LA VOCE DELL'INDICIBILE
I suggerimenti della rêverie degli Artisti
di Sabino Nanni

I violenti (Viaggio nell’oltretomba come modello di un percorso terapeutico I, 3)

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29 gennaio, 2024 - 09:28
di Sabino Nanni
        Pubblico qui la terza parte del “Viaggio nell’oltretomba come modello di un percorso terapeutico”, lavoro in cui, partendo dall’affinità fra il percorso compiuto da Dante nella Divina Commedia, e quello di una cura, colgo tutti i suggerimenti che il grande Poeta sa offrire al clinico; suggerimenti utili, più ancora che per il loro contenuto, per la forma ed il linguaggio con cui sono espressi. Il che, a mio avviso, li rende più facilmente pensabili e comunicabili.
        In questa parte, commento i Canti dall’XI al XVII che riguardano il settimo cerchio dell’Inferno, quello dei violenti. Qui troviamo le stesse forme di brutalità che noi medici della mente trattiamo con grande frequenza: da quella estrema delle persone con tendenze omicide, a quelle dei candidati al suicidio, alla rapina, allo sperpero di denaro, alla bestemmia, alla sodomia, all’usura.
        Ovviamente non è compito di noi medici stabilire quanto queste persone siano colpevoli e quale tipo di punizione meritino – questa, si spera, è incombenza dei giudici –; semmai il nostro lavoro consiste nell’aiutare costoro, quando sono in crisi, a capire che cosa ha limitato la loro libertà interiore e distorto i loro giudizi, inducendoli a compiere scelte sbagliate. Noi non condanniamo né assolviamo, noi curiamo. D’altra parte, lo stesso Dante affida completamente alla Giustizia Divina il compito di accertare i delitti e stabilire i castighi, mentre lui, in quanto Poeta, si occupa principalmente della vita interiore di chi ha finito per dannarsi; ed è questo che a noi, in quanto clinici, interessa.   

 
 
Canto XI

        Dante e Virgilio si trovano al confine inferiore del sesto cerchio, sull’orlo di un’alta riva formata da grandi massi. Attraverso di essa si apre il passaggio verso il settimo cerchio. Tuttavia, dal baratro sottostante salgono esalazioni fortemente maleodoranti; per abituarvisi, perciò, i due Poeti si riparano dietro il coperchio di un grande sarcofago. Su di esso è scritto che qui giace il papa Anastasio II, “tratto dalla via dritta”, ossia divenuto eretico (secondo quanto si riteneva a quel tempo) perché spinto al monofisismo dal diacono Fotino.
        Per impiegare utilmente il tempo in cui dovranno fermarsi allo scopo d’abituare l’olfatto ai cattivi odori, Virgilio illustra a Dante l’ordinamento dell’Inferno:

 
Pag. 153 - 154, vv. 10 – 21
“Lo nostro scender conviene esser tardo,
sì che s’ausi un poco in prima il senso
al tristo fiato; e poi non fia riguardo.”
 
Così ‘l maestro; e io “Alcun compenso”
dissi lui “trova, che ‘l tempo non passi
perduto” Ed elli: “Vedi ch’a ciò penso.”
 
“Figliuol mio, dentro da codesti sassi”
cominciò poi a dir “son tre cerchietti
di grado in grado, come que’ che lassi.
 
Tutti son pien di spirti maladetti;
ma perché poi ti basti pur la vista,
intendi come e perché son costretti.
 

***

 

        Nota a piè di pagina: È qui accennato un tema che interessa anche il clinico: il rapporto fra le impressioni sensoriali e la capacità cosciente di comprendere il significato dell’esperienza. Finché la sensazione sgradevole – qui di tipo olfattivo – è avvertita come troppo intensa, essa prevale. La mente non può contenerla e non ha, perciò, la possibilità di coglierne il significato: in questo caso, il contatto spiacevole con comportamenti inaccettabili. In altre parole, la psiche cosciente, se sopraffatta dalla sensazione, non può comprendere il motivo per cui la vicinanza con tali dannati susciti un sentimento di ripugnanza. Occorre che la coscienza sia preparata; di qui, la spiegazione di Virgilio. Analoghe considerazioni valgono per la sensazione visiva: se gli occhi sono preparati a comprendere il significato delle scene perturbanti cui assistono, la vista può bastare; non occorrono ulteriori spiegazioni da parte di qualcun altro per capire di che si tratta, e per non essere travolti dal carattere sconvolgente di quel che si vede.
        Ciò ha attinenza con la cura degli stati post-traumatici: in presenza di eventi patogeni, la mente è come sopraffatta, non è in grado di compiere quell’elaborazione interiore per cui tali fatti potrebbero essere vissuti, e poi ricordati, come vere e proprie esperienze; rimangono soltanto le tracce d’isolate impressioni sensoriali prive di significato: un’immagine, un odore, un suono. Esse, rievocate, sono di tale intensità da apparire come dotate di una certa estesia sensoriale, talora come vere e proprie allucinazioni. È compito del curante preparare la mente del paziente; questi, al ripresentarsi di tali impressioni, può gradualmente divenire in grado d’integrarle nella propria coscienza come aspetti di fatti significativi.

 

***

 

Virgilio inizia con una spiegazione d’ordine generale: lo scopo di ogni azione peccaminosa (“malizia”) è causare un’ingiustizia (“ingiuria”). Ciò può essere compiuto con la forza o con la frode. Mentre la violenza accomuna l’uomo agli altri animali, la capacità d’ingannare (la “frode”) appartiene solo all’essere umano. Essa, spiacendo di più a Dio, è punita con maggiore severità:

 
Pag. 154, vv. 22 – 27
D’ogni malizia, ch’odio in cielo acquista,
ingiuria è ‘l fine, ed ogni fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista.
 
Ma perché frode è dell’uom proprio male,
più spiace a Dio; e però stan di sutto
li fraudolenti e più dolor li assale.
 

        Chi considerasse le suddette affermazioni dal punto di vista dell’odierno diritto penale, rimarrebbe perplesso di fronte al porre l’atto di violenza di tipo omicida come colpa meno grave rispetto, ad esempio, all’ipocrisia, peccato espiato tra i fraudolenti (sesta bolgia del cerchio VIII). La spiegazione di Dante è di ordine morale e religioso: il fraudolento commette il suo peccato tramite la ragione, un dono che Dio ha offerto al solo essere umano; l’uso perverso di tale facoltà, perciò, offende maggiormente il Creatore rispetto alla violenza, che accomuna l’uomo alle bestie.
        Un clinico, sia pure per ragioni diverse, vedrebbe il problema in modo non molto dissimile da quello di Dante. Se è indiscutibile che il giudice debba fare il suo mestiere, non lo è di meno che noi terapeuti facciamo il nostro. Il nostro compito di curanti non è quello di giudicare la gravità di quanto commesso dal paziente, e quindi la punizione che merita. È, piuttosto, quello d’individuare la natura e la gravità di quanto, nel suo mondo interno, l’ha portato a commettere atti antisociali.
        Da questo punto di vista, l’omicidio (quello impulsivo, non premeditato) è meno “grave” dell’ipocrisia, nel senso che, se il paziente è entrato in crisi e chiede aiuto, è meno difficile offrirglielo. Nell’omicida impulsivo, infatti, l’Io – ossia l’istanza razionale e aderente alla realtà – è stato temporaneamente sopraffatto dalla furia animalesca. Non si è qualitativamente alterato: il suo difetto è la debolezza, cioè l’incapacità, in particolari circostanze, di tener testa alle pulsioni. Nella cura, l’Io cosciente può essere un alleato del medico. La relazione terapeutica può perciò, costituire più facilmente un’esperienza affettiva correttiva capace di conferire, o restituire, forza a quest’istanza. Al contrario, nel fraudolento (ad esempio, nell’ipocrita), l’Io si è posto al servizio delle pulsioni aggressive e antisociali. Anche se il paziente è entrato in crisi, il suo Io non sarà mai del tutto un alleato della cura, ma costituirà prevalentemente un fattore di resistenza. In più, l’ipocrita (al pari degli altri fraudolenti) difficilmente entra in crisi, e non chiede quasi mai un vero aiuto.

 

Virgilio entra, ora, più nei dettagli. I tre cerchi da cui i Poeti devono ancora passare sono il settimo, in cui espiano le loro colpe i violenti, e l’ottavo e il nono, in cui Dante e Virgilio incontreranno i fraudolenti. Il settimo cerchio è diviso in tre gironi; nel primo si trovano i violenti contro il prossimo e le sue cose, nel secondo contro sé stessi e le proprie opere, nel terzo contro Dio e le sue cose:

 
Pag. 155, vv. 34 – 51
Morte per forza e ferute dogliose
nel prossimo si danno, e nel suo avere
ruine, incendi e tollette dannose;
 
onde omicide e ciascun che mal fiere,
guastatori e predon, tutti tormenta
lo giron primo per diverse schiere.
 
Puote omo avere in sé man violenta
e ne’ suoi beni; e però nel secondo
giron convien che sanza pro si penta
 
qualunque priva sé del vostro mondo,
biscazza e fonde la sua facultade,
e piange là dov’esser de’ giocondo.
 
Puossi far forza nella deitade,
col cuor negando e bestemmiando quella
e spregiando ‘n natura sua bontade;
 
e però lo minor giron suggella
del segno suo Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.    
 

        Anche qui, nella suddivisione dantesca dei peccati, colpisce la discordanza fra la gravità del danno oggettivo prodotto e quella della colpa che viene attribuita. Ci appare singolare che la violenza contro esseri umani sia ritenuta altrettanto grave quanto quella contro le cose. Dante considera come colpevole, più di ogni altro atto o sentimento, la gravità dell’offesa arrecata al Creatore. La violenza è un atto d’ingratitudine nei confronti di Suoi doni di qualunque tipo: non solo la vita, ma anche ogni cosa prodotta dall’essere umano quale frutto della sua laboriosità e del suo ingegno, facoltà anch’esse accordate dal Signore.
        Tutto questo, ovviamente, non ha nulla a che vedere con la concezione odierna del diritto penale, e neppure della moralità. Tuttavia il punto di vista religioso di Dante è molto vicino a quello laico ed attuale del clinico: la radice prima di ogni forma di violenza è un grave conflitto con l’Oggetto Arcaico ideale interiorizzato, una “persona nella persona” (in cui i credenti possono vedere una manifestazione di Dio sulla terra) erede di chi ci diede la vita e facilitò lo sviluppo delle nostre facoltà. Tale genitore reale, se si comportò in modo inadeguato, può essere stato corresponsabile della crescita di un figlio violento. Tuttavia, come la Giustizia Divina dantesca, anche la realtà è inesorabile e non concede attenuanti: questo peccatore si auto-condanna a pentirsi inutilmente (“sanza pro”) per scelte che, in un modo o nell’altro, finiranno per rivolgerglisi contro; e questo anche se c’è stato un “concorso di colpa” da parte di altri.

 

Ora il Poeta latino passa a parlare dei fraudolenti; li distingue a seconda della gravità del peccato, li elenca e rende noto il luogo dell’Inferno in cui sono puniti:

 
Pag. 160, vv. 52 – 66
La frode, ond’ogni coscienza è morsa,
può l’omo usare in colui che ‘n lui fida
ed in quel che fidanza non imborsa.
 
Questo modo di retro par ch’uccida
pur lo vinco d’amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s’annida
 
ipocrisia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.
 
Per l’altro modo quell’amor s’oblia
che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto,
di che la fede spezial si cria;
 
onde nel cerchio minore, ov’è ‘l punto
dell’universo in su che Dite siede,
qualunque trade in etterno è consunto.”
 

Come detto più sopra, la frode è ritenuta colpa più grave della violenza in quanto implica il concorso della ragione, e c’è maggiore consapevolezza del male: ogni coscienza ne è “morsa”. La frode contro chi non si fida rompe il vincolo d’affetto che la natura ha voluto fra gli esseri umani; danneggia chi ne è stato vittima e crea diffidenza fra gli uomini. La frode contro chi si fida è doppiamente grave: alla rottura del generico legame affettivo fra le persone si aggiunge quella di un vincolo particolare caratterizzato da fiducia: quello fra parenti, o compatrioti, o amici, o quello coi benefattori. Si tratta di legami che rappresentano gli eredi dei primi, fondamentali rapporti grazie ai quali l’individuo poté sopravvivere e crescere. Interiorizzati, costituiscono il supporto del mondo interno e danno luogo a valenze affettive che vengono “saturate” da relazioni di vitale importanza. La corruzione di tali investimenti affettivi sottrae all’individuo la possibilità d’instaurare autentici rapporti di solidarietà e/o collaborazione coi propri simili, e di giovarsene. A fronte di un vantaggio immediato ottenuto con l’inganno, il danno arrecato dal fraudolento agli altri ed a sé stesso è enorme.

 

Dante, pur soddisfatto della spiegazione di Virgilio, esprime un suo dubbio: non comprende come mai i peccatori d’incontinenza – descritti in base alla particolare punizione: la palude, il vento, ecc. – non siano puniti all’interno della città di Dite: la città “roggia”, ossia rosseggiante di fuoco.

 
Pag. 161, vv. 70 – 75
Ma dimmi: quei della palude pingue,
che mena il vento, e che batte la pioggia,
e che s’incontran con sì aspre lingue,
 
perché non dentro dalla città roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perché sono a tal foggia?
 

Virgilio risponde al Poeta rimandandolo al VII libro dell’Etica di Aristotele, dove si parla delle tre disposizioni dell’animo a carattere peccaminoso: l’incontinenza, la malizia (o frode), e la “matta bestialitade” (o violenza):

 
Pag. 161 – 162, vv. 79 – 84
Non ti rimembra di quelle parole
con le quali la tua Etica pertratta
le tre disposizion che ‘l ciel non vole,
 
incontinenza, malizia e la matta
bestialitade? e come incontinenza
men Dio offende e men biasimo accatta?
 

Come già detto, alla gravità morale attribuita dal Poeta a ciascun “peccato” corrisponde la serietà del problema clinico rappresentato da quel comportamento. I problemi riconducibili ad incontinenza sono meno difficilmente trattabili rispetto alla violenza o all’inclinazione alla frode radicate nella personalità del paziente. Dante, per voce di Virgilio, afferma che gli incontinenti sono puniti al di fuori della città di Dite, e con pene minori, perché il loro peccato “offende Dio in modo meno grave”. Ci dice in termini religiosi (e, in questo modo, ci rende più facilmente pensabile e comunicabile) che violenza e fraudolenza hanno radici antiche: nacquero da un conflitto, con l’Oggetto arcaico ideale, che proseguì anche quando questo venne interiorizzato. Per noi terapeuti non è facile aiutare i pazienti a ricomporre la frattura con tale oggetto interno, ossia con la fonte interiore di benessere e salute.

 

Dante espone a Virgilio un altro motivo d’incertezza: non comprende come l’usura sia una violenza contro Dio. Così il Poeta latino gli risponde:

 
Pag. 162 – 163, vv. 97 – 111
“Filosofia” mi disse “a chi la ‘ntende,
nota non pur in una sola parte,
come natura lo suo corso prende
 
da divino intelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,
 
che l’arte vostra quelle, quando pote,
segue, come ‘l maestro fa il discente;
sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote.
 
Da queste due, se tu ti rechi a mente
la Genesì dal principio, convene
prender sua vita ed avanzar la gente;
 
e perché l’usuriere altra via tene,
per sé natura e per la sua seguace
dispregia, poi ch’in altro pon la spene.
 

        Virgilio, citando nuovamente Aristotele, afferma che la natura nasce dall’intelletto e dall’opera di Dio. L’arte degli uomini – intesa nel senso di professione – segue, per quanto può, la natura come il discepolo segue il maestro. Perciò l’arte umana, figlia della natura, è, per così dire, nipote di Dio. Virgilio cita anche il libro della Genesi (III, 19): “Tu mangerai il tuo pane col sudore della tua fronte”, Ciò significa che è necessario (e prescritto da Dio) che gli uomini traggano i mezzi per vivere e per progredire dalla natura, che offre i propri prodotti, e dall’arte umana che li lavora. Poiché l’usuraio non si procura di che vivere col sudore della sua fronte (non lavora, non produce), ma solo prestando il denaro, egli disprezza la natura e l’arte del lavoro, e perciò offende Dio.
        Anche qui, come altrove, una verità interiore descritta da Dante utilizzando un sistema di pensiero religioso, può essere tradotta in termini laici. Partiamo dalle origini: all’inizio della vita, il narcisismo infantile trae un suo necessario nutrimento dalla “illusione primaria” (Winnicott), ossia dalla convinzione – sostenuta dalle sollecite cure materne – che la realtà ed il soddisfacimento pulsionale che il piccolo attinge da essa siano il prodotto di un atto “magico” di creazione da parte della sua stessa mente. In condizioni sane, tali pretese del “Sé grandioso” infantile vengono gradualmente ridimensionate – mentre, parallelamente, il principio di realtà si afferma – tramite “frustrazioni ottimali” (Kohut), ossia commisurate a quanto il bimbo può tollerare nella sua fase di sviluppo, e temperate, nei loro effetti emotivi, dalla comprensione empatica materna. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, c’è una fase intermedia in cui la “onnipotenza” del Sé grandioso non crolla, ma viene ceduta all’oggetto primo d’amore. Si costituisce, così, l’Oggetto arcaico ideale (manifestazione di Dio sulla terra, oppure semplice creazione di una mente immatura? Il lettore, naturalmente, è libero di dare la sua personale interpretazione). Ora a “creare” la natura ed a trarre da essa come magicamente il soddisfacimento pulsionale provvede non più il soggetto, ma l’oggetto d’amore idealizzato. Gradualmente (anche qui tramite “frustrazioni ottimali”) le capacità dell’oggetto idealizzato vengono ridimensionate e sottoposte all’esame di realtà. A processo ultimato, il soggetto è in grado di assimilarle attraverso l’emulazione.
        L’Oggetto arcaico ideale, interiorizzato (ossia trasformato in “oggetto interno”, vale a dire un essere autonomo dentro la mente), rimane come necessaria guida del soggetto. Le sue capacità “magiche” sono per lo più sparite; tuttavia rimane come modello e fonte d’amore, il che equivale a dire benessere e salute. La percezione dei particolari aspetti della “natura” con cui l’uomo ritiene sia bene confrontarsi, nonché il carattere della “arte” del lavoro con cui la plasma: tutto questo trae impulso dall’Oggetto ideale interiorizzato, o dall’influenza di Dio, che coincide con questo per il credente. Porsi contro tale “natura” e disprezzare l’arte del lavoro, come fa l’usuraio: ciò significa porsi contro l’Oggetto ideale (Dio) e, quindi rinunciare all’amore, al benessere e ad una vera e propria salute. Più concretamente (e un po’ più banalmente): solo l’amore, ossia una relazione coi propri simili ed un amor proprio che siano evoluti, può rendere possibile un rapporto di collaborazione, ossia il più oggettivamente vantaggioso e soggettivamente soddisfacente. L’usuraio, con la sua attività “violenta” vi rinuncia, e così si auto-punisce.

 

Il Canto XI si conclude con l’invito di Virgilio ad affrettarsi verso il punto in cui si può discendere attraverso la rupe (il “balzo”). Per dire che è tempo d’andare, la guida di Dante fa riferimento alla costellazione dello Zodiaco in corrispondenza della quale il sole si trova in quel momento, e ad altri astri:

 
Pag. 163, vv. 112 – 115
Ma seguimi oramai, che ‘l gir mi piace;
ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta,
e ‘l Carro tutto sovra ‘l Coro giace,
 
e ‘l balzo via là oltra si dismonta.”
 
…………………………………………………………………………………………
 
Canto XII

        Dante e Virgilio si accingono a scendere al settimo cerchio. Devono superare un pendio dirupato o “burrato”. Sull’orlo di quel precipizio – del fianco franato (“rotta lacca”) della montagna – giace disteso il Minotauro, custode del cerchio in cui i due Poeti stanno per entrare:

 
Pag. 165 – 166, vv. 11 – 13
……………………………………
e ‘n su la punta della rotta lacca
l’infamia di Creti era distesa
 
che fu concetta nella falsa vacca;
 

        Il Minotauro, nato a Creta dall’unione perversa di Pasifae, moglie di Minosse, con un toro, fu concepito grazie ad uno stratagemma: la donna, entrata in una vacca di legno, si congiunse con la bestia. Mezzo uomo e mezzo toro, rappresenta la natura umana imbestialita (la “matta bestialitade”) che spinge l’essere umano alla violenza.
        Sia nel mito, sia nella rielaborazione dantesca, troviamo impliciti riferimenti ad una realtà profonda: il modo con cui un essere umano viene concepito incide profondamente sulla sua natura. Qui dobbiamo necessariamente menzionare termini volgari che la maggior parte di noi cerca di evitare ma che, al di là delle loro connotazioni dispregiative e moralistiche, contengono un nucleo di verità. La madre del Minotauro, al momento del concepimento, assume le sembianze di una “vacca”, parola che viene volgarmente impiegata per indicare una donna che non sa coniugare la sessualità con l’amore. Il padre è un “toro da monta”, ossia, anche qui, un uomo ipersessuale e privo di sentimenti. In più, il Minotauro fu frutto di un tradimento della fedeltà coniugale: quel che volgarmente viene definito “bastardo”, parola che viene anche impiegata per indicare un essere umano moralmente spregevole. Purtroppo la realtà dà in parte ragione alla concezione volgare: anche se spogliamo i termini delle loro connotazioni moralistiche, dobbiamo ammettere che i “bastardi” tendono ad adottare comportamenti antisociali. Frutto di una violenza sulla natura umana (l’amore con cui si genera un nuovo essere vivente) nascono essi stessi, in vario modo, violenti; questa particolare origine della propria esistenza incide precocemente e profondamente sul loro modo di essere: “così come voi genitori mi avete generato, così io sono”. Mancano, in queste persone, quella naturale ingenuità e quella tendenziale bontà che appartengono ai bambini, anche se esse possono essere acquisite come frutto dell’amore, dell’empatia e della pazienza di genitori adottivi e/o di terapeuti. Ci piacerebbe pensare che i “bastardi” siano bambini come tutti gli altri; tuttavia, se ignoriamo che possono diventarlo solo in virtù di rapporti molto impegnativi, rischiamo di abbandonarli al loro infelice destino.

 
Alla vista dei Poeti, il Minotauro reagisce con un singolare comportamento ferino:
 
Pag. 166, vv. 14 – 25
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l’ira dentro fiacca.
 
Lo savio mio inver lui gridò: “Forse
tu credi che qui sia ‘l duca di Atene,
che su nel mondo la morte ti porse?
 
Partiti, bestia: ché questi non vene
ammaestrato dalla tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene.”
 
Qual è quel toro che si slaccia in quella
c’ha ricevuto già ‘l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,
 
vid’io lo Minotauro far cotale;
………………………………….
 

        Vedendo Dante e il suo maestro, il Minotauro si morde e si rode interiormente. Alle parole decise e piene di sarcasmo di Virgilio, reagisce in modo ancor più bizzarro e violento. Il Poeta latino gli dice che Dante viene solo per visitare l’Inferno; non viene, come già Teseo (il “duca di Atene”, guidato da Arianna, sorella dello stesso Minotauro) per dargli la morte. Il ricordo di quelle amare vicende equivale, per questo mostro, ad un colpo mortale.
        Si possono vedere, nel comportamento del Minotauro, le manifestazioni primitive di una rabbia impotente: per volere di un’autorità superiore, viene umiliata la sua stessa autorità di custode inflessibile che dovrebbe vietare l’accesso al suo cerchio a chiunque non sia un defunto dannato. Tuttavia, già alla sola vista di Dante, guidato ed affettuosamente protetto dal suo maestro, il Minotauro manifesta un intenso livore. Si può supporre che la sua sia anche la manifestazione esasperata di un rancore di fronte all’esempio di quel che a lui mancò del tutto: la premura e l’amore di un genitore che, per soddisfare le necessità del figlio, si adopera per aiutarlo e gli concede un privilegio. La sua ferocia, di cui non era l’unico responsabile, incontrò un’unica risposta: la morte provocata da un giustiziere guidato dalla sua stessa sorella.
        In contrasto con l’immagine tradizionale del Minotauro – corpo di uomo e testa di toro – questo mostro viene presentato da Dante, all’opposto, con un corpo di bestia ed un volto umano. Credo che qui l’immaginazione creativa dantesca abbia colto una realtà profonda: il violento deve venire a patti con un’irrefrenabile aggressività ferina utilizzando la facoltà umana dell’intelletto: ecco perché la testa è quella di un uomo. In una perfezionata organizzazione criminale della personalità, la violenza viene deflessa verso il mondo esterno ed il Sé non solo ne viene preservato, ma diviene anche l’oggetto del massimo riguardo. Kohut sostiene che l’empatia (intesa qui come umana comprensione) di cui il criminale priva i propri simili, viene rivolta unicamente al Sé, quasi un auto-risarcimento per l’affettuosa comprensione mai ricevuta. Per poter ottenere tutto questo, la facoltà introspettiva e l’esame della realtà oggettiva devono essere efficienti. Distogliere completamente l’ostilità da sé non è facile; ecco perché, in molti casi, imperfette organizzazioni criminali della personalità finiscono per far sì che il soggetto danneggi sé stesso, a volte per soddisfare istanze auto-punitive. Nella scena descritta da Dante, il Minotauro rivolge l’aggressività unicamente su di sé.

 

Virgilio grida a Dante d’affrettarsi verso il passaggio (“varco”) al settimo cerchio, approfittando della temporanea distrazione della “sentinella” Minotauro. Inizia, così, la discesa dei due Poeti attraverso la “ruina” di rocce:

 
Pag. 166 – 167, vv. 26 – 45
e quello accorto gridò: “Corri al varco:
mentre ch’è in furia è buon che tu ti cale.”
 
Così prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.
 
Io gìa pensando; e quei disse: “Tu pensi
forse in questa ruina ch’è guardata
da quell’ira bestial ch’i’ ora spensi.
 
Or vo’ che sappi che l’altra fiata
ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata;
 
ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno,
 
da tutte parti l’alta valle feda
tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo
sentisse amor, per lo qual è chi creda
 
più volte il mondo in caòs converso;
ed in quel punto questa vecchia roccia
qui e altrove tal fece riverso.
 

        Indovinando le domande che Dante si sta ponendo mentalmente, Virgilio gli rivela le origini della “ruina”. Tale frana non esisteva ancora quando il Poeta latino discese nel basso inferno (Inf. IX, vv 22 e seg.). Essa fu provocata dal terremoto che, secondo il Vangelo (Matteo, XXVII, 51) sconvolse il mondo alla morte di Cristo, ossia poco prima che il Salvatore discendesse al Limbo (il “cerchio superno”) per liberare le anime dei Patriarchi (la “gran preda”). Ricordando le teorie di Empedocle, Virgilio pensò che il terremoto avesse fatto sì che l’universo “sentisse amor” nei suoi componenti, ossia che questi tornassero all’originaria concordia, unendosi e confondendosi nel caos.
        La dottrina empedoclea, citata da Dante per bocca di Virgilio, non pare al sottoscritto del tutto coerente con la concezione dantesca di Dio quale Amore che muove l’universo (Paradiso XXXIII, 145). In questo senso, l’Amore divino sembrerebbe il fondamento dell’ordine e dell’armonia delle cose, e non fonte di confusione e caos. Se, tuttavia, supponiamo che queste concezioni religiose e cosmiche riflettano metaforicamente realtà soggettive, la contraddizione si rivela solo apparente.
        Teniamo conto che la “ruina” compare nell’Inferno in tre occasioni: quando i Poeti attraversano il secondo cerchio, quello dei lussuriosi, qui nel settimo cerchio dei violenti, e più avanti, nella sesta bolgia del cerchio VIII, quella degli ipocriti. In tutti e tre i casi, l’Amore divino (che si suppone la forma più autentica ed evoluta di questo sentimento) è come tradito: i lussuriosi piegarono quest’affetto alle esigenze della passione; i violenti lo negarono coi loro atti; gli ipocriti finsero soltanto di nutrirlo e, in realtà, lo ignorarono. In tre modi differenti, questi dannati si allontanarono dall’Oggetto interno ideale (Dio), oggetto originario e fonte del sentimento più puro. Non più alimentato da questo, l’affetto regredisce: non si rivolge più ad un soggetto e ad un mondo esterno distinti tra loro, ma ad un’entità in cui essi tornano a fondersi e confondersi: è il ritorno al caos primitivo. In esso l’uomo ripiomba ogni volta che rinnega Dio, come in occasione dell’assassinio di Cristo, quando il mondo interno di ogni essere umano crollò.

 

Virgilio invita Dante a guardare a valle, dove scorre un fiume di sangue: il Flegetonte. Si tratta del primo dei tre gironi in cui è suddiviso il VII cerchio. Qui sono puniti i violenti contro il prossimo: contro la persona (tiranni, omicidi, feritori) e contro le cose (guastatori, predoni). Essi sono più o meno profondamente immersi nel fiume a seconda della gravità della loro colpa:  

 
Pag. 167, vv. 46 – 51
Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per violenza in altrui noccia.”
 
Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni nella vita corta,
e nell’etterna poi sì mal c’immolle!
 

        Questi violenti versarono il sangue dei propri simili e ora, per contrappasso, ne sono sommersi. Quel che li spinse al crimine fu un’avidità sfrenata (“cupidigia”) definita “cieca” perché ignorò le conseguenze estreme della violenza: terminata l’esistenza terrena (la “vita corta”) costoro non seppero prevedere che li avrebbe attesi la dannazione eterna.
        È opinione del sottoscritto che concetti religiosi, come la “vita eterna” possano essere tradotti in termini laici, ossia ricondotti a quanto, in questa vita terrena, è riscontrabile utilizzando strumenti d’indagine appropriati – preciso che, riguardo alla vita interiore degli esseri umani, l’unico mezzo appropriato per accedervi è la capacità di comprensione introspettivo-empatica – In questo caso, occorre tener presente la distinzione fra il tempo scandito dall’orologio o dal calendario, e il tempo soggettivo. Quest’ultimo molto spesso differisce dal primo, cioè fa sì che la durata degli avvenimenti venga soggettivamente percepita come raccorciata o prolungata. Talora il tempo percepito è del tutto affrancato dalla dimensione oggettiva. Ciò capita a volte nei sogni, in cui si ha la sensazione d’aver vissuto per intere epoche quando l’orologio ci dice che sono passate poche ore. Capita anche in certe forme di “ecmnesia” in cui – in rapporto a particolari situazioni patologiche o al rischio di morte imminente – vengono rivissuti in modo allucinatorio episodi dell’intera vita; e questo nella durata oggettiva di pochi minuti.
        Gli ultimi istanti dell’esistenza sono quelli del “redde rationem”: ci si è congedati dalla vita. I vantaggi materiali, frutto di atti illeciti, non contano più nulla. Ci si è allontanati definitivamente dai propri simili; non è più possibile, quindi, ingannarli facendo credere d’essere migliori di quel che si è realmente, e trarne alimento all’auto-inganno. Occorre fare i conti con quel nucleo della propria coscienza che è governata dalla “morale naturale”, fondata sull’empatia e sul sentimento di comunanza coi propri simili. Non è più possibile mentire a sé stessi: l’intera vita viene vista, episodio per episodio, per quel che è stata veramente. E tutto questo avviene in un lasso di tempo che, sganciato completamente da quello finora trascorso, può essere esperito come “eternità”. Non è possibile accertare se ciò si verifichi in tutti i casi; tuttavia sappiamo che può verificarsi, e il non considerare tale eventualità rende “cieca” la cupidigia di beni materiali soddisfatta con atti violenti.

 

Custodi del primo girone sono i centauri, esseri dalla natura umana dal petto in su ed equina al di sotto. Essi, come il Minotauro, rappresentano la violenza bestiale. Corrono lungo le sponde del Flegetonte, colpendo con le loro frecce i dannati che tentano di sollevarsi. Dalla schiera dei centauri, se ne staccano tre e si dirigono verso Dante e Virgilio. Sono riconoscibili Nesso, che morì per amore della moglie di Eracle Deianira, Folo, noto per la sua irascibilità violenta, e Chirone, il saggio precettore di Achille. Nesso, in tono minaccioso, chiede ai Poeti che tipo di “dannati” siano:

 
Pag. 168, vv. 61 – 66
e l’un gridò da lungi: “A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l’arco tiro.”
 
Lo mio maestro disse: “La risposta
farem noi a Chiron costà di presso:
mal fu la voglia tua sempre sì tosta.”
 

        Virgilio, rinfacciando a Nesso la sua precipitosa irruenza (la “voglia tosta”), gli dice che si rifiuta di rispondergli; parlerà solo con Chirone. Fra tutti coloro che i Poeti incontrano nel girone dei violenti contro il prossimo, siano essi dannati o custodi, il solo cui rivolgono la parola con fiducia è Chirone, il centauro noto per la sua saggezza. Benché per metà bestia, il precettore di Achille è l’unico che ha saputo far prevalere la sua natura umana.
        Qui Dante adombra un’importante realtà emotiva: con i violenti contro il prossimo il dialogo è impossibile. Irruenti e pervasi da sentimenti ostili, anche nello scambio verbale prevale in loro l’intento di sopraffare l’interlocutore; sono sordi riguardo a quanto costui ha da comunicare, non è possibile farsi capire, né trarre dalle loro parole idee sensate o informazioni utili; parlare con loro equivale a una rissa.
        Per un clinico, ciò costituisce un insegnamento o una conferma: con i violenti di questo tipo, il dialogo è inutile o impossibile. Occorre, ovviamente, metterli nell’impossibilità di nuocere. Si spera (e talvolta questo avviene) che, resa impotente la loro aggressività, costoro entrino in crisi e chiedano aiuto. Naturalmente occorre dimostrarsi disponibili ad offrirlo. A questo punto, un vero dialogo costruttivo può cominciare.

 

Chirone è l’unico, fra i centauri, che sa ascoltare quel che gli dice Virgilio; sa riflettere, ed offrire ai Poeti un aiuto a proseguire il loro viaggio:

 
Pag. 170 – 171, vv. 76 – 99
Noi ci appressammo a quelle fiere snelle:
Chiron prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro alle mascelle.
 
Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
disse a’ compagni: “Siete voi accorti
che quel di retro move ciò ch’el tocca?
 
Così non soglion far li piè de’ morti.”
E ‘l mio buon duca, che già li era al petto,
dove le due nature son consorti,
 
rispuose: “Ben è vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien la valle buia:
necessità ‘l ci ‘nduce, e non diletto.
 
Tal si partì da cantare alleluia
che mi commise quest’officio novo:
non è ladron, né io anima fuia.
 
Ma per quella virtù per cu’ io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo,
 
e che ne mostri là dove si guada
e che porti costui in su la groppa,
ché non è spirto che per l’aere vada.”
 
Chiron si volse in su la destra toppa,
e disse a Nesso: “Torna, e sì li guida,
e fa cansar s’altra schiera v’intoppa.”
 

Nesso, su ordine di Chirone, aiuta i due Poeti a raggiungere un guado e ad oltrepassare il Flegetonte. Durante il percorso, Dante riconosce i dannati, di cui si limita ad indicare i nomi e a descrivere sommariamente i loro misfatti. Non tenta neppure di rivolgere loro la parola. Alla pena più severa sono condannati i tiranni, colpevoli dei più “spietati danni”: Alessandro (Alessandro Magno o, secondo alcuni, Alessandro di Fere), Dionisio di Siracusa, Ezzelino III da Romano, Obizzo II d’Este… Vengono poi, condannati a pene meno dure, gli omicidi, fra cui Guido di Montfort; quindi i colpevoli di ferimenti, e poi i devastatori: Attila, Pirro, il pirata Sesto Pompeo ed i ladroni Riniero da Corneto e Rinieri dei Pazzi.

 

Su tutti costoro, Dante non si sofferma: vengono indicati quasi esclusivamente con il nome e con l’epiteto di “tiranni”, “omicidi”, ecc. Contrariamente a quanto fa con altri dannati, qui Dante non c’illustra quel che fu la loro natura umana individuale; e questo perché, per il motivo che si è detto, non cerca neppure di parlare con loro. Possiamo dire che questo è parte della loro condanna: avendo presentato ai propri simili soltanto il loro aspetto violento, non saranno ricordati per altro. Anche qui la “Giustizia divina” coincide con le inevitabili conseguenze delle loro scelte sbagliate.

 

Oltrepassato il fiume, Dante scende dalla groppa di Nesso, e questi ritorna a guado all’altra sponda:

 
Pag. 177, v. 139
Poi si rivolse e ripassossi ‘l guazzo.
 
…………………………………………………………………………………………
 
Canto XIII

Il centauro Nesso non ha ancora raggiunto l’altra riva del Flegetonte, quando i due Poeti entrano in un bosco dall’aspetto selvaggio e cupo:

 
pag. 179, vv 1 – 9
Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da nessun sentiero era segnato.
 
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tosco:
 
non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che in odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi colti.”
 

Madre Natura non sorride ai violenti contro sé stessi e le proprie opere. Qui la “madre-ambiente” (come illustrata nei commenti ai canti VI e VII) non infligge attivamente un tormento, come ai dannati golosi. Li punisce, forse ancor più severamente, con il suo aspetto inospitale ed ostile: le fronde degli alberi non sono allietate dal verde, i rami sono contorti, non ci sono frutti, ma spine velenose. Senza che ci sia ancora detto quale sia la natura dei peccatori che stiamo per incontrare, intuiamo già subito che tali dannati non godono di alcun sostegno (materno) al desiderio ed al piacere di esistere.

 

Custodi del secondo girone del cerchio VII sono le Arpie, rappresentate nel mito con volti di donna e corpi di uccelli:

 
pag. 179, vv 10 – 15
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar delle Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
 
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto il gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.
 

Il carattere ostile ed inospitale dell’ambiente è rafforzato dalla presenza delle Arpie. Esse, pur avendo nel volto tratti umani femminili, sono la negazione di quel carattere accogliente e “materno” che ognuno desidererebbe in una donna che lo ospita: nel mito sono “rapitrici” di anime e di bambini. Una madre amorevole, con le cure, l’immaginazione creativa e la comprensione empatica che la caratterizzano, dà un’“anima” al suo piccolo: lo trasforma, da essere primitivo e poco più che un organismo biologico, in essere umano “animato”; le Arpie fanno esattamente l’opposto. Immagini materne persecutorie, sono disumanizzate e spaventose anche nell’aspetto: le loro estremità sono munite di “artigli”, il loro ventre è grande e “pennuto”, segno d’ingorda rapacità; i suoni che emettono non hanno nulla della dolce voce femminile, sono solo lugubri lamenti.

 

Virgilio avvisa Dante che stanno entrando nel secondo girone del VII cerchio. Lo invita a guardarsi attentamente attorno, poiché vedrà cose cui non crederebbe se solo gli venissero raccontate. Da ogni parte arrivano alle orecchie di Dante grida lamentose, ma i suoi occhi non vedono nessuno, per cui si ferma smarrito. Virgilio, immaginando che Dante pensi che simili grida provengano da gente nascosta, gli consiglia di staccare un ramoscello da una delle piante che lo circondano. Accade, quindi, qualcosa di sconvolgente:

 
pag. 181 – 186, vv 31 – 45)
Allor porsi la mano un poco avante,
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ‘l tronco suo gridò: “Perché mi schiante?”
 
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: “Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietà alcuno?
 
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi”
 
Come d’un stizzo verde ch’arso sia
dall’un de’ capi, che dall’altro geme
e cigola per vento che va via,
 
sì della scheggia rotta usciva inseme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.
 

        Appena staccato il ramoscello, il tronco si fa bruno di sangue; dal punto in cui si è rotto esce una voce che rimprovera il Poeta per la sua crudeltà verso una pianta che contiene un’anima umana. Dante paragona la scena ad un tizzo verde che, bruciato ad una delle sue estremità, dall’altra emette gocce d’umore e stride per l’aria che ne esce. Tale similitudine rende concreta una situazione incredibile.
        Dante, per questa scena, si è ispirato all’episodio virgiliano di Polidoro (En. III, 22 e seg.), il figlio di Priamo inviato in Tracia presso il cognato Polinestore per sfuggire alla guerra. Qui il giovane era stato assassinato dall’ospite allo scopo d’impadronirsi delle sue ricchezze; però gli Dei, per porre rimedio a tale crudele fine, lo avevano trasformato in mirto. Viene anche in mente l’episodio di Dafne, trasformata in alloro per sottrarla alle “avances” indesiderate di Apollo.
        Confrontando tali episodi con la versione dantesca, colpisce un contrasto: mentre nei miti antichi la trasformazione in vegetali rappresenta un atto di pietà – una sorta di consolazione – da parte degli Dei, in Dante essa costituisce una punizione per i dannati colpevoli (come si vedrà fra poco) di suicidio. Il contrasto è solo apparente: comune a molte persone (tutte?) che hanno deciso di porre fine alla loro esistenza è la fantasia più o meno consapevole di ritornare, tramite il gesto auto-soppressivo, a prima che la vita iniziasse. Costoro non pensano che dopo la morte ci sia il nulla, ma una “quiete eterna” che ripristini per sempre quella intrauterina\. Si tratta del desiderio di regredire ad una forma di vita quasi puramente vegetativa, legata ad un rapporto fusionale con l’ambiente materno; esattamente come quella delle piante, la cui esistenza dipende dalla simbiosi con la “terra madre”. Tuttavia può succedere che, negli ultimi istanti, quando non si può più tornare indietro, il suicida si renda conto della gravità del suo gesto: sta rinunciando per sempre ad una natura propriamente umana. Tali ultimi istanti, nella dimensione del tempo soggettivo, equivalgono all’eternità; ed ecco che la consolazione si trasforma in una dannazione eterna.
        Rendere l’aspirante suicida pienamente cosciente di tale fantasia patogena, aiutandolo a sottoporla a critica, rappresenta un atto terapeutico di fondamentale importanza. Dante, con i suoi versi, ci offre le parole che permettono di pensare e comunicare tutto questo.

 

Rivolgendosi all’anima racchiusa nel tronco, Virgilio giustifica l’atto del suo discepolo spiegando d’averlo indotto lui stesso a compierlo, allo scopo di convincerlo della veridicità di quanto aveva letto nell’Eneide: allude all’episodio di Polidoro. Invita lo spirito a palesarsi; Dante, così, per compensarlo della sofferenza che gli aveva provocato, potrà rinnovare nel mondo dei viventi il ricordo di lui. Il tronco, allettato da questa promessa, inizia a parlare delle sue vicende:   

 
pag. 186 – 188, vv 58 – 78
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e dissertando, sì soavi,
 
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi:
fede portai al glorioso offizio
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e’ polsi.
 
La meretrice che mai dall’ospizio
Di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune, delle corti vizio,
 
infiammò contra me li animi tutti;
e li ‘nfiammati infiammar sì Augusto,
che’ lieti onor tornaro in tristi lutti.
 
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
 
Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio signor, che fu d’onor sì degno.
 
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ‘nvidia le diede.
 

        Dante, con questi versi, c’illustra il carattere insidioso – direi quasi “pre-morboso” – di un rapporto privilegiato con un’autorità; un rapporto idealizzato, che pur escludendo ogni desiderio o possibilità di emancipazione, non lascia apparentemente spazio a rivalità o ad invidia. Tuttavia, questi sentimenti negativi non vengono mai soppressi: quanto più si allontanano dalla relazione, tanto più essi si sviluppano in chi ne è escluso. Non è possibile violentare del tutto la natura umana: l’umiliazione è implicita in ogni rapporto di sudditanza; se essa non viene mitigata dal riconoscimento della, e dal sostegno alla, “pulsione all’emancipazione” (Loewald) – come invece avviene in un sano rapporto genitore-figlio – è inevitabile che la mortificazione si traduca in un sentimento d’invidia.  
        Rapporti “idilliaci”, come quelli che legarono per molti anni Pier delle Vigne all’Imperatore, possono essere mantenuti come tali solo grazie al disconoscimento, alla scissione da sé, ed all’identificazione proiettiva sugli esclusi della mortificazione e dell’invidia. Tali sentimenti insopportabili, come la foresta-realtà disconosciuta da Macbeth, ritornano inesorabilmente addosso a chi originariamente li ha nutriti: a Pier delle Vigne travolgendolo.
        Pier delle Vigne viene a trovarsi nella condizione tipica del suicida: “abbandonato da Dio e dagli uomini”. Non può contare, cioè, neppure sull’aiuto di un oggetto interno idealizzato e protettivo – Dio per i credenti – perché Federico ne ha preso il posto: è divenuto lui il suo solo “Dio”. Avendone perso il sostegno, non può più apprezzare nulla e nessuno, in lui domina il sentimento del “disdegno” – ossia offesa e disprezzo – per tutti, anche per sé stesso: gli manca una voce interiore che gli dica che, non avendo nulla di cui rimproverarsi, non può infliggersi la punizione della morte: è ingiusto uccidere un giusto.
        Dante, negli ultimi versi sopra citati, sembra anticipare di alcuni secoli il discorso di Amleto morente all’amico Orazio: unica consolazione, per chi è stato travolto dall’urto delle passioni proprie ed altrui, è che qualcuno un giorno possa “raccontare la sua storia”, ossia ricondurre ad una serie di cause ed effetti, e quindi rendere pensabile, quella che per lui fu solo una tempesta incontrollabile e sconvolgente.

 

Dante, mosso a pietà per quel che ha ascoltato da Pier delle Vigne, non si sente più di rivolgergli la parola. Prega, perciò, Virgilio di farlo al posto suo. Questi, conoscendo i desideri del discepolo, chiede a quel dannato come le anime dei suicidi si leghino alle piante, e se qualcuna riesca a liberarsene.

 
pag. 189 – 190, vv 91 – 108
Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
“Brievemente sarà risposto a voi.
 
Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
Minòs la manda alla settima foce.
 
Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.
 
Surge in vermena ed in pianta silvestra:
l’Arpìe, pascendo poi delle sue foglie,
fanno dolore, ed al dolor fenestra.
 
Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta;
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.
 
Qui le trascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun dell’ombra sua molesta.”
 

Riporto qui, di questi versi, la “versione in prosa” del Bignami (pag, 113): “Pier delle Vigne spiega che quando l’anima, che fu crudele (‘feroce’) contro il proprio corpo, si stacca da esso, Minosse la manda al settimo cerchio (‘foce’) dove, a seconda del luogo in cui il caso l’ha fatta cadere (‘la balestra’) germoglia, crescendo in una pianta silvestre, delle cui foglie si nutrono le Arpie [provocando, con la loro violenza, aperture (‘fenestre’) da cui escono i dolorosi lamenti]. Nel giorno del Giudizio Universale, le anime dei suicidi [come le altre] andranno a riprendere i propri corpi, ma non se ne rivestiranno, poiché non è giusto avere quel che l’uomo, con la violenza, ha tolto a sé stesso: dovranno, invece, trascinarli per la lugubre selva ed appenderli all’albero in cui ogni anima è imprigionata”.

 

        È tipica di certi suicidi, soprattutto quelli adolescenziali, una furia distruttiva rivolta verso il proprio corpo. Dice Amleto: “O, that this too, toot solid flesh would melt / Thaw and resolve itself into a dew! / O that the Everlasting had not fix'd / His canon ‘gainst self-slaughter! O God! O God! [Oh, se questa troppo, troppo solida carne / potesse sciogliersi e dissolversi in rugiada! / Oh se il Padre Eterno non avesse stabilito / la Sua punizione verso chi si massacra, o Dio! O Dio!]. Pare che queste infelici persone si convincano che il corpo sia colpevole di tutti i mali che hanno reso la vita insopportabile: cercano di sopprimerlo, salvando una loro presunta esistenza “incorporea”.
        Come si è detto più sopra, nell’eternità soggettiva degli ultimi istanti, quando non si può più tornare indietro, il suicida può rendersi conto, di colpo, della gravità del gesto che sta compiendo. Può capire, quando è troppo tardi – quando sta precipitando da un palazzo, o ha già ingerito un veleno, o nell’istante in cui l’indice sta premendo su di un grilletto – che senza il corpo viene a mancare una parte insostituibile del suo essere, e che la forma di vita incorporea, o vegetativa, che sta cercando è una prigione da cui non potrà più uscire, per l’eternità. Ancora una volta la Giustizia Divina, come la intende Dante, può coincidere con quella che, in termini laici, chiamiamo realtà: questa non fa “sconti” e prima o poi ognuno dovrà subire le inevitabili conseguenze delle sue scelte sbagliate.
        Da un punto di vista clinico, è molto importante che gli aspiranti suicidi siano lasciati liberi di parlare, di descrivere a parole come immaginano di attuare il loro gesto auto-soppressivo. È probabile che la scena immaginata susciti in loro la sensazione di una scelta terribile da cui non si torna indietro, e che questa, anziché tradursi in una “dannazione eterna”, abbia ora l’effetto benefico di correggere le loro intenzioni.
 
I Poeti non hanno ancora distolto la loro attenzione da Pier delle Vigne, quando sulla desolata immobilità della foresta irrompe una caccia infernale, turbinosa e concitata:

 
pag. 190, vv 109 – 114
Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
quando noi fummo d’un romor sorpresi,
 
similemente a colui che venire
sente il porco e la caccia alla sua posta,
ch’ode le bestie e le frasche stormire.
 

La scena, paragonata all’avvicinarsi minaccioso di un cinghiale (il “porco” selvatico) inseguito da cani e cacciatori, comunica, con vivo realismo, qualcosa di pericoloso, incontrollabile, feroce. Come si vedrà, è quel che caratterizza l’indole degli scialacquatori.

 
Ed ecco che ora compaiono le “prede” della caccia:
 
pag. 190 – 192, vv 115 – 129
Ed ecco due dalla sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che della selva rompìeno ogni rosta.
 
Quel dinanzi: “Or accorri, accorri morte!”
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: “Lano, sì non furo accorte
 
le gambe tue alle giostre del Toppo!”
E poi che forse li fallìa la lena,
di sé e d’un cespuglio fece un groppo.
 
Di retro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch’uscisser di catena.
 
In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.
 

        Custodi degli scialacquatori sono le “nere cagne” feroci e fameliche. Il contrappasso di questi dannati, che dilapidarono le loro sostanze, è l’essere “gettati in pasto ai cani”: così come in vita sperperarono le loro ricchezze, finendo per coinvolgere nello spreco le loro stesse persone (la loro dignità, i loro mezzi di sussistenza), ora sono ridotti a cibo di belve.  
        C’è una fondamentale differenza fra gli scialacquatori e i prodighi, puniti fra gli incontinenti. A questi ultimi mancò il senso della misura nello spendere, ma il loro intento fu acquistare molte, troppe cose. Gli scialacquatori, al contrario, vollero solo sprecare, annientare quel che possedevano; il loro intento fu molto più accentuatamente distruttivo. Ecco perché ora, per contrappasso, sono vittime di una voracità bestiale il cui scopo non è nutrirsi, ma solo sbranare e annientare. Dante, qui, in una forma poetica (e quindi più facilmente comprensibile e accettabile) adombra una realtà sinistra che risale ad un’epoca remota della vita: quella del “sadismo orale”, frutto di un’avidità insaziabile su base costituzionale e/o di brutali frustrazioni delle pulsioni orali. In questi casi, la voracità si pone non più al servizio della nutrizione, ma di scopi distruttivi.  
        Lano da Siena, uno dei due fuggitivi, invoca la morte, per sfuggire allo strazio che stanno per fare di lui le cagne. Forse Dante ha anche presente quel che verrà riferito da Boccaccio: non potendo sopportare la povertà in cui si era ridotto per il troppo spendere, Lano cercò la morte nella battaglia di Pieve del Toppo; ed ora, come allora, invocherebbe la morte liberatrice, ma invano: la morte, che è già avvenuta, non gli ha portato alcun sollievo, ma solo dannazione eterna; la Giustizia Divina (la realtà) è inesorabile.
        Tuttavia l’altro fuggitivo, Giacomo da S. Andrea, anziché ad una morte volontaria, allude ad una fuga disperata nella quale le gambe di Lano non furono sufficientemente “accorte”, ossia abbastanza agili e svelte per poterlo salvare. Oggettivamente, le due versioni dei fatti sono in contrasto l’una con l’altra. Tuttavia, su di un piano emotivo e simbolico, c’è coerenza: le risorse sane residue di Lano (le sue “gambe”) non ebbero abbastanza forza e prontezza per consentirgli di sfuggire alla sua stessa voracità distruttiva, neppure cercando di porvi fine con la morte.

 

Come s’è visto, Giacomo da S. Andrea, mancandogli il fiato (la “lena”), cerca di sfuggire alle cagne acquattandosi dietro a un cespuglio, e divenendo con questo come un solo viluppo (un “groppo”). Tuttavia le cagne lo raggiungono e lo sbranano. L’urto delle belve produce rotture nel cespuglio, in cui è racchiusa l’anima di un suicida:

 
pag. 192, vv 130 – 135
Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea,
per le rotture sanguinanti, in vano.
 
“O Giacomo” dicea “da Santo Andrea,
che t’è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io della tua vita rea?”
 

L’anima-cespuglio rimprovera a Giacomo da S. Andrea d’avergli provocato “rotture sanguinanti” cercando, inutilmente, di sfuggire alle cagne. C’è qui, probabilmente, un significato simbolico profondo: lo scialacquatore deve aver coinvolto nella sua distruttività, o cercando di difendersene, un essere fragile (ma, per Dante, non meno colpevole), portandolo al suicidio.

 

Invitato da Virgilio a palesarsi, il dannato afferma d’essere stato un cittadino di Firenze, la città che sostituì Marte, suo primo patrono, con S. Giovanni Battista. Il Dio della guerra, per tale motivo, la perseguiterà per sempre. Se sul ponte dell’Arno non rimanesse la sua effigie (la sua “vista”), i Fiorentini che ricostruirono la città dopo la distruzione di Attila (in realtà Totila) avrebbero compiuto invano il loro lavoro:

 
pag. 193, vv 143 – 150
“I’ fui della città che nel Battista
mutò il primo padrone; ond’è per questo
 
sempre con l’arte sua la farà trista;
e se non fosse che ‘n sul passo d’Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,
 
que’ cittadin che poi la rifondarno
sovra ‘l cener che d’Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
 

Firenze sostituì, come suo patrono, il Dio pagano della violenza e della guerra con S. Giovanni, che battezzò Colui che portò fra gli uomini un messaggio d’amore. Sorprende che Dante continui ad attribuire ad uno degli Dei “falsi e bugiardi” (definizione di S. Agostino) poteri divini, seppure malefici. La leggenda, tuttavia, ha un significato emotivo importante: il “demone” della violenza (l’aspetto distruttivo dell’animo umano) non cessa d’operare se solo si cerca di rimuoverne la rappresentazione. Se, viceversa, continuerà ad essere percepibile alla coscienza la sua immagine (la sua “vista”), senza censure, gli esseri umani potranno fare i conti con la sua esistenza e porlo sotto il loro controllo.

 

Il canto XIII si conclude con la confessione dell’anonimo suicida fiorentino: s’impiccò (fece della propria casa un “giubbetto”, dal francese gibet, che significa forca); a questa affermazione non segue alcun commento:

 
pag. 193, v 151
Io fei giubbetto a me delle mie case.”
 
…………………………………………………………………………………………
 
Canto XIV

Dante, mosso da compassione verso il dannato divenuto cespuglio (si veda la fine del Canto precedente), si china a raccogliere le “fronde sparte”, per restituirle a costui, che si era ormai chiuso nel silenzio:

 
pag. 195, vv 1 – 3
Poi che la carità del natìo loco
mi strinse, raunai le fronde sparte,
e rende’le a colui ch’era già fioco.
 

Il Canto XIV si apre con un gesto di sollecitudine dell’esule Dante verso un concittadino; gesto in cui s’esprime tutta la sua nostalgia del “loco natìo”. Sembra che il Poeta, con quest’espressione di tenero rimpianto, ci offra una sua risposta all’esperienza di separazione e perdita (nel suo caso, della terra madre), in vivo contrasto con la rabbia impotente ed il pianto inconsolabile che incontreremo nei versi successivi.

 

I Poeti sono arrivati al confine fra il secondo ed il terzo girone del settimo cerchio. Compare loro una vasta pianura, una “landa” arida e sabbiosa dove non c’è traccia di vegetale:

 
pag. 195 – 200, vv 7 – 15
A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogni pianta rimove.
 
La dolorosa selva l’è ghirlanda
intorno, come ‘l fosso tristo ad essa:
quivi fermammo i passi a randa a randa.
 
Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d’altra foggia fatta che colei
che fu da’ piè di Caton già soppressa.
 

Il suolo, nel terzo girone, è ardente, ed i Poeti sono costretti a procedere rasente (“randa a randa”) alla selva, ossia al secondo girone che circonda (fa da “ghirlanda” a) questo luogo.

 

        Come altrove, le caratteristiche dell’ambiente anticipano quelle dei dannati che stiamo per incontrare, la natura delle loro colpe, e la pena che stanno scontando. Qui dominano l’aridità e la sterilità: il “letto della landa” esclude (“rimove”) ogni forma di vita vegetale. Aridi e sterili furono i comportamenti di coloro che, violenti contro Dio e allontanatisi dalla Natura, Sua creazione, diedero prova di cieco furore, o si resero colpevoli di sodomia o di usura. In termini laici: coloro che ruppero violentemente i rapporti con l’Oggetto arcaico ideale, devono subire le inevitabili conseguenze delle loro scelte: non seppero produrre, nella loro vita, alcunché di fecondo, quale riflesso o risultato dell’emulazione della Sua creatività. Indipendentemente dal giudizio morale, o moralistico, che vogliamo attribuire a questo fatto, dobbiamo ammettere che la realtà (la “Giustizia Divina” per Dante) è inesorabile nei confronti delle scelte sbagliate, senza alcun riguardo per i motivi che hanno portato a compierle.
        Dante paragona la “rena arida e spessa” del terzo girone al deserto calpestato dai piedi di Catone; egli guidò attraverso ad esso quel che rimaneva dell’esercito pompeiano dopo la battaglia di Farsalo, nel tentativo disperato di ricongiungersi agli alleati superstiti. Questi dannati finirono fatalmente per essere sconfitti, avendo voluto affrontare una lotta impossibile.

 

Dopo aver riaffermato l’inesorabilità temibile della divina giustizia (la “vendetta”), compaiono ai Poeti i dannati, che ne sono l’oggetto. Essi sono diversamente puniti (“diversa legge”) a seconda del loro peccato:

 
pag. 200, vv 16 – 21
O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto agli occhi miei!
 
D’anime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.
 

È stato notato che Dante menziona la nudità delle anime, oltre che qui, anche riguardo agli ignavi, alle anime che passano l’Acheronte, agli iracondi nello Stige e agli scialacquatori. La cosa non è casuale: al momento del “redde rationem” del termine della vita, il nucleo più autentico dell’esistenza interiore (l’“anima”) non può più indossare tutti quei travestimenti con cui ogni individuo nasconde ipocritamente agli altri ed a sé stesso quanto d’inconfessabile esiste in lui: l’ignavia travestita da prudenza, l’irascibilità fatta passare per giusto furore, la tendenza a sprecare il denaro camuffata da generosità. L’anima, al momento di “passare l’Acheronte” rimane “nuda”: ci si è congedati dai viventi, e nulla possono più contare la posizione sociale, i titoli di “merito”, le menzogne su di sé fatte credere agli altri, e che rafforzano nel soggetto la falsa convinzione d’essere realmente così come appare.

 

I bestemmiatori giacciono supini, gli usurai stanno seduti e raccolti in sé stessi, i sodomiti – i più numerosi – corrono continuamente. Su tutti cade una pioggia di fuoco, a larghe falde:

 
pag. 200, vv 22 – 30
Supin giacea in terra alcuna gente;
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continuamente.
 
Quella che giva intorno era più molta,
e quella men che giacea al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta.
 
Sovra tutto ‘l sabbion, d’un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.
 

        È stato fatto presente che, sulla landa, “scende dall’alto non l’acqua, principio di vita, ma il fuoco, principio della consunzione violenta”. I “violenti contro Dio”, rompendo brutalmente il loro rapporto con l’Oggetto arcaico ideale, non poterono trarne i benefici di un potere vivificante, ma solo l’influsso distruttivo che avevano preteso d’esercitare su di Lui, e che ritorna di rimbalzo su loro stessi.
        Alcuni teorici della rivoluzione, come Proudhon e Blanqui, affermarono che “Dio è il male”; ma se il male è Dio, quale bene può rimanere all’essere umano, che di Dio è una creatura fatta a Sua immagine e somiglianza? Costoro, nello sforzo di attaccare la cultura delle classi dominanti (di cui la Religione fa parte), confusero Dio con i Suoi indegni rappresentanti sulla terra, ossia con coloro che strumentalizzarono la fede per i loro scopi di potere. Ben diversa è la posizione di Dostoevskij, che, nel capitolo del Grande Inquisitore dei Karamazov, ci presenta Cristo (Dio fattosi uomo) come portavoce dell’anelito umano alla libertà, in netta contrapposizione con l’alto prelato, rappresentante di un’istituzione posta al servizio della tirannide e della repressione; in ultima analisi, al servizio della paura della libertà che affligge l’essere umano.
        L’Oggetto arcaico ideale interiorizzato (che per i credenti è Dio, condividendone tutte le caratteristiche nella vita interiore di ciascuno) è il potente sostegno alla libertà e alla vitalità interiori, conferendo all’essere umano la forza di resistere e lottare contro tutte le avversità, e in particolare contro chi la libertà vorrebbe limitarla o sopprimerla. È il genitore ideale interiorizzato che conforta in caso di sconfitta, che incoraggia a proseguire la lotta per l’autonomia, che dissolve la paura della solitudine, della libertà e della responsabilità delle proprie scelte. Da parte di noi che non riusciamo più ad aver fede è stato un grave errore dare un colpo di spugna a tutte le dottrine religiose, cadendo nell’ateismo materialista. I “rivoluzionari” nemici di Dio sopra menzionati finirono per non produrre alcunché di costruttivo; il loro atteggiamento emotivo, in ultima analisi, fu indistinguibile dalla rabbia impotente e sterile che fra poco vedremo nel bestemmiatore Capaneo.
        Accostando il viaggio dantesco nell’oltretomba con un percorso terapeutico, affermo che la meta finale di ogni cura è riprendere i contatti con quell’istanza interiore che è alla base della piena salute: della vitalità, dell’amore per sé, per i propri cari, per la libertà e per la vita. A noi terapeuti poco importa che la si chiami Oggetto arcaico ideale, oppure Dio, oppure in altro modo.

 

I violenti contro Dio agitano disperatamente le mani, illudendosi, in questo modo, di poter allontanare le fiamme recenti (“fresche”). Il loro movimento sembra una danza (“tresca”) senza riposo:

 
pag. 201, vv 40 – 42
Sanza riposo mai era la tresca
delle misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé l’arsura fresca.
 

Questi dannati s’illudono di poter allontanare con le loro misere risorse il tormento che loro stessi si sono procurati: si sono privati, in ultima analisi, del contatto con l’unica, efficace fonte di conforto.

 

Tra i dannati che stanno supini, uno attira l’attenzione di Dante. Il Poeta, perciò, chiede a Virgilio chi sia costui:

 
pag. 201, vv 46 – 51
“… Chi è quel grande che non par che curi
lo ‘ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che ‘l maturi?
 
E quel medesmo che si fu accorto
ch’io domandava il mio duca di lui,
gridò: “Qual io fui vivo, tal son morto…”
 

Si tratta del bestemmiatore Capaneo, uno dei sette re che assediarono Tebe. Salito sulle mura della città, ne sfidò gli Dei protettori, e lo stesso Zeus, affermando che persino loro nulla avrebbero potuto fare per contrastare la sua forza. A quel punto, Zeus lo colpì con un fulmine e lo uccise. A Capaneo non sfugge la domanda posta da Dante a Virgilio, e s’affretta a rispondere lui stesso, affermando di non essere toccato dalla morte, e che, se anche Zeus scagliasse contro di lui tutte le saette di cui può disporre, non avrebbe la soddisfazione d’umiliarlo.

 

        La prontezza con cui Capaneo entra nella scena, anche se non direttamente interpellato, dimostra quanto sia importante, per lui, trovare qualcuno cui mostrarsi. È, di per sé vistoso, date le dimensioni colossali, il viso sprezzante e torvo (“dispettoso e torto”) e l’atteggiamento fiero, di chi non si sente neppure sfiorato dal tormento della pioggia infuocata. A questo aggiunge, in quel che subito dichiara, un’ostentazione di forza e persino d’invulnerabilità.
        Come osservò il De Sanctis “la figura di Capaneo si basa tutta su di un profondo contrasto tra l’apparenza e la sostanza (…) la sua apparenza è colossale al di fuori, ma vuota e fiacca dentro” –. La simulazione di una forza invincibile e la negazione dei suoi limiti umani sono le caratteristiche evidenti di questo personaggio; ma non sono altro che maschere che nascondono, agli altri ed a lui stesso, il suo “nulla” interiore. Di fronte al fatto palese che è stato ucciso dal fulmine di Zeus, nega l’evidenza ed afferma, con ostentata sicurezza di sé: “Qual io fui vivo, tal son morto”. Neppure la morte, per lui, rappresenta il limite estremo del suo vigore. “Tuttavia – aggiunge il De Sanctis – più [Capaneo] si sforza di dimostrare la sua forza, e meno ci riesce: perché la vera forza si vede, non si dimostra”

 
Alle bestemmie di Capaneo, Virgilio risponde con durezza:
 
pag. 203, vv 61 – 66
Allora il duca mio parlò di forza
tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito:
“O Capaneo, in ciò che non s’ammorza
 
la tua superbia, se’ tu più punito:
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito.”
 

        Un terapeuta di oggi non saprebbe descrivere, con maggior chiarezza di quanto fa Virgilio, le dinamiche interiori di persone come Capaneo. La maggiore fonte di dolore, per costoro, è rappresentata dalla loro stessa rabbia: le bestemmie sono attacchi all’Oggetto ideale interiorizzato; tuttavia tali manifestazioni d’aggressività si rivolgono contro sé stessi, perché tale Oggetto è parte del loro mondo interno. Più reagiscono con violenza alle presunte ingiustizie da parte di Dio, più tali attacchi si rivolgono all’Oggetto interno da cui non possono più trarre alcun sostegno o conforto; più violentemente si ribellano, più aumentano le loro sofferenze.
        Capaneo è il prototipo di un certo tipo di paziente in cui la fragilità interiore è mascherata da arroganza e da ostentazione di una presunta “superiorità”. In loro le tendenze narcisistico-esibizionistiche sono ipertrofiche e non possono mai trovare, nell’approvazione altrui, una qualche forma d’appagamento. Questo in parte perché, avendo una funzione puramente difensiva, non costituiscono autentici e sani bisogni narcisistici capaci, se soddisfatti, di favorire la crescita: l’ostentazione deve essere continuamente riproposta perché non cessa mai d’esistere la fragilità interiore che essa serve a mascherare. In secondo luogo, coi loro atteggiamenti aggressivi e arroganti, questi individui si rendono sgradevoli ai più, anche a coloro che, soddisfacendo i bisogni narcisistici profondi a suo tempo frustrati, potrebbero salvarli. Se non entrano in crisi e non chiedono aiuto, nessuna esperienza affettiva correttiva potrebbe aiutarli a ricostituire quell’Oggetto interno ideale protettivo, nei cui confronti “bestemmiano”. Tuttavia, per raggiungere la loro parte fragile, bisognosa d’aiuto e capace di riceverlo, è necessario, prima, “smantellare” le difese che la rendono inaccessibile.

 

Dopo questo episodio, Dante e Virgilio giungono in vista di un ruscello rosso di sangue, che sgorga dalla selva soprastante. Esso è simile alla sorgente d’acqua termale del Brulicame, presso Viterbo. I bandi di quel comune, ai tempi di Dante, avevano assegnato e ripartito fra loro alle meretrici del luogo quelle acque. Questo perché i bagni, nell’antichità e nel medioevo, erano luoghi di ritrovo e di trattenimento. Il letto ed i ripiani delle sponde di quel fiumicello sono di pietra. I Poeti, quindi, camminando su quei margini esenti dall’infocatura, possono attraversare il girone. Virgilio, anche perché sollecitato da Dante, coglie l’occasione di tale spettacolo per spiegare al Poeta l’origine dei fiumi infernali:

 
pag. 204 – 208, vv 85 – 120
“Tra tutto l’altro ch’i’ t’ho dimostrato,
poscia che noi entrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno è negato,
 
cosa non fu dalli tuoi occhi scorta
notabile come ‘l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta.”
 
Queste parole fuor del duca mio;
per ch’io ‘l pregai che mi largisse il pasto
di cui largito m’avea il disio.
 
“In mezzo mar siede un paese guasto”
diss’elli allora “che s’appella Creta,
sotto ‘l cui rege fu già il mondo casto.
 
Una montagna v’è che già fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida:
or è diserta come cosa vieta.
 
Rea la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida.
 
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver Damiata
e Roma guarda come suo speglio.
 
La sua testa è di fino oro formata,
e puro argento son le braccia e il petto,
poi è di rame infino alla forcata;
 
da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che ‘l destro piede è terra cotta;
e sta ‘n su quel più che ‘n su l’altro eretto.
 
Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta
d’una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, foran quella grotta.
 
Lor corso in questa valle si diroccia:
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia
 
infin là ove più non si dismonta:
fanno Cocito; e qual sia quello stagno,
tu lo vedrai; però qui non si conta.”
 

 Virgilio fa presente a Dante che, da quando sono entrati nell’Inferno, attraverso la porta la cui soglia non ha divieto d’ingresso (“lo cui sogliare a nessuno è negato”) non hanno visto cosa più notevole di questo ruscello di sangue. Dato che Dante gliene chiede il motivo, Virgilio chiarisce la sua affermazione. Inizia partendo da lontano nello spazio e nel tempo: parla di Creta, isola al centro del Mediterraneo, nell’epoca in cui regnava Crono (Saturno) e il mondo viveva nell’innocenza (il mondo “casto”: la “età dell’oro” per gli antichi). In quest’isola c’è una montagna chiamata dagli antichi Ida. Qui Rea, moglie di Crono e madre di Zeus, nascose il figlio per sottrarlo a Crono (che lo voleva divorare), ordinando ai Coribanti, suoi sacerdoti, di coprire coi loro canti e le loro grida il pianto del neonato. Subito Virgilio passa a parlare di una statua gigantesca che si trova in seno alla montagna: è il “gran veglio” che volge le spalle a Damiata, in Egitto, e guarda Roma come fosse il suo specchio (“speglio”). Esso ha la testa d’oro, le braccia e il petto d’argento, il ventre di rame, e le gambe di ferro puro (“eletto”), tranne il piede destro, di terracotta, su cui la statua si regge più che col sinistro. Con l’eccezione del capo d’oro, ogni parte della statua è attraversata da una fessura da cui sgorgano lacrime. Esse, raccolte, forano il suolo e, attraversando le rocce, scendono nell’Inferno, formando il fiume Acheronte, la palude Stige, il Flegetonte, e lo stagno Cocito al fondo dell’abisso.

 

        I commentatori sono tra loro divisi nell’interpretazione di questa complessa figurazione simbolica: alcuni la interpretano in chiave storica, o politica, altri in termini religiosi. Questi ultimi, come sempre, rispecchiano eventi della vita interiore umana, individuale e collettiva. Non mi risulta che sia stata tentata una sintesi che tenga conto che l’evoluzione individuale riepiloga e rispecchia la storia dei popoli e della specie.
        Virgilio parte da Creta, nell’età dell’oro, in cui gli uomini erano ancora innocenti, e il “Dio padre” Crono dominava incontrastato. Ciascuno di noi, all’inizio della sua esistenza individuale, ha vissuto una “età dell’oro”, in cui la “illusione primaria” (Winnicott) di un appagamento immediato di bisogni e desideri (sostenuto dalle cure di una madre che stava nell’ombra) ci rendeva sconosciuta la frustrazione ed era alla base di un sogno di “onnipotenza”. Parallelamente, o in successione con quello stato, si era creato un rapporto di simbiosi con l’Oggetto arcaico, in un’epoca “innocente” in cui non esisteva alcun desiderio frustrato che creasse un’opposizione fra soggetto e oggetto. Quest’epoca corrisponde a quella del Paradiso terrestre.
        Tuttavia, a Creta c’era un neonato che portava in sé il germe di una nuova epoca: Zeus, sottratto dalla madre Rea alla persecuzione paterna e che, cresciuto e alleatosi coi fratelli, prese il posto del padre. Anche per tutti noi l’età dell’oro finisce: succede quando si creano nuove pulsioni che non possono essere soddisfatte dall’oggetto arcaico. Presto si fa sentire, in particolare, una “pulsione all’emancipazione” (Loewald) che ci porta ad assumere un atteggiamento ribelle nei confronti di chi, finora, ci aveva dominato e verso cui eravamo del tutto dipendenti. L’emancipazione, tuttavia, non è mai del tutto indolore: contiene in sé, almeno in tracce, elementi di violenza che causano sensi di colpa ed amari rimpianti. Si deve, inoltre, constatare che l’originaria illusione d’onnipotenza è sempre più perduta. È ciò che corrisponde al concetto religioso di peccato originale. Questo può spiegare la posizione del gran veglio, statua che simbolizza la natura umana e il suo destino: volge le spalle al Medio Oriente, in cui lo splendore delle antiche civiltà del passato può richiamare quello della perduta età dell’oro, o del paradiso perduto. Guarda, però, Roma, sede del Vicario di Cristo, ossia di Colui che portò agli uomini la Redenzione.
        Il gran veglio conserva l’oro dell’epoca originaria solo nel capo, sede delle facoltà superiori umane: delle sue capacità intellettive, della sensibilità e dell’immaginazione creativa che, utilizzate a scopo riparativo, possono ripristinare, nella mente, il valore e la grazia originarie. Il resto del corpo, man mano che si scende, è fatto di metalli sempre più vili: qui diviene tangibile la perdita soggettiva di valore di chi si è allontanato dall’infanzia. È, inoltre, solcato da una crepa, simbolo della separazione lacerante dall’antico oggetto d’amore. Da essa sgorgano le lacrime che, confluite nelle profondità della terra, costituiranno i fiumi infernali. Fuor di metafora, è dalla separazione straziante non superata che si possono originare tutte le colpe e le sofferenze (le malattie) che affliggono gli esseri umani.
        Nel Canto XIV sono espresse due modalità con cui si manifesta il tormento della perdita dell’illusorio potere dell’infanzia e della separazione dall’Oggetto arcaico: la rabbiosa ribellione, impotente e sterile, di Capaneo, e le lacrime inconsolabili del veglio. Dante, qui, ci illustra in termini poetici, più facilmente pensabili e comunicabili, quella che è l’origine prima della maggior parte delle forme di sofferenza mentale.

 

Dante ha ancora due domande da porre al suo maestro: gli chiede come mai se il presente fiumicello deriva dal mondo, appaia solo qui, e non nei cerchi superiori. Gli chiede, inoltre, dove si trovi il Lete. Alla prima domanda, Virgilio risponde con facilità: essendo l’Inferno circolare, i Poeti non ne hanno ancora percorso l’intera circonferenza, per cui solo ora vedono quel che era loro sfuggito nei cerchi precedenti. La seconda domanda potrà trovare una piena risposta solo molto più avanti, nel loro viaggio nell’oltretomba:

 
pag. 209, vv 133 – 135
“… Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
là dove vanno l’anime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa.”
 

Virgilio allude al luogo dove i Poeti incontreranno il Lete: è nella cima del Purgatorio, dove le anime pentite, espiata la loro colpa, vanno a purificarsi.

 

Il Lete, fiume dell’oblio che estingue il rimorso delle anime che hanno espiato le loro colpe, non può che trovarsi nel Purgatorio. Anche qui c’è un perfetto parallelo fra il viaggio dantesco nell’oltretomba ed un percorso terapeutico: dopo aver incontrato in profondità i conflitti e le carenze che sono causa delle “pene dell’inferno”, dopo aver messo in atto i processi riparativi e vissuto le esperienze affettive correttive che colmano le lacune; dopo tutto questo, non è più necessario che il paziente abbia sempre presente quel che l’ha fatto soffrire: la sua mente, resa più libera e capace di procurargli piacere e, quando possibile, momenti di felicità, può ora rivolgersi altrove. Qualcuno parla persino di “rimozione secondaria”: in questo caso, il parallelo col fiume dell’oblio sarebbe perfetto.

 
Il canto si chiude con un invito di Virgilio a proseguire il viaggio:
 
pag. 209, vv 139 – 142
Poi disse; “Omai è tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,
 
e sopra loro ogni vapor si spegne:”
 
…………………………………………………………………………………………
 
Canto XV

Dante e Virgilio, ancora nel terzo girone del settimo cerchio, procedono lungo un argine del Flegetonte. In questa seconda parte del girone, scontano la loro pena i “violenti contro natura, o sodomiti”. Essi, divisi in gruppi a seconda della loro posizione nel mondo, corrono sulla sabbia rovente, sotto la pioggia di fuoco. Qui i due Poeti incontrano una schiera (“famiglia”) di anime che li osservano attentamente. Una di esse riconosce Dante e si fa riconoscere:

 
pag. 212, vv 22 – 33
Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: “Qual maraviglia!”
 
E io, quando ‘l suo braccio a me distese,
ficca’ li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ‘l viso abbruciato non difese
 
la conoscenza sua al mio intelletto;
e chinando la mano alla sua faccia,
rispuosi: “Siete voi qui, ser Brunetto?”
 
E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna in dietro e lascia andar la traccia.”
 

Si tratta dell’anima di Brunetto Latini, un illustre Fiorentino (uomo di governo e letterato) che fu maestro di Dante.

 

Brunetto dimostra subito un grande piacere d’incontrare il suo antico allievo, e il desiderio d’intrattenersi con lui: lo ferma, prendendolo per il “lembo” della veste ed esprime la sua gioia (“qual maraviglia!”) in un modo che dobbiamo supporre spontaneo ed autentico: non dimentichiamo che qui le anime sono “nude”, ossia spogliate di tutte le formalità e le falsità della vita terrena; le loro espressioni d’affetto, perciò, non possono che essere veritiere. Pur di stare un poco col suo “figliuolo”, Brunetto non esita, discostandosi dalle regole del girone, a distaccarsi dalla schiera (la “traccia”) cui è stato assegnato.

 

Dante accetta volentieri l’invito dell’antico maestro; vorrebbe sedersi un poco accanto a lui, però c’è una difficoltà. Brunetto propone una soluzione per superarla:

 
pag. 212 – 214, vv 34 – 45
I’ dissi lui: “Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco:”
 
“O figliuol,” disse “qual di questa greggia
s’arresta punto, giace poi cent’anni
sanz’arrostarsi quando ‘l foco il feggia.
 
Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
e poi rigiungerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni.”
 
I’ non osava scender della strada
per andar par di lui; ma ‘l capo chino
tenea com’uom che reverente vada.
 

Brunetto fa presente a Dante la legge del girone: chi si ferma, anche un solo istante, dovrebbe poi stare cent’anni senza potersi schermire (“arrostarsi”) quando il fuoco lo ferisce (“il feggia”). Propone, quindi, di procedere di fianco a lui (“a’ panni”); poi raggiungerà la sua schiera. Dante accetta; però, non osando scendere dall’argine per paura delle sabbie infuocate, procederà a capo chino in segno di reverenza.

 

        Sodomia significa pratica del coito anale, spesso ma non necessariamente legata all’omosessualità. Tuttavia, supponendo che questo sia l’orientamento sessuale di Brunetto Latini, dobbiamo pensare che qui Dante esprima, in termini metaforici, una straordinaria intuizione riguardo agli aspetti profondi tormentosi della vita interiore di queste persone.    
        Tali aspetti furono illustrati da Proust, secoli dopo, in quell’opera semi-autobiografica che è “Sodoma e Gomorra”. Un certo tipo di omosessuale rincorre senza tregua un obiettivo irraggiungibile. Il suo è un supplizio di Tantalo: tenta di raggiungere un vero uomo (e questa, per lui, è una necessità vitale), però quando crede d’averlo conquistato, inevitabilmente s’accorge che costui non è quello che cercava: l’uomo pienamente virile desidera le donne, e non lui.
        Kohut, sulla base della sua esperienza clinica, descrisse in termini psicodinamici l’instancabile e vana ricerca di queste persone: in loro c’è una carenza narcisistica, frutto di un cattivo rapporto con colui che avrebbe dovuto costituire il loro modello identificativo maschile. Cercano di sopperire a tale mancanza illudendosi di potersi fondere, nell’amplesso, con un essere dotato delle qualità virili mai acquisite. Tuttavia, anche in quest’ultimo la virilità non è stabilmente conseguita: ha bisogno della conferma di un essere che ha una vera e propria “fame” delle sue qualità maschili, cosa che non può trovare in una donna eterosessuale, che di solito ama anche sé stessa, e non meno del suo partner.
        È doverosa una precisazione: che ci sia una patologia sottostante il loro modo di essere e di amare non significa che queste persone debbano essere convinte, e tantomeno costrette, a curarsi: spesso trovano un modo di convivere abbastanza pacificamente con sé stesse e con gli altri attraverso compensi costituiti da rapporti affettuosi che sanno instaurare col partner e con altri. Nell’opinione di chi scrive, se una persona è abbastanza in pace con sé stessa e coi propri simili, qualunque sia il suo modo di essere, lo psichiatra non è autorizzato ad intervenire. Del resto, una patologia in stato di compenso è alla base del maggior numero di casi di “normalità”, anche in quelli che nulla hanno a che vedere con l’omosessualità – la “perfezione non è di questo mondo” e neppure la salute mentale può essere “perfetta” –. Se, però, queste persone entrano in crisi e chiedono una cura (se si scompensano), è bene conoscere già in partenza il tipo di problemi che presumibilmente occorrerà aiutarle a risolvere.
        Se, come si è detto, consideriamo la “Giustizia Divina” come l’insieme delle inevitabili conseguenze che una scelta, giusta o sbagliata, comporta, comprendiamo qui la natura della “punizione” inflitta ai sodomiti: la loro pratica sessuale è sterile, e di conseguenza non potranno procreare – se si considera che, ai tempi di Dante, la gente viveva sotto la minaccia di un’epidemia, o di una carestia, che avrebbe potuto decimare la popolazione, possiamo meglio capire come qualsiasi “spreco” del seme fecondo, per sodomia o onanismo, fosse considerato “peccaminoso” – Tale pena è particolarmente dolorosa per persone come Brunetto Latini che, come si vedrà, è dotato dell’affetto e della sensibilità di un padre. Delle sue qualità non potranno mai giovarsi i veri e propri figli.

 

Brunetto chiede a Dante per qual motivo, ancora prima della sua morte (“anzi l’ultimo dì”) sia presente nell’oltretomba:

 
pag. 214, vv 46 – 48
El cominciò: “Qual fortuna o destino
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra ‘l cammino?
 

È stato fatto notare che la domanda di Brunetto non è un’espressione vaga e convenzionale, ma racchiude un senso preciso: chiede a Dante se il suo viaggio sia dovuto al caso, oppure al “destino”, ossia al frutto di una volontà superiore, quella di Dio.

 

Dante spiega l’origine del suo viaggio, chiarendone le circostanze, in ultima analisi, divine. Brunetto, convinto che Dante goda del favore del Cielo, gli fa una duplice predizione; la prima di queste è confortante e incoraggiante:

 
pag. 214 – 215, vv 55 – 60
Ed elli a me: “Se tu segui la tua stella,
non puoi fallire a glorioso porto,
se ben m’accorsi nella vita bella;
 
e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei all’opera conforto.
 

        Tenendo presente il titolo di questo lavoro: “Viaggio nell’oltretomba come modello di un percorso terapeutico”, anche qui possiamo cogliere, espresso in termini poetici, un suggerimento di Dante al clinico. È, fin dall’inizio della cura, un segno prognostico favorevole che il paziente sia nato sotto una “costellazione propizia”; fuor di metafora: che sia stato messo al mondo desiderato e amato dai genitori. Ciò è la base della formazione di un Oggetto arcaico ideale, a carattere ausiliario e protettivo, saldamente insediato nel mondo interno. La sua prima, evidente manifestazione è che il paziente abbia chiesto aiuto spontaneamente, accettando di mettersi in discussione: dimostra, in questo modo, un riguardo per sé stesso – riflesso dell’influenza benefica dell’oggetto interno – che gli permette di non chiudersi in una forma primitiva e malata di narcisismo, che lo renderebbe refrattario ad ogni intervento che evidenzi le sue carenze e i suoi difetti.
        La generosità squisitamente paterna di Brunetto va al di là dei suoi limiti di essere mortale: se fosse ancora vivo, l’antico maestro continuerebbe ad incoraggiare e favorire la crescita dell’allievo. La certezza d’essere oggetto di questo sentimento accompagnerà Dante per il resto della sua vita, rafforzando la sicurezza di sé.

 
Segue, da parte di Brunetto Latini, una predizione di persecuzione:
 
pag. 215, vv 61 – 72
Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,
 
ti si farà, per tuo ben far, nemico:
ed è ragion che tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttar il dolce fico.
 
Vecchia fama del mondo li chiama orbi;
gent’è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.
 
La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.
 

Brunetto identifica i peggiori Fiorentini con i discendenti dei Fiesolani, che popolarono la città aggiungendosi ai coloni romani. Prevede che costoro diventeranno nemici di Dante per i suoi meriti (“il tuo ben far”), perché ottusi (“orbi”), avari, invidiosi e superbi. Consiglia, perciò, il suo antico allievo d’allontanarsi da questi individui, per non essere contaminato (“si forbi”) dai loro costumi: il “dolce fico” non deve confondersi con gli aspri (“lazzi”) sorbi. Attaccato da entrambe le parti politiche in lotta tra loro, è bene che Dante si tenga al di fuori della portata della loro voracità distruttiva.

 

        Brunetto Latini, da buon maestro di vita, mette in guardia il suo allievo: quanto maggiore sarà l’onore frutto dei suoi meriti, tanto maggiore sarà l’ostilità di gente ottusa, animata dalle passioni peggiori: la considerazione esclusiva delle qualità che si convincono di possedere, unita al disprezzo per quelle altrui (la superbia), la totale assenza di generosità (l’avarizia), e soprattutto l’invidia.
        Al di là del caso particolare dei Fiesolani, le affermazioni di Brunetto hanno un valore universale: il merito delle persone è inscindibilmente legato agli attacchi invidiosi degli immeritevoli, ossia di coloro la cui acredine ha una duplice fonte, cioè la sofferenza per le proprie miserie e quella per le fortune altrui (come affermò Eschilo).
        Come Brunetto con Dante, è bene che il clinico aiuti allo stesso modo il paziente che, in fase di miglioramento, ha ritrovato il suo progetto di vita e sta conquistando nuovi successi. È opportuno che costui superi un’ingenuità infantile che lo porti a credere che coloro che lo circondano siano sempre lieti e incoraggianti per i suoi progressi. È inevitabile che incontri, sul suo cammino, chi cercherà di distruggerli, ed è parte integrante del suo miglioramento che preveda ed impari a fronteggiare tali avversità. Occorre che non si lasci contaminare (“si forbi”) dai costumi di individui astiosi che, coinvolgendolo nelle loro polemiche, cercherebbero di farlo diventare come loro, oppure di farlo ricadere nello sconforto e nella malattia: si tenga interiormente lontano dall’atteggiamento di costoro e si preoccupi, innanzi tutto, di preservare dai loro attacchi quel che di positivo sta costruendo.

 
Brunetto così prosegue:
 
pag. 215 – 220, vv 73 – 78
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s’alcuna sorge ancora in lor letame
 
in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta.
 

Il Latini ribadisce il suo suggerimento a Dante di tenersi lontano da gente tanto distruttiva: che i Fiesolani si massacrino pure fra di loro, e non tocchino i nobili discendenti dai Romani di cui l’Alighieri fa parte.

 

Brunetto fa appello alla fierezza di Dante d’appartenere alla nobile discendenza dagli antichi Romani. Lo fa con un linguaggio in cui risuona l’eco di aspetti profondi del mondo interno: ricorda all’allievo la sua origine dai sacri “sementi” (elemento maschile) che non devono confondersi con quelli corrotti che s’innestarono nel “nido” (elemento femminile) della città. Il cognome di Brunetto è Latini (Romani): su di un piano profondo c’è qui un padre che, ricordando al figlio d’essere frutto del suo nobile seme, lo esorta a sentirsi orgoglioso della sua appartenenza ad una stirpe virile, e a non farsi ingannare dall’influenza di una città-madre che ospita, come fossero altrettanto stimabili quanto lui, individui così indegni.

 
Alle esortazioni dell’antico maestro, Dante così risponde:
 
pag. 220 – 222, vv 79 – 96
“Se fosse tutto pieno il mio dimando”
rispuosi lui “voi non sareste ancora
dell’umana natura posto in bando;
 
ché ‘n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
 
m’insegnavate come l’uom s’etterna:
e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo
convien che nella mia lingua si scerna.
 
Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s’a lei arrivo.
 
Tanto vogl’io che vi sia manifesto,
pur che mia coscienza non mi garra,
che alla Fortuna, come vuol, son presto.
 
Non è nuova alli orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ‘l villan la sua marra.”
 

Come s’è visto, il Latini aveva detto poco prima che, se fosse rimasto in vita, avrebbe continuato ad offrire il suo aiuto a Dante. Il Poeta lo contraccambia dicendogli che, se il suo desiderio fosse stato esaudito, Brunetto vivrebbe ancora. Gli parla del proprio rimpianto del tempo in cui il Maestro, come un buon padre, gli mostrava continuamente (“ad ora ad ora”) come l’uomo possa acquistare fama immortale (“come l’uom s’etterna”). Gli esprime la promessa – che qui sta mantenendo – di manifestare nel modo più chiaro (“nella mia lingua si scerna”) la propria gratitudine attraverso la voce immortale della Poesia. Gli comunica d’aver annotato nella propria memoria l’oscura previsione del “corso” della sua vita, ripromettendosi di farsela meglio spiegare da Beatrice (“a donna che saprà”), insieme a quanto gli avevano preannunciato Ciacco e Farinata (“altro testo”). Dichiara poi a Brunetto che, purché la coscienza non abbia nulla da rimproverargli (“non mi garra”), è pronto ad affrontare fin d’ora qualunque avversità: la Fortuna giri pure come vuole la sua ruota, come il villano la sua marra.

 

        Fra il maestro Brunetto e l’allievo Dante c’è ben più che una semplice trasmissione di nozioni. C’è un rapporto affettivo intenso e tuttora vivo. C’è la realtà vivente di Brunetto Latini nel momento in cui offriva a Dante quanto avrebbe contribuito a far crescere, in lui, il grande Poeta; un’esperienza che viene serbata nel suo essere, più ancora che nella sua memoria.
        Dante, qui, ci offre il modello di un modo sano e fecondo d’elaborare il lutto per la scomparsa di una persona cara ed importante. Ci sono modi sbagliati e sterili di vivere tale perdita. Essi sono apportatori di sofferenza, anche quando appartengono alla “normalità” per la minore intensità dei sentimenti e per una maggiore controllabilità di essi rispetto a quanto si riscontra nelle vere e proprie malattie mentali. Tuttavia se ne può parlare in termini psichiatrici per l’affinità che li lega allo stile di vita affettiva che appartiene alle persone affette da particolari patologie.
        Il primo da prendere in considerazione è quello del melanconico: egli s’identifica con la persona perduta ed amata in modo ambivalente, la mantiene nel suo mondo interno, e trasforma la sua vita interiore in un continuo, irrisolvibile, tormentoso, reciproco “stalking” tra lui e chi oggettivamente non c’è più. In una più sana elaborazione del lutto, non viene trattenuta nel mondo interno (ricordata, rivissuta) l’intera persona scomparsa (persona che, come tutti noi esseri umani, possedeva anche difetti che ci avevano urtato o fatto soffrire), ma selettivamente quanto di più prezioso ci ha trasmesso ed ha arricchito la nostra vita interiore. Questo significa far rivivere il Maestro/genitore scomparso nell’atto in cui ci offriva con autentica generosità – come Brunetto a Dante – qualcosa che si è rivelato prezioso e irrinunciabile. Ogni maestro, nel momento in cui accende in noi la scintilla critica e ci trasmette le sue capacità intuitive, è come il sacerdote quando indossa i paramenti sacri: si spoglia di tutti i limiti e i difetti che lo caratterizzano come individuo, e diviene puro portatore di quanto di più elevato esiste nell’essere umano. È, questa, un’esperienza che, come si diceva poc’anzi riguardo a Dante, viene serbata nel nostro essere, più ancora che nella memoria. Soprattutto in questo modo può essere tenuto in vita l’anziano che non c’è più: nei cambiamenti e nella capacità di evolverci che, in quanto maestro, ha prodotto nel nostro essere; la memoria può mantenere la traccia di tutto il resto delle sue caratteristiche individuali; oppure può cancellarla, ma non è questo che conta. Nel tenero e lungo colloquio fra Dante e Brunetto non appare il minimo cenno alla sodomia di quest’ultimo: non è questo aspetto del Maestro che rappresenta l’elemento essenziale del rapporto che li lega.
        Il secondo modo inadeguato d’elaborare il lutto è quello di tipo ossessivo-compulsivo, caratterizzato da sottomissione ed obbedienza acritica all’autorità del maestro/genitore defunto; autorità che viene assimilata nell’istanza superegoica. Il falso presupposto su cui si basa quest’atteggiamento è che l’insegnamento tramandatoci sia “perfetto”. Ciò che è vitale non è mai statico, ma in continua trasformazione. Non può, quindi, essere mai “perfetto”: perfetto (dal latino “perfectus”, ossia “compiuto”) è ciò che non è più suscettibile di ulteriore trasformazione ed evoluzione. Di conseguenza, “perfetto”, in questo mondo, è solo ciò che è morto. Trasformare in qualcosa di statico (non suscettibile di evoluzione) l’eredità del Maestro/genitore scomparso, equivale ad “imbalsamarne” le spoglie; equivale a farlo morire una seconda volta. Ciò che abbiamo ereditato, per mantenere il suo carattere prezioso e vitale, non va accettato in modo passivo; l’insegnamento non deve divenire un dogma, una sorta di “verità” definita una volta per tutte, ma va continuamente confrontato con tutte le nuove esperienze: va chiarito, sviluppato, eventualmente corretto, esattamente come avrebbe fatto il Maestro se avesse continuato a vivere. Dante non è divenuto un allievo acritico, rimasto fermo a quanto il maestro Brunetto aveva pensato e scritto fino al momento della sua morte: al contrario è divenuto l’Autore di un’opera del tutto sua ed originale. È proprio divenendo individui autonomi, unici ed irripetibili che noi possiamo rimanere fedeli a chi ha contribuito alla nostra formazione; è il modo autentico in cui possiamo far sì che continuino a vivere accanto a noi.

        Dante dimostra d’aver fatto tesoro dell’esortazione del Maestro affermando d’essere pronto ad affrontare, con virile fermezza e coraggio, qualunque avversità la Fortuna gli riservi: è proprio questo che gli consentirà di continuare ad essere sé stesso, e non piegarsi al volere o all’ostilità altrui.
 

        Brunetto, su richiesta di Dante, lo informa che, nella schiera dei sodomiti, si trovano Prisciano di Cesarea, Francesco d’Accorso, Andrea dei Mozzi, ed altri su cui, per ragioni di tempo, tace. Ne menziona soltanto i nomi o poco più.
        Ora Brunetto Latini si congeda da Dante: si avvicina un’altra schiera di dannati con la quale gli è proibito stare (“con cui esser non deggio”) e, prima di allontanarsi, raccomanda al suo antico allievo il suo “Tesoro”, l’opera enciclopedica in cui vive ancora, e più non chiede (“più non cheggio”):

 
pag. 223, vv 118 – 120
“Gente vien con la quale essere non deggio:
sieti raccomandato il mio Tesoro
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio”
 

La “gente” che l’ombra di Brunetto non deve (non può) incontrare, se intendiamo la frase alla lettera, è la schiera dei dannati che egli è obbligato ad evitare. Tuttavia, i versi che seguono (e l’intensa risonanza emotiva che suscitano queste parole, simili a quelle di un epitaffio) suggeriscono che si tratti anche dei sopravvissuti, appartenenti alle generazioni successive alla sua: egli non può più, ovviamente, incontrarli come persona fisica; ma non potrebbe neppure confrontarsi con loro idealmente, come fosse una persona autonoma, qualora rimanesse di lui un puro ricordo, o se egli sopravvivesse nella forma di parole scritte, non sottoposte a critica; parole che non potrebbero più affrontare i nuovi problemi e la diversa mentalità di chi sopravvive. Dante, per far continuare ad esistere l’antico maestro, può farlo solo rendendo “vivente” (ossia imperfetto ma in via di perfezionamento), e capace di dialogare anche coi contemporanei, quanto nella sua mente è rimasto di Brunetto, attraverso il “Tesoro” ricevuto in eredità.

 

Il Canto XV termina con l’immagine di Brunetto che s’allontana per raggiungere correndo la sua schiera:

 
pag. 223, vv 121 – 124
Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
 
quelli che vince, non colui che perde.
 
…………………………………………………………………………………………
 
Canto XVI

        Dante e Virgilio, sempre procedendo lungo un argine del Flegetonte, giungono nella parte inferiore del settimo cerchio, dove s’incomincia ad udire il rimbombo del fiume che precipita nel cerchio sottostante. Ai Poeti s’avvicinano tre anime, staccandosi dalla loro schiera. Esse sono attirate dal vestito di Dante, tipicamente fiorentino; il loro aspetto è penoso:

 
pag. 225, vv 7 – 12
Venìan ver noi, e ciascuna gridava:
“Sostati tu ch’all’abito ne sembri
essere alcun di nostra terra prava.”
 
Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri
ricenti e vecchie, dalle fiamme incese!
Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri.
 

        Bastano poche parole, a questi dannati, per esprimere i loro sentimenti ambivalenti verso la città-madre: sono attirati da un concittadino, con cui hanno piacere di parlarne, però la definiscono malvagia o perversa (“prava”). Dante, avverte compassione e dolore per le loro piaghe e, probabilmente, manifesta i suoi sentimenti con l’espressione del volto.

 
        Virgilio esorta Dante ad esser gentile con questi dannati poiché si tratta delle anime che, nella vita terrena, furono di persone di riguardo. Ai tre spiriti, come agli altri sodomiti, è proibito restar fermi; perciò si mettono a correre girando intorno ai Poeti.
        Uno degli spiriti, parlando a nome degli altri, dice:
 
pag. 226, vv 28 – 33
E “Se miseria d’esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi”
cominciò l’uno “e ‘l tinto aspetto e brollo,
 
la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu sé, che i vivi piedi
così sicuro per lo ‘nferno freghi.
 

        Il dannato, che poi si rivelerà essere Jacopo Rusticucci, esprime il suo timore che lo squallore del luogo arenoso (“sollo”) in cui si trovano, e il loro deplorevole aspetto affumicato e arsiccio (“tinto” e “brollo”) possano suscitare disprezzo (“dispetto”) nel Poeta, per cui questi potrebbe rifiutarsi di rispondere alle loro richieste. Per essere sicuro che Dante vinca il suo eventuale disgusto, Jacopo fa appello alla fama di cui, viventi, godettero lui e gli altri due spiriti.  

 

        Jacopo Rusticucci ricorda a Dante che i dannati non furono soltanto peccatori nella loro vita: furono anche persone di grande valore che godettero di una fama meritata.
        Anche qui, viene spontaneo il parallelo fra dannati e pazienti (in particolare quelli psichiatrici) la loro attuale miseria interiore spesso si manifesta con un aspetto deplorevole: la trasandatezza del vestiario, la scarsa igiene, i modi rozzi, ecc. È opportuno, qui, che il terapeuta ricordi – ed aiuti il paziente a ricordare – che il malato non è soltanto malato: è stato anche una persona sana e dotata di un qualche valore, e può tornare ad esserlo.
        Tuttavia questo non basta: affinché il dannato/malato possa essere sicuro che il suo interlocutore sia privo di pregiudizi, dev’essere chiaro che questi, anziché disgusto, stia provando dispiacere nel vederlo in quelle condizioni.

 
Dante, nei versi 10 – 12, aveva espresso il suo dolore alla vista delle piaghe di questi dannati. Più avanti lo dice a Jacopo Rusticucci:
 
pag. 228, vv 52 – 54
Poi cominciai: “Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia.
 

Poco prima, Jacopo Rusticucci, come per ribadire che lui e gli altri due spiriti sono degni di rispetto, li presenta e ne illustra brevemente i meriti. Si tratta di Guido Guerra, persona dotata di assennatezza e di valore militare, e di Tegghiaio Aldobrandi; di quest’ultimo dice che, se i Fiorentini lo avessero ascoltato, avrebbero evitato la sconfitta di Montaperti. Parla, infine, di sé stesso:

 
pag. 227, vv 43 – 45
E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui; e certo
la fiera moglie più ch’altro mi noce.”
 

È stato notato che, in questo canto, i dannati sembrano come ignorare la loro stessa, terribile sorte, e paiono preoccupati unicamente per quella della città-madre Firenze. Colpisce, inoltre, che non compaia alcuna allusione ai loro affetti (presumibilmente diretti a persone dello stesso sesso); l’unica eccezione è quest’accenno di Jacopo al cattivo rapporto con una persona di sesso femminile: la consorte insopportabile (la “fiera moglie”) cui attribuisce la responsabilità d’essersi distolto dalla relazione coniugale, volgendosi ad altro. Se si tiene conto del valore simbolico della “terra madre”, si deve supporre che la vita affettiva di questi sodomiti sia paradossalmente dominata dalla figura femminile-materna. Il loro orientamento sessuale-affettivo sembra, più che altro, l’esito di una fuga da un legame caratterizzato da conflitti intollerabili.

 
Rispondendo a Jacopo, che gli aveva chiesto come mai lui, ancora vivo, si trovasse nell’Inferno, Dante dice:
 
pag. 228, vv 61 – 63
Lascio lo fele, e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma infino al centro pria convien ch’i’ tomi”
 

Dante fa presente d’essersi distaccato dalle amarezze del male, e di compiere il cammino attraverso l’oltretomba per guadagnarsi le dolcezze del vero bene. Tuttavia deve prima arrivare al fondo dell’Inferno, ossia al centro dell’universo (“infino al centro pria convien ch’i’ tomi”)

 

        Il Poeta, forse per evitare d’essere frainteso, chiarisce che il suo viaggio nell’oltretomba ha come unico scopo la salvezza della propria anima. Egli, ciò dicendo, precisa di non nutrire alcun interesse morboso per i peccatori e le pene dell’Inferno. Il suo percorso, tuttavia, deve necessariamente far tappa nel fondo dell’Inferno, dove vengono puniti i peccati peggiori.
        Analogamente, in un percorso terapeutico, deve essere chiaro che non può esserci spazio per forme di compiacimento morboso/masochistico nel paziente (o per un puro interesse intellettualistico da parte del terapeuta) nel momento in cui vengono evidenziati conflitti e carenze, con la sofferenza che essi comportano. Il “viaggio” è unicamente al servizio di istanze riparative, anche se necessariamente occorre raggiungere gli aspetti più sinistri e nascosti (il fondo dell’Inferno) della vita interiore del paziente.

 

Jacopo Rusticucci prega Dante di dire se la virtù dimora ancora in Firenze, come già ai suoi tempi, o se è del tutto scomparsa. Guglielmo Borsiere, giunto da poco all’Inferno, ha infatti dato notizie poco rassicuranti. Qui Dante eleva una delle più famose apostrofi contro Firenze:

 
pag. 230, vv 73 – 76
“La gente nova e’ subiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni”
 

Firenze ha offerto ospitalità a nuovi abitanti provenienti dal contado, e possibilità di rapidi guadagni, grazie al commercio. Tuttavia tale generosità della città-madre ha paradossalmente prodotto un decadimento morale: dominano superbia e intemperanza (“orgoglio e dismisura”) come spesso succede quando un repentino miglioramento delle condizioni materiali crea, negli individui, l’illusione che non esistano limiti alle loro pretese narcisistiche. Si sente, qui, l’assenza di un’autorità, capace di tradursi in auto-disciplina, che ponga un argine agli effetti dei benefici “materni”.

 
Così i tre spiriti si congedano da Dante:
 
pag. 230, vv 79 – 87
“Se l’altre volte sì poco ti costa”
rispuoser tutti “il satisfare altrui,
felice te se sì parli a tua posta!
 
Però, se campi d’esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere ‘I’ fui’,
 
fa che di noi alla gente favelle.”
Indi rupper la rota, ed a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro snelle.
 

Dopo aver ringraziato il Poeta, e prima d’allontanarsi velocemente, i tre dannati esprimono una preghiera: che egli non trascuri di parlare di loro al mondo dei vivi quando, uscito dal baratro infernale, “tornerà a veder le belle stelle” e potrà parlare, usando i verbi al passato, della sua esperienza.

 

Si avverte, qui, la nostalgia di un ambiente libero, in cui si possano “veder le belle stelle”. Pare di ascoltare la preghiera di certi pazienti terminali – o, nei momenti di lucidità, dei malati inguaribili –: se non possono loro stessi ritornare nel mondo dei vivi, o dei sani, ci sia almeno qualcuno, in cui essi possano proiettarsi, che mantenga viva la loro esistenza parlando di loro.

 

        I due Poeti proseguono il loro cammino, e giungono dove il Flegetonte, con un rombo assordante, precipita lungo una “ripa discoscesa” nell’ottavo cerchio.

        Dante porta, cinta alla vita, una corda; Virgilio gli ordina di porgergliela:
 
pag. 231 – 236, vv 106 – 117
Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza alla pelle dipinta.
 
Poscia che l’ebbi tutta da me sciolta,
sì come ‘l duca m’avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.
 
Ond’ei si volse inver lo destro lato,
e alquanto di lunge dalla sponda
la gittò giuso in quell’alto burrato.
 
“E’ pur convien che novità risponda”
dicea fra me medesmo “al novo cenno
che ‘l maestro con l’occhio sì seconda.”
 

Dante si scioglie la corda, con la quale aveva già tentato di prendere la lonza dalla pelle variopinta. La porge al Maestro tutta ammassata (“aggroppata”) e ravvolta. Virgilio – si noti: volgendosi al lato “destro” – la scaglia giù dal precipizio, tenendosi a distanza. A un così insolito segno (“novo cenno”), Dante s’aspetta di veder comparire qualcosa d’inconsueto (“novità”)

 

        Molti commentatori ritengono che la corda con cui Dante cercò di neutralizzare la lonza, simbolo di frode, sia a sua volta simbolo di virtù francescane. Solo l’umiltà di un S. Francesco, infatti, può contrapporsi alle pretese narcisistiche che rendono facile preda dell’inganno e spesso ne rappresentano la motivazione in chi ne è autore: pretese che si manifestano come vanità, superbia, avidità, ecc. A Dante l’operazione non riuscì. Con maggiore efficacia, ora Virgilio usa la corda per tenere sotto il suo controllo Gerione, custode del cerchio dei fraudolenti.
        La corda, inadeguata allo scopo nelle mani di Dante, in quelle di Virgilio si rivela un mezzo sicuro, poiché il Maestro, ai sentimenti virtuosi e alle buone intenzioni, coniuga la razionale sapienza: si noti che, contrariamente a quanto succede di solito nell’Inferno, Virgilio si volge “al lato destro”, ossia al lato che, simbolicamente, rappresenta la razionalità ed il realismo; in contrasto con quello sinistro che rappresenta la passione, inopportuna e pericolosa in queste circostanze (sul significato simbolico di destra e sinistra, si veda la nota a piè di pagina del Canto IX)

 

Alla stupefacente comparsa del mostro, che emerge dall’abisso, Dante premette alcune considerazioni:

 
pag. 236 – 237, vv 118 – 129
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l’ovra,
ma per entro i pensier miran col senno!
 
El disse a me: “Tosto verrà di sovra
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna:
tosto convien ch’al tuo viso si scovra.”
 
Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el pote,
però che sanza colpa fa vergogna;
 
ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
s’elle non sien di lunga grazia vote,
…………………………………………
 

        Il Poeta invita ad essere cauti nel giudicare coloro che, pur non vedendo un’azione come fatto oggettivo, tuttavia la percepiscono con la loro mente. Virgilio assicura Dante che quel che ora concepisce solo con l’immaginazione (“sogna”), fra poco apparirà davanti ai suoi occhi. Segue una sorta d’invocazione di Dante al lettore: se i suoi versi (le “note”) non saranno privi di un suo durevole favore (“di lunga grazia vote) lo prega di credergli quando giura d’aver visto qualcosa d’incredibile, benché la sua affermazione abbia l’apparenza (la “faccia”) di una menzogna.

 

        Dante descrive una situazione che incontriamo spesso nell’attività clinica, ma anche nella vita ordinaria: il soggetto è convinto di conoscere una verità, però si rende conto che il comunicarla sarebbe inteso come dire una menzogna. L’influenza della reazione emotiva altrui sarebbe pressoché inevitabile: l’essere oggetto di riprovazione o di scherno susciterebbe un sentimento di vergogna in chi, innocente, non avrebbe alcuna ragione per provarlo. Meglio, perciò, tacere tutte le volte che è possibile. Però qui Dante non può farlo. Il suo Poema, infatti, è una sorta di sogno; egli lo vive e, al tempo stesso, lo racconta; e si sa che quel che da svegli potrebbe apparirci come pura metafora, mentre sogniamo ci appare come realtà oggettiva.
        I motivi di questa incomprensione altrui sono molteplici. A volte la verità che il soggetto vorrebbe rivelare è sconvolgente, si preferisce non credervi. E si sa che l’incredulità, pur costituendo una comprensibile reazione difensiva, è oggettivamente complice dei peggiori crimini. Altre volte non si riesce a cogliere il valore di metafora di quanto viene dichiarato: se viene inteso alla lettera, e riferito alla realtà oggettiva, appare come falso. Il soggetto, al contrario, sta cercando di comunicare una verità che riguarda la vita interiore. La situazione si complica quando il soggetto stesso intende la sua metafora come se fosse una realtà oggettiva, ossia quando, pur sveglio, è ancora immerso nel suo “sogno”. È il caso di quanto dichiarano i pazienti affetti da un disturbo delirante-allucinatorio. È imprecisa la definizione del delirio come convinzione “non aderente alla realtà”: non esiste solo la realtà oggettiva, esiste anche quella interiore, e il paziente, a modo suo, ne sta parlando in modo veritiero. Analoghe considerazioni valgono per apparenti menzogne, comuni nell’isteria, ma occasionalmente presenti anche nella vita delle persone “normali”. Parlo di certe “iperbole” (esagerazioni) e di particolari “pseudologie fantastiche” (bugie di cui il soggetto è consapevole, ma finisce per credervi). Per cercare di comunicare i drammi che avvengono effettivamente nella vita interiore, si ritiene necessario “inventarli” nella realtà oggettiva.

 

Proseguendo quanto detto nei versi 127 – 129, Dante descrive la comparsa di Gerione, il custode del cerchio VIII. Non lo nomina, e neppure descrive il suo aspetto; menziona solo le emozioni che tale apparizione suscita: meraviglia e spavento che proverebbe anche una persona non facile a temere (un “cor sicuro”). Illustra soprattutto il movimento di Gerione che emerge dall’abisso, paragonandolo a quello del marinaio che, disceso nel fondo del mare a liberare l’ancora, risale in alto di slancio. Con questi versi si chiude il Canto XVI.

 
pag. 237, vv 130 – 136
………………………………..
ch’i’ vidi per quell’aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogni cor sicuro,
 
sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’ancora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,
 
che ‘n su si stende, e da piè si rattrappa.
 
…………………………………………………………………………………………
 
Canto XVII

        Dante e Virgilio, ancora nel terzo girone del settimo cerchio, hanno visto comparire Gerione sull’orlo della “ripa discoscesa”. Virgilio, dopo aver commentato tale apparizione, fa cenno a quel mostro d’avvicinarsi alla sponda (“proda”) del precipizio, vicino al termine del margine di pietra del Flegetonte dove i Poeti avevano “passeggiato” (“passeggiati marmi”). Gerione s’affaccia sull’orlo con la testa e il busto, ma tiene celata la coda. Il suo viso sembra appartenere ad un uomo dabbene (“giusto”), ma quel che tiene nascosto ha le caratteristiche di un serpente. La punta della coda, che si dimena nel vuoto (“nel vano”) è biforcuta, come quella di uno scorpione.

 
pag. 239 – 240, vv 1 – 27
“Ecco la fiera con la coda aguzza
che passa i monti, e rompe i muri e l’armi;
ecco colei che tutto ‘l mondo appuzza!”
 
Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda
vicino al fin de’ passeggiati marmi.
 
E quella sozza immagine di froda
sen venne, ed arrivò la testa e ‘l busto
ma ‘n su la riva non trasse la coda.
 
La faccia sua era faccia d’uomo giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto;
 
…………………………………………
 
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in su la venenosa forca
ch’a guisa di scorpion la punta armava.
 

        È stato notato il contrasto tra Flegiàs, custode degli iracondi, e Gerione, custode dei fraudolenti. Mentre il primo si rende spontaneamente percepibile per i suoi “richiami guerreschi di vedetta”, oltre che per le minacce e gli improperi che rivolge ai Poeti, viceversa Gerione, simbolo della frode, “sbuca dalle tenebre”, forzato a comparire dalle doti morali di Virgilio e dalle “virtù della Ragione”. Per cogliere l’insidia della frode non bastano i sensi – tanto più che Gerione, anche quando si rende visibile, offre agli occhi l’immagine di un uomo dabbene – occorrono le qualità interiori di cui Virgilio dà prova. Il Poeta latino lo definisce subito come simbolo di una forza distruttiva terribile, capace di superare ogni ostacolo e di rendere marcia e maleodorante ogni cosa o persona con cui entra in contatto (“tutto ‘l mondo appuzza”). Per inciso, fra tutti i sensi, l’olfatto (inteso anche in senso metaforico) è quello che più difficilmente si può ingannare.
        Si è ipotizzato che l’aspetto biforcuto della coda di Gerione rappresenti i peccati puniti nell’ottavo e nel nono cerchio: rispettivamente la frode contro chi non si fida e quella contro chi si fida. È anche possibile che rappresenti il duplice carattere distruttivo del fraudolento: egli non solo arreca danni oggettivi ai suoi simili, distrugge anche il rapporto di fiducia che lega fra loro gli esseri umani. Lo fa per la sua capacità di vincere con l’inganno la sospettosità di alcuni; e la diffidenza, trovando conferma, si generalizza e diviene pregiudizio. Lo fa anche tradendo la spontanea confidenza di parenti, amici e di chi, avendo fatto del bene, si aspetta gratitudine. La frode distrugge, tendenzialmente, quei legami affettivi che hanno consentito alla nostra specie di sopravvivere. Si comprende, quindi, come i fraudolenti, indipendentemente dall’entità del danno oggettivo che producono usando l’inganno, siano posti nel fondo dell’Inferno.

 

I due Poeti devono deviare un poco il cammino per avvicinarsi alla “bestia malvagia”. Scendono, perciò, dall’argine “a destra”, e fanno dieci passi sull’orlo di pietra che delimita il terzo cerchio (“lo stremo”) per evitare (“cessar”) la sabbia infuocata e le fiamme. Dante vede le anime degli usurai, che giacciono sedute sull’orlo del sabbione, accanto alla voragine (“luogo scemo”) che divide il cerchio dei violenti da quello dei fraudolenti.

 
pag. 241, vv 31 – 36
Però scendemmo alla destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella.
 
E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al luogo scemo.
 

        Riguardo al volgersi eccezionalmente verso destra (la “destra mammella”) dei Poeti, si veda la nota a piè di pagina, a commento del Canto IX: per affrontare i fraudolenti, come pure gli eretici, è necessario attingere alle risorse del realismo e della razionalità (la “destra”), senza indulgere alle passioni (la “sinistra) e senza perderne il controllo.
        Gli usurai, a differenza degli altri violenti contro Dio e le sue cose, stanno seduti e immobili. Nella vita terrena esercitarono la loro attività ai danni di coloro che avevano urgente bisogno di denaro, depredandoli poi del frutto del loro lavoro; e questo senza lavorare loro stessi (“stando seduti”). Ecco che ora, come si vedrà poco più sotto, tale “comoda” posizione diventa motivo di tormento.
        Gli usurai giacciono in prossimità del confine che separa il settimo cerchio da quello dei fraudolenti. C’è, in effetti, una qualche affinità con tali peccatori: come questi, adescarono le loro vittime con una sorta d’inganno, presentandosi come coloro che avrebbero alleviato la disperazione di chi era oppresso dalla miseria e dai debiti, per poi trascinarlo in una condizione ancor più disgraziata.

 

Gli usurai sono doppiamente tormentati: dalla sabbia rovente su cui siedono e dalla pioggia di fuoco. Il loro tormento silenzioso prorompe (“scoppiava”) dagli occhi. Le loro mani cercano invano di difendersi (“soccorrìen”) dalle fiamme e dalla sabbia incandescente. Dante paragona tali movimenti scomposti a quelli dei cani che d’estate (“di state”) cercano di difendersi col muso (col “ceffo”) e con le zampe dai morsi di pulci, mosche e tafani.

 
pag. 241 – 246, vv 46 – 51
Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrìen con le mani
quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:
 
non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo, or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani.
 

        Dal Cielo non discende il refrigerio dell’acqua, ma la violenza del fuoco. È la violenza che, diretta contro il potenziale Oggetto interno soccorrevole (Dio per i credenti) ritorna a tormentarne gli autori. Il “suolo” su cui siedono gli usurai potrebbe rappresentare quella che ritenevano una solida base di ricchezza, acquisita in modo illecito e sui cui s’illudevano di riposare; ricchezza che, prima o poi, si rivela fatta di un “denaro che scotta”, e di cui non si può godere con tranquillità.
        Nel cercare di difendersi dalle fiamme e dalla sabbia ardente, gli usurai dimostrano tutta la loro impotenza, come povere bestie tormentate dagli insetti. Erano stati mossi dall’illusione di poter esercitare un controllo “onnipotente” sul lavoro e la ricchezza altrui. Tuttavia, simili fantasie sfociano, prima o poi, in situazioni di segno opposto: se non è la giustizia terrena a punirli, gli usurai devono inevitabilmente confrontarsi col malvolere e la disistima altrui; e per fronteggiare tale ostilità (che potrebbe coinvolgere anche i loro familiari) non dispongono di alcuna risorsa.

 

Gli usurai, come già gli avari e i prodighi, sono irriconoscibili. Dante, perciò, non può identificarne nessuno con certezza. Tuttavia ognuno di questi dannati porta al collo una borsa (“una tasca”) su cui è visibile lo stemma della famiglia cui appartiene. Il Poeta, perciò, intuisce che si tratti dei membri di alcune famiglie, tutte nobili, notoriamente usuraie: un membro della famiglia dei Gianfigliazzi, uno di quella degli Obriachi, ed infine uno degli Scrovegni. Quest’ultimo, a differenza degli altri, rivolge la parola a Dante:

 
pag. 246 – 248, vv 64 – 75
E un che d’una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco
mi disse: “Che fai tu in questa fossa?
 
Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
sappi che ‘l mio vicino Vitaliano
sederà qui dal mio sinistro fianco.
 
Con questi fiorentin son padovano:
spesse fiate m’intronan li orecchi
gridando: “Vegna il cavalier sovrano,
 
che recherà la tasca con tre becchi!”
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua come bue che ‘l naso lecchi.
 

Chi parla a Dante è Reginaldo degli Scrovegni, famiglia padovana il cui stemma era una scrofa gravida (“grossa”) di colore azzurro in campo bianco. Costui, irritato presumibilmente perché il Poeta, ancora vivo, potrebbe diffondere nel mondo la notizia della sua abiezione, lo invita bruscamente ad andarsene. Poi, per sfogare la sua rabbia, annuncia con malignità che presto siederà al suo fianco sinistro il concittadino Vitaliano del Dente; e aggiunge, per scherno, che i fiorentini vicini a lui “intronan li orecchi” esprimendo la loro attesa del “cavalier sovrano” (Giovanni Buiamonte), un aristocratico, banchiere e uomo politico noto a Firenze, che porterà una borsa con impressi “tre becchi”. Dette queste parole, lo Scrovegni torce la bocca e trae fuori la lingua con gesto volgare e indecoroso.

 

        Si noti che Dante, fra gli usurai, non pone gente del popolo o ebrei, ma solo aristocratici che danneggiarono la reputazione del loro casato esercitando un mestiere ritenuto ignobile. Il commentatore M. Barbi osserva che “Dante mostra d’aver vergogna dei nobili che [esercitando l’usura] disonorarono la casta e la città (…) qui c’è l’intenzione di mettere in rilievo la turpitudine di chi crede di poter conciliare l’avarizia con la nobiltà, l’usura con la cavalleria”
        Anche confrontandosi col loro orgoglio aristocratico e con la loro istanza morale, costoro si convinsero di poter “onnipotentemente” cancellare l’inconciliabilità di qualità che si escludono reciprocamente; e, anche qui, la fantasia “onnipotente” si risolve nel suo opposto: l’anima “nuda” dello Scrovegni mostra tutta la sua meschinità e la sua miseria interiore, dimostrandosi preoccupata, più che per la propria dannazione, per la possibilità che Dante possa portare nel mondo dei vivi la notizia della sua condanna; dimostrandosi, inoltre, incapace di suscitare quella comprensione umana del Poeta che altri dannati, non scostanti quanto lui e più umili, sanno conquistarsi. Il suo modo per vincere la vergogna è coinvolgere, nella sua stessa condizione disonorevole, i membri d’altre famiglie aristocratiche. Pare non rendersi conto che ciò non riduce minimamente il disonore da lui causato alla sua famiglia. Fatto, questo, particolarmente grave perché si tratta di nobili che seppero dar prova di meritevole mecenatismo: in quegli stessi anni sarà completato il capolavoro di Giotto, ossia la cappella padovana che porta il loro nome.
        L’ultimo gesto indecoroso dello Scrovegni conferma definitivamente la sostanziale volgarità di questo spirito che, reso “nudo” dalla condizione di dannato, si è completamente spogliato di ogni travestimento da “nobile”.

 

Dante, temendo che trattenersi più a lungo con gli usurai possa contrariare Virgilio, che gli aveva raccomandato di far presto, lascia queste anime e ritorna dal suo Maestro. Questi ò già salito sulla groppa di Gerione ed invita Dante a montare davanti a lui, per evitare che la coda del mostro possa nuocergli. Il Poeta, impaurito come chi sente avvicinarsi il brivido (il “riprezzo”) della febbre quartana, e trema solo a guardare un luogo fresco e ombroso (il “rezzo”), tuttavia riprende animo grazie alla presenza di Virgilio; allo stesso modo, un servo impaurito si rassicura di fronte al coraggio del suo signore:

 
pag. 249, vv 85 – 93
Qual è colui che sì presso ha il riprezzo
della quartana, ch’ha già l’unghie smorte,
e triema tutto pur guardando il rezzo,
 
tal divenn’io alle parole porte;
ma vergogna mi fe’ le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.
 
I’ m’assettai in su quelle spallacce:
sì volli dir, ma la voce non venne
com’io credetti: “fa che tu m’abbracce.”
 

Pur confortato dalla presenza del suo Maestro, Dante deve lottare contro intense emozioni che soffocano la sua voce e gl’impediscono di chiedere a Virgilio d’abbracciarlo per proteggerlo nel viaggio. La sua guida, tuttavia, comprende il suo desiderio e lo soddisfa.

 

La discesa nell’VIII cerchio si rivela un’impresa temibile. Dante paragona le sensazioni che essa gli suscita al pauroso precipitare nel vuoto di Fetonte, quando perse il controllo del carro del Sole, lasciando nel cielo una scia infuocata (la via Lattea); o a quello di Icaro, quando s’accorse che il calore del sole stava sciogliendo la cera con cui erano incollate le sue ali:

 
pag. 251, vv 106 – 114
Maggior paura non credo che fosse
quando Fetòn abbandonò li freni
per che ‘l ciel, come pare ancor, si cosse;
 
né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui “Mala via tieni!”,
 
che fu la mia, quando vidi ch’i’ era
nell’aere d’ogni parte, e vidi spenta
ogni veduta fuor che della fera.
 

Come Fetonte col carro del Sole, e come Icaro con le sue ali, Dante teme di perdere il controllo delle sue emozioni, soprattutto la paura. È pur vero che il Poeta gode della protezione di una guida sapiente, però teme di non riuscire a farne un buon uso, come avvenne ai due personaggi mitologici citati con le raccomandazioni dei loro padri. Il suo timore, di fronte alla potenza minacciosa della frode verso cui si sta avvicinando, è di trovarsi solo, impotente, senza potersi appoggiare ad alcunché di visibile e tangibile: il fraudolento è come se “ipnotizzasse” le sue vittime, lasciandole completamente inermi.

 

Il Canto XVII si conclude con l’immagine di Gerione che, raggiunto il fondo del baratro, depone i due Poeti. Lo fa con aria corrucciata, dato che Dante e Virgilio non sono due prede, ossia anime dannate. Il Poeta lo paragona ad un falcone che, stanco d’aver volato a lungo senza aver ghermito alcun uccello, discende lentamente senza essere stato sollecitato dal richiamo (il “logoro”) e, pieno di malanimo, si posa lontano dal falconiere. Poi subito il mostro si dilegua con la rapidità della freccia (la “cocca”) scoccata dall’arco.

 
pag. 252 – 253, vv 127 – 136
Come ‘l falcon ch’è stato assai sull’ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere “Ohimè, tu cali!”
 
discende lasso onde si move snello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello;
 
così ne puose al fondo Gerione
al piè al piè della stagliata rocca
e, discarcate le nostre persone,
 
si dileguò come da corda cocca.  
  
 

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