixierung).“Es non può dire ciò che vuole”,[3 ]non disponendo del significante per dirlo.

Anche a me sono mancati i significanti per dire il soggetto collettivo. Allora passo al secondo debito, più oneroso.
 
Il secondo debito: il collettivo

Il problema di definire il collettivo è più arduo. Mi perdonino gli umanisti se, per non addentrarmi in certe aporie filosofiche, mi rivolgo alla matematica. L’incursione matematica sarà ridotta quanto basta a spiegare che “collettivo” non è un termine concettuale. L’algoritmo non è difficile da comprendere.
Nel secondo quarto del secolo scorso von Neumann, Gödel e Bernays misero a punto una teoria degli insiemi finitamente assiomatizzata – la moderna teoria della res extensa. Si tratta di una teoria delle classi che, per evitare le antinomie della teoria ingenua degli insiemi, distingue tra classi proprie e insiemi. Una classe propria è una classe senza metaclasse di appartenenza; per ogni classe propria nonesiste la classe di cui essa sia un elemento.[4] Un insieme, invece, è una classe per cui esiste la metaclasse di appartenenza, cioè il sovrainsieme di cui l’insieme dato è un elemento. Il punto è semplice: essere elemento di un insieme, soprattutto quando quell’elemento è ancora un insieme, significa soddisfare la proprietà caratteristica dell’insieme; allora l’elemento rientra nel concetto che definisce l’insieme; il concetto sintetizza in un’unità il complesso (Zusammenfassung, diceva Cantor) dei suoi elementi. Ad esempio, la classe dei numeri pari è un insieme perché i suoi elementi soddisfano la proprietà – rientrano nel concetto – di dare resto zero se divisi per due. In soldoni, per gli insiemi la proprietà caratteristica, il concetto, esiste, per le classi proprie no.

In questo senso, esistono classi proprie “collettive” ma “non collettivizzanti”, come diceva Bourbaki;[5] il collettivo, inteso come soggetto dell’individuale, il femminile, inteso come luogo del godimento extrafallico, il Grande Altro, inteso come luogo dei significanti di legge e verità, sono esempi di classi proprie; sono estensioni troppo “grandi” da essere “collettivizzate” in un concetto, cioè nonhanno estensione semantica definita, determinata da una precisa proprietà caratteristica.

Lacan conosceva vagamente la situazione e propose il termine infelice di “non tutto” per dire “non insieme”, forse memore della vexata quaestio medievale sugli universali; per lui le classi proprie erano dei “non tutto”: non tutti gli universali esistono; detto meglio, non tutti gli universali sono concetti del panorama concettuale. L’insieme di tutti gli insiemi, per esempio, non è un insieme, cioè non esiste come concetto: è una classe propria. Considerato come insieme, produce le antinomie che hanno caratterizzato la teoria ingenua degli insiemi al suo sorgere.

Questa è la ragione “oggettiva”, cioè logica, per cui non ho mai definito il collettivo di cui parlo: non potevo logicamente farlo, perché il concetto di collettivo non esiste nel simbolico, anche se il collettivo esiste nel reale, dove “non cessa di non scriversi”. Mi sono limitato ad alludere al collettivo, sapendo di scontentare i militanti che pretendono ordini netti e schietti. Ora me la cavo per via negativa, dicendo cosa un collettivo non è. Per esempio, il collettivo non è la massa freudiana, cioè non è l’organizzazione psichica di molti identificati al Führer, con proprietà caratteristica tale da farne un insieme, per esempio il baffetto o il mascellone, l’einziger Zug, secondo Freud; il collettivo non è la classe, identificata al leader rivoluzionario e impegnata nella lotta di classe comunista; il collettivo non è la scuola di psicanalisi, identificata al caposcuola e impegnata in una delle varie forme di psicoterapia. Insomma, con le classi proprie siamo fuori da ogni rappresentazione antropomorfa. Sulle classi proprie, quindi sui collettivi, lo schematismo del Super-Io non fa presa.[6]

Purtroppo la psicanalisi ha finora avuto troppi maestri, per non parlare dei maestrini, tanti piccoli super-eghini; per la stessa ragione non si è evoluta; non ha prodotto innovazioni come la scienza galileiana; è diventata ortodossia, anzi si è frantumata in tante ortodossie, corrispondenti a tante masse – a tanti insiemi – tra loro non comunicanti: freudiane, junghiane, adleriane, kleiniane, bioniane, reichiane, winnicottiane, lacaniane, ognuna con la loro piccola verità – la proprietà caratteristica –, custodita nel tabernacolo della dottrina. [7] Tanto è bastato a escludere la psicanalisi dal collettivo scientifico.
Un esempio concreto di collettivo che non sia un insieme? È proprio la comunità scientifica, che per definizione non ha verità ideali dalla sua ma solo un deposito consolidato di congetture, su cui i singoli operatori lavorano per confermarle o confutarle. Non esiste il padrone, il maître, o il papa della scienza. La scienza è una democrazia ma senza voti, neppure religiosi. Le congetture scientifiche non si votano in parlamento ma si confermano o si confutano in laboratorio sotto gli occhi di tutti. Il soggetto collettivo, che mi auguro per la psicanalisi, è qualcosa di simile. Da cinque anni la mia rubrica – un mini-laboratorio scientifico – si è mossa in questa direzione.

Ma nel caso della psicanalisi c’è un piccolo ma.

Si chiama psicoterapia. Di regola un soggetto individuale non affronta una psicanalisi per un problema di ricerca scientifica ma per sofferenze psichiche individuali, dovute a singolari configurazioni psicopatologiche. Già nelle mani di Freud la psicanalisi si configurò come terapia di certe psiconevrosi, per la precisione di transfert. La valenza terapeutica della psicanalisi è fuori dubbio, ma non va esagerata, proprio perché riguarda la salute, che è un bene collettivo prima che individuale; pertanto lo Stato deve in qualche modo intervenire a controllare la vicenda terapeutica. La ricerca scientifica collettiva viene dopo la cura individuale.

Il problema non è di difficile soluzione. Basta richiedere che lo psicanalista acquisisca un diploma “terapeutico”, anche se non eserciterà mai alcuna terapia. Io sono diventato psichiatra molto tardi dopo essermi autorizzato come psicanalista. Ciò mi ha consentito di non cadere nelle trappole professionali mediche, nel furor sanandiin prima battuta, nel conformismo professionale in seconda. Ho sempre scelto i miei analizzanti tra soggetti potenzialmente curabili con la psicanalisi, in pratica escludendo le psicosi schizofreniche, ossia le psicosi narcisistiche secondo Freud. In realtà, non li ho neppure scelti; i miei analizzanti si sono sempre scelti da soli, come hanno sempre scelto in modo autonomo fino a che punto continuare l’analisi contro la loro stessa volontà di ignoranza.
 
Il credito per il futuro è questione di tempo
Se quanto precede regge, posso chiedere un ampliamento di credito, come si usa dire in tempi di pandemia. Chiedo spazio per una versione scientifica della teoria psicanalitica. Chiedo di tornare a Galilei prima di tornare a Freud, che pure Freud non citò mai, forse perché Galilei non ragionava in termini di causa ed effetto ma di modelli esplicativi.

Cosa intendo per “ritorno a Galilei”?

Non approfondisco la questione che ho già trattato poco meno di cinque anni fa nel post http://www.psychiatryonline.it/node/6300. Mi limito al lato negativo. Mi basta che la psicanalisi cessi di essere una scienza aristotelica, cioè si affranchi dall’antico scire per causas, basato sul principio di ragion sufficiente. La metapsicologia freudiana, rigorosamente determinista, è invece una scienza aristotelica, fondata sul presupposto che ogni effetto psichico abbia una causa. Nella freudiana vita psichica (Seelenleben) il caso (Zufall) non esiste; esistono le pulsioni che la determinano in tutto e per tutto, sempre e comunque. Le pulsioni, queste forze costanti – concetto al confine tra psichico e somatico [8] a base somatica e finalità psichica – sono cause aristoteliche;[9] precisamente, le pulsioni sessuali sono cause efficienti, le pulsioni di morte cause finali. Le pulsioni sessuali producono la soddisfazione sessuale in modo orgasmatico: causano lo scarico di energia libidica come l’eiaculazione scarica lo sperma. Le pulsioni di morte sono meta-pulsioni; coordinano il concerto pulsionale, orientandolo finalisticamente attraverso scariche continue e ripetute verso uno stato di eccitazione psichica (Erregung) minima, l’improbabile nirvana.

Chiedo credito per farla finita con questa musica pre-galileiana. L’obiezione è a portata di mano. Si dirà: senza cause psichiche come si può capire la vita psichica, das Seelenleben, termine che ricorre ogni 20 pagine delle SFGW? Semplice: la vita psichica non si comprende per via di cause ma si spiega con modelli, per esempio grazie al citato modello poissoniano di ripetizione, che non presuppone cause ma probabilità. La distinzione tra “comprendere” (verstehen, begreifen) e “spiegare” (erklären), proposta da Dilthey per separare le scienze umane, che comprendono l’uomo, dalle naturali, che spiegano la natura, si può applicare anche alle scienze umane; basta uscire dal loro intrinseco vitalismo, tipicamente basato sull’élanvitale, sulla spinta (Drang) pulsionale, cioè sul vitalismo medicale.[10] Si tratta di lasciare il mondo della vita (die Lebenswelt) nelle mani del filosofo.[11]

Dicevo questione di tempo. Sì, perché non si tratta del tempo dell’orologio, ma del tempo di sapere.
L’argomento è estraneo all’elaborazione freudiana. Freud svicola dal problema del tempo, supponendo l’inconscio senza tempo; certo, l’inconscio è senza tempo cronologico, ma ha tempo epistemico. Freud si limita alla metà negativa del discorso. Il merito di aver introdotto la metà positiva con la nozione di tempo logico spetta a Lacan, che nel 1945 la formulò attraverso un divertente rompicapo, definendolo sofisma [12] in omaggio al proprio spirito sofistico, che non si acquietava in nessuna ortodossia, neppure nella propria.

Della sorte dei tre prigionieri, che devono indovinare il colore del disco che portano sulle spalle, ho ampiamente discusso nel post precedente, cui rimando (http://www.psychiatryonline.it/node/8997). Qui mi basta richiamare la filosofia di base. Il tempo logico introduce la logica epistemica, che a sua volta instaura una logica collettiva. Si tratta del movimento soggettivo che parte dall’incertezza inziale e dopo un certo tempo – il tempo per comprendere, come lo chiama il fenomenologo Lacan – arriva alla certezza finale, la prima essendo individuale, la seconda collettiva. Io sono incerto sulla mia congettura, ma dall’incertezza iniziale, attraverso l’incertezza mia e dell’altro arrivo, insieme all’altro, alla certezza finale, in cui posso prendere una decisione ragionevole e condivisa. In un collettivo la verità non è un patrimonio esclusivamente individuale.

Collateralmente segnalo un tratto prezioso del modello lacaniano che realizza la certezza attraverso l’incertezza; si tratta di concepire lo sguardo mio verso l’altro e dell’altro verso di me in modo né paranoico né competitivo ma collaborante. Senza odio e senza amore si esce finalmente dalla volontà d’ignoranza, metaforicamente rappresentata da Lacan come prigione in cui i tre prigionieri sono rinchiusi.

Nel modello semplificato, prospettato da Lacan, l’esito del gioco epistemico è certo; nella realtà non è scontato ma è sufficiente a dar credito ai partecipanti perché arrivino a concludere, se vogliono. Morale: io non chiedo credito solo per me ma per il collettivo (per ora esiguo) cui appartengo e apparterrò anche quando fisicamente non ci sarò più.

Comunque sia, prima di allora il lavoro da fare è molto e arduo. C’è da lavorare contro un’estesa muraglia di volontà di ignoranza, eretta dalle scuole ufficiali; è la stessa che confina il discorso scientifico galileiano fuori dal discorso comune. C’è voluta una pandemia per udire l’eco della voce scientifica nei notiziari quotidiani attraverso il canale improprio della medicina.[13] È voce carica di incertezze, come è giusto che sia, quella scientifica; perciò la si vuole silenziare in nome di certezze ideologiche fasulle, di genere negazionista. Indico nel principio di ragion sufficiente il punto dove assalire questa diffusa ideologia. Dal 1991 lavoro a decostruire la superstizione, ancora radicata in Freud, che ogni effetto abbia una causa, la magia che per ogni effetto evoca una causa efficiente. Perché? Semplicemente perché, come dicevano i vecchi giuristi, il principio di ragion sufficiente “prova troppo”.[14] Propongo di indebolire il nostro modo di pensare, usando strumenti meno categorici, meno sillogistici, per esempio probabilistici. Sensibilizziamo l’opinione pubblica, che ancora oggi gioca i numeri ritardatari al lotto, al concetto di probabilità soggettiva, completamente assente in Freud. Adottiamo in via sperimentale il principio euristico, enunciato molto chiaramente da De Finetti nel lontano 1931: “Non cerco perché il FATTO che io prevedo accadrà, ma perché IO prevedo che accadrà”.[15] L’enunciato dovrebbe sturare le orecchie a chi è ancora convinto che la scienza galileiana sia una paranoia fuorcludente il soggetto.

Da anni, per lo meno dal 2012, vado sostenendo l’opportunità di avviare in psicanalisi un lavoro dimetaanalisi, per la transizione della teoria psicanalitica da dottrina ortodossa imposta dall’Uno, fosse anche Freud, a libera ricerca scientifica in un collettivo di pensiero psicanalitico, aperta alle innovazioni e disponibile a sfrondare molto delle dottrine imposte dai nostri maestri. Le difficoltà che ostacolano il mio progetto sono enormi. Segnalo la maggiore: l’attaccamento “religioso” alle certezze dogmatiche che le scuole, dove noi analisti ci siamo “formati”, ci hanno inculcato come incontrovertibili. Chissà quando riconosceremo che la cosiddetta formazione è stata una deformazione. Io l’ho tardivamente riconosciuto per la mia. Quando lo faranno i miei colleghi per la loro? La transizione è storicamente inevitabile. È come passare dalla geometria euclidea (singolare) alle geometrie non euclidee (plurale). Per duemila anni si è creduto che il postulato della parallela fosse incontrovertibile. Finalmente questa falsa certezza è decaduta e le geometrie sono fiorite.

A questo punto chiudo il mio consuntivo, rivolto al passato, e getto il cuore nel futuro.

 

[1]J. Lacan, “Subversion du sujet et dialectique du désir dans l’inconscient freudien” (1960, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano), in Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 819.
[2] Ciò avviene nella nevrosi. Se il significante decade nel reale, da dove non viene ripreso in via metaforica da alcuna catena soggettiva, si ha la psicosi. In conformità alla definizione di significante, il reale “non cessa di non scriversi”.
[3] Es kann nicht sagen, was es will. S. Freud, “Das Ich und das Es” (1923, L’Io e l’Es) in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XIII, p. 289 (d’ora in poi SFGW).
[4] Affermare che non esiste metalinguaggio, fu il modo infelice Lacan per dire che si muoveva nell’ambito delle classi proprie: il Grande Altro, il femminile, il reale.
[5] N. Bourbaki, “Éléments de mathématique. Théorie des ensembles” (Elementi di matematica. Teoria degli insiemi), Hermann, Paris 1970, p. E.II.3 sg.
[6] Il nome psicanalitico di classe propria potrebbe essere “movimento” (Bewegung).
[7] Dalla morte di Lacan non ne sono più emerse di nuove.
[8] S. Freud, “Triebe und Triebschicksale” (1915, Pulsioni e destini pulsionali) in SFGW, vol. X, p. 214.
[9] Segnalo un fine lapsus di scrittura. Avevo scritto “cause ariostoteliche”.
[10] Il vitalismo medicale nasce con Ippocrate. Ars longa, vita brevis. La medicina moderna non si basa sulla vita ma sulla morte, cioè sulle tavole anatomiche di Andrea Vesalio. Il suo capolavoro, De humani corporis fabricafu pubblicato nel 1543, l’anno in cui uscì De revolutionibus orbium coelestiumdi Niccolò Copernico.
[11] “Il mondo e la vita sono uno”. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 5.621.
[12] J. Lacan, “Le temps logique et l’assertion de certitude anticipée. Un nouveau sophisme”(1945, Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata) in Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 197. A questo saggio si ispira il mio A. Sciacchitano, Il tempo di sapere. Saggio sull’inconscio freudiano,Mimesis, Milano-Udine 2013.
[13] La medicina non è scienza; è tecnica rigidamente codificata, che applica ritrovati scientifici prodotti da altre scienze e ingegnerizzati a uso terapeutico; si chiama ingegneria clinica.
[14] Per prova che “prova troppo” intendo quella che prova più di ciò che è vero, risultando falsa. Non si può dire, per condannare il suicidio, che uno non può togliersi la vita che non si è data, perché implica che non si possano uccidere gli animali.
[15] B. De Finetti, Probabilismo. Saggio critico sulla teoria della probabilità e il valore della scienza (1931), in La logica dell’incerto, a c. M. Mondadori, Il Saggiatore, Milano 1989, p. 4.

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