CUORE DI TENEBRA
Viaggio al termine della psichiatria
di Gilberto Di Petta

INCUBO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE

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8 agosto, 2017 - 06:10
di Gilberto Di Petta
Al posto di osservazione, Signore,
io sto sempre, tutto il giorno,
e nel mio osservatorio
sto in piedi, tutta la notte.

Isaia, 21:1-12

30/31 luglio 2017

Il pomeriggio del trenta luglio lo passo con i due giovani tirocinanti psicologi, Marco e Tello, in Pronto Soccorso. Armando ha ingoiato una lametta. Lo ha portato il 118 da un paesone dell’ hinterland di Napoli nord, quello di “Io speriamo che me la cavo”. E’ a circa cinquanta chilometri da qui. In un territorio metastatizzato dal cemento, senza soluzioni di continuo. Armando viene dai bordi di questa megalopoli che non ha più centro.  Mentre andiamo in PS dico ai ragazzi, Marco e Salvatore, al loro ultimo giorno di tirocinio, che ingoiare le lamette è il gesto tipico dei detenuti. Infatti Armando è con gli obblighi di dimora. Ha fatto venti anni di carcere. Non riesco a capire neanche bene per cosa. Ma poco importa. E’ magrissimo, quasi emaciato. Un uomo vinto, un perdente. Guardo le lastre in controluce e la testina del lamarasoio bic si vede netta, nell’ipogastrio sinistro. Si aspetta il chirurgo. Intanto Armando è smanioso, vuole firmare e andarsene. Ripete con lagna monocorde : “non mi operate”. Stabiliamo un contatto. Gli prendo la mano.  Gli chiedo qualcosa di lui. Accetta una flebo con un calmante. Facciamo gli esami di sangue, il tracciato eeg. Ha una storia, ma non riesce a raccontarla. Scriveva Baricco in Novecento “…non sei fregato veramente finchè hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla”. Qui la storia c’è, qualcuno a cui raccontarla pure, ma manca, ormai, il soggetto che la racconti. Armando mi dà l’impressione di non esserci più. Il suo corpo è una crisalide secca, che dubito abbia mai ospitato una farfalla. Si esprime, Armando, in modo stentato, flebile, dialettale. A suo dire non mangia e non beve da giorni. Si direbbe un depresso grave, ma poi trova l’energia per opporsi. Separato, con figli grandi che non vede più da anni, senza amici. Prigioniero del tufo della Arzano vecchia che non saprei definire meglio che con i versi di Quasimodo : “Una croce di case che si chiamano piano e non sanno che è paura di rimanere sole nel buio”. Armando è solo. E’ solo nel buio. La sua esistenza è al punto di collasso. Un uomo solo alla deriva del mondo. A turno Marco e Tello gli tengono la mano. Non so quando è stata l’ultima volta che qualcuno gli ha tenuto la mano. La sua è una mano fredda. Il freddo della vita che ti abbandona. I due giovani fremono allo stringere, loro che pulsano di vita, la mano nella mano della morte. Dalle carte che la collega del PS mi mostra, leggo due cose che mi colpiscono. La prima è che agli inizi di luglio Armando  è stato già portato nel nostro PS perché aveva ingoiato una pila ministilo. Era stato visto da uno di noi mentre il chirurgo cercava di togliergliela dalle prime vie, come l’airone della fiaba di Esopo  toglie l’osso dalla gola del lupo. Dunque lo psichiatra non aveva potuto valutarlo. L’assurdo era che i colleghi chirughi pretendevano che fossimo noi psichiatri a sedarlo. E poi più nulla. Il collega psichiatra aveva scritto che doveva essere rivalutato. Ma lui, tolta la pila, aveva tolto l’incomodo. Per tornare al suo buio. Al suo lento morire in deliquio. Il secondo punto che mi colpisce è che Armando  era stato visto dalla collega psichiatra del suo territorio di competenza il giorno 27, uscendone con una prescrizione farmacologica. Mi domando se le sue condizioni tre giorni fa fossero state già quelle di ora, come si fa a fare un prescrizione e basta? Dopodichè il gesto della lametta. Lo motiva dicendo :”Mi sono sfastidiato di campare, lasciatemi morire”. Intanto arriva il collega chirurgo e gli lasciamo il paziente per il prosieguo endoscopico delle indagini. Bisogna capire se la lametta è incuneata nel sacco terminale dello stomaco o se ha già scavallato nell’intestino. Siamo riusciti, per ora, a tranquillizzarlo sul lettino, ormai ci si accontenta di poco.  L’idea è di trasferirlo in spdc non appena  lametta verrà rimossa. Rientriamo in reparto. E’ sabato sera. Congedo con nostalgia Marco e Tello che si apprestano a partire, come Castore e Polluce, per continuare la ricerca del Vello d’oro, e scrivo le consegne aspettando lo smonto. Alle 20,15 mi appare chiaro che lo smonto non arriverà. Il collega è malato e il reperibile è indisponibile. Mi tocca rimanere la notte. Me ne faccio una ragione. La squadra di infermieri è contenta che rimango. A volte questi movimenti di simpatia, o di empatia, ti aiutano a digerire la durezza di un turno. Come quella di andare incontro ad una notte non tua nel cuore dell’estate. In fondo ho trascorso un intero pomeriggio in PS, spero che mi facciano riposare un poco. Ma è un’illusione. Alle 21 chiama Morelli dal PS per una doppia situazione. In Osservazione breve intensiva (OBI) c’è una donna, Olga, che ha circa quarantacinque anni, in stato di ebbrezza alcolica. E’ una paziente in carico al nostro CSM. Già ha praticato fleboclisi con metadoxil. E’ scivolata da una condizione depressiva ad una di alcolista. Il marito, silenzioso, le sta accanto. Riesce a dirmi che non ha potuto dimenticare il fratello impiccatosi nel suo giardino. Intanto in codice rosso c’è una donna, Sara, di circa 50 anni, con il cranio rasato, paraplegica, su di una sedia rotelle, che in modo francamente incongruo ammicca contro il marito. Il marito sta in piedi nel corridoio, perplesso, rassegnato, distrutto. Sara ha un tumore della serie gliale al cervello, con tre zone di espansione, inoperabile. Ha fatto un carico di cortisonici, adesso è in una fase eccitata, confusa e paranoide. Dunque una sindrome psico-organica, uno stato psicotico esogeno. Nessuno sa cosa fare. Il marito ha chiamato l’ambulanza perché è ingestibile. Riusciamo a farle accettare una flebo con un sedativo. Maria, l’infermiera che mi ha accompagnato, si prodiga. Sara si addormenta subito. La trasportano in OBI. Rientriamo che è tardi. Il gatto nero staziona davanti al PS. Ormai vive là. Se guardo la mezzaluna d’argento che oscilla tra le cime dei pini, e i gatto nero che dinoccola la coda, mi sembra di vedere l’insegna del Chat Noir a Montmarte. Il mio pensiero va alla Odette e al Charlus i Proust che si incontrano nel mitico locale. Rientriamo che è tardi. Mangiamo una pizza fredda. La divisa si incolla addosso nei travasi tra dentro e fuori. Questa è la nostra notte di mezza estate. L’afa è terribile. L’aria condizionata non ce la fa. Mi arriva la telefonata dei chirurghi che si sono occupati di Armando. Dicono che non è operabile, che la lametta ha superato il duodeno, e che dunque si deve aspettare solo che Armando la defeca. E che questa defecazione può tranquillamente avvenire in SPDC…. Naturalmente gli dico che l’SPDC si occupa di varie nefandezze, ma ad essere il recipiente degli escrementi con corpi estranei ancora non è arrivato. Dunque mi reco da loro per scrivere (come vogliono) che il paziente non è a rischio (e chi lo sa) di reiterare il tentativo di suicidio, e pertanto può stare da loro. Perché da loro non molto tempo fa un paziente si è defenestrato. E noi non lo avevamo neanche visto. Perché ufficialmente non era un nostro paziente. Scrivo, dunque, affidando la mia vita nelle peggiori mani possibili. Se gli basta un rigo per scaricarsi dalle responsabilità. Che sia. Con quale animo mi prendo in reparto un paziente che potrebbe fare un’emorragia interna da un momento all’altro? Il tempo per pensare non è troppo. Questo ci aiuta a rimuovere l’angoscia.  All’una, infatti, ci chiamano per Mara, una donna accompagnata dai carabinieri, sulla quarantina. Malmenata con lividi alle braccia e alle spalle. In evidente stato di ebbrezza. Un figlio che vive con la madre. Lei raminga tra i parenti. Un’esistenza allo sbando. Un’altra. In questa notte di mezza estate cadono sul pronto soccorso come le stelle.  Rifiuta di fare prelievi, il tracciato. I due giovani carabinieri ci guardano senza pronunciarsi. L’hanno sottratta al linciaggio. Onestamente non la ricovererei. Ma dove la mando? Lei se ne andrebbe, ma si accascerebbe sul primo marciapiede e il 118, allertato, la riporterebbe qui. Praticamente, infatti, non sa dove andare. Mi colpisce sempre questo atteggiamento delle famiglie di delega alla strada della pecora nera. Come se ci fosse un sistema garantito di raccolta. Di contenimento. Come se noi non avessimo un repartino, ma un pozzo senza fondo dove gettare tutti i reietti.  Refertiamo le contusioni e ce la portiamo in reparto. Con me sono venuti Nunzio e Antimo. Mara possiede solo i vestiti che ha addosso. Oltre alla sua rabbia.  Il mesto drappello fatto da me, dai due infermieri, dai due carabinieri e da Mara attraversa lo spazio afoso e deserto tra PS ed SPDC, proprio mentre le stelle stanno a guardare. Finalmente  la cattiva arriva in SPDC. Si sono fatte le due. Il cielo è limpido e stellato. Nel silenzio pare di udire lo sciabordio del mare. Penso a quanti si stanno divertendo. Mi ripeto, guardando l’orologio, il salmo di Isaia : “Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?”.  Mentre compilo le cartelle mi chiamano dentro, in reparto. Il terribile Guido ha fatto sparire il telecomando della tv dei pazienti. Finge di dormire. L’altra sera lo aveva buttato dalla finestra nel giardino fuori il reparto. Io e Maria andiamo con la torcia ma non lo troviamo. Ritorno da Guido. Al suo capezzale, convinto che mi sente, gli sussurro che stanno arrivando i carabinieri e che posso ancora fermarli se mi dice dove ha messo il telecomando. A quel punto con gli occhi semichiusi, quasi in stato sognante, Guido rende piena e lucida confessione : “Cercate nell’armadietto di Pasquale”. Guido odia Pasquale. Si sono presi varie volte. Tanto Pasquale è filiforme e mistico, quanto Guido è massiccio e concreto. Entriamo nella stanza di Pasquale, che dorme. Il telecomando è nel suo armadietto. Lo riponiamo. Guido viene da una delle nostre residenze, quella che ha il nome di un dio egizio. Vive li da anni. Ha la sua stanzetta che divide con un altro. Ha avuto innumerevoli ricoveri, è stato protagonista di grandi fughe, di grandi farse, di compassionevoli truffe e di picaresche sceneggiate. Con i suoi occhi lucidi e con il suo vocione stentoreo è uno dei personaggi fabbricati dalla nostra psichiatria democratica. Come il manicomio fabbricava i personaggi che Esquirol descriveva a Charenton, così noi, nel post-manicomio, abbiamo fabbricato i nostri personaggi. Essi sono un pò tutto e un pò nulla, cioè il contrario di tutto. Un poco border, un poco bipolari, un poco psicotici. Un poco in spdc, un poco nella residenza. A casa ormai non più. Essi sono la galleria del nostro fallimento. Sono la galleria di come la follia sopravvive a tutte le istituzioni. Anche a quelle che la destituiscono per ritrovarsela sempreverde e innominabile davanti agli occhi. Ma questi sono solo i pensieri di uno psichiatra di turno, ormai insonne. Alle tre mi richiama il PS. “Vieni, c’è un’indemoniata”. Ma cosa sta accadendo stanotte? E’ possibile che il mondo dei perdenti si disfa non appena i vincenti se ne vanno in vacanza? Avverto gli infermieri telefonicamente ed esco da solo. Quando entro in PS ho la sensazione di una cella frigo. La paziente è in codice rosso, urla in modo gutturale ed è attraversata da spasmi tonico conici pseudoconvulsivi. La tengono in quattro. Ha già praticato due fiale di midazolam senza risultati. Faccio praticare una fiala di entumin. La riconosco. E’ Filomena, la giovane oligo che abbiamo avuto in reparto neanche un mese fa. Accorgendoci, tra l’altro, che aveva diverse fratture costali. Anche con un principio di versamento pleurico. E ricordo la battaglia che abbiamo dovuto fare perché i chirurghi se la prendessero. Con tanto di direzione sanitaria in mezzo. Esco a parlare con i genitori. Il padre è cieco. La madre mezza matta. Chiaramente non la possono gestire. Intanto se la ripresero dalla chirurgia, dove eravamo riusciti a trasferirla con le coste rotte, per riportarsela a casa. Dico al collega di guardarla bene, gli segnalo le implicazioni toraciche che aveva fino alla dimissione. Poi, visto che si è tranquillizzata, mi avvio in reparto. Guardo il letto. E’ intatto. Mi appoggio togliendomi solo il camice. Che è un sudario. Spengo la luce. E’ un sonno breve. Senza sogni. Il cicalino suona alle 5. Guardo l’orologio, è passata un ora. Mi sembra un’eternità. Quanto conta un’ora di sonno, per chi è insonne. Come un bicchiere d’acqua, per chi ha sete. Riattraverso per l’ennesima volta lo spiazzo tra noi e il PS, ovvero una sorta di guado intransitabile, tra i sommersi e i salvati. Le analisi sono pronte. Il collega del PS, scrupoloso, avendo recepito il mio input, ha fatto una tac toracica che evidenziato focolai multipli alle basi pomonari bilateralmente. Filomena ha un polmonite. Dunque va in medicina. All’indomani ci scanneremo con gli internisti. Che ci chiameranno per trasferimento negando la polmonite. E io urlerò, con quanto fiato mi rimane : “Voi dovete capire che i pazienti psichiatrici hanno anche un corpo, e che questo corpo si ammala, si lesiona e muore, e che noi non siamo i medici totali dei nostri pazienti, come voi non lo siete dei vostri. E che anche i pazienti psichiatrici hanno diritto che il proprio corpo venga curato!!!” Torno in reparto che sono le prime luci dell’alba, non senza aver incrociato, all’uscita, lo sguardo del marito di Sara che veglia la tranquillità chimica della moglie. Anche questa notte è passata, ed un'altra battaglia oscura, silenziosa, si è compiuta. Stamane, al bar, prenderò un caffè accanto a persone che non sospetteranno minimamente cosa è accaduto. E’ questa la nostra psichiatria? Bilancio di 18 ore di turno : un paziente in chirurgia, una in medicina, una a casa, una ricoverata (poiché senza dimora), una in OBI. Nessuno di quelli che ho visto è uno psicotico tipico e nessuno di quelli che ho visto è un ricovero appropriato. Non so in quale statistica finiranno, in quali dati. Cosa verrà fuori da questa premitura.  Adesso ho solo bisogno di dormire. Di pensare che anche le mie ferie sono vicine. Di pensare solo questo. Solo questo e null’altro.   «Sentinella, a che punto è giunta la notte? Sentinella, a che punto è giunta la notte?». La sentinella risponde: «Vien la mattina, poi anche la notte. Se volete interrogare, interrogate pure; ritornate, venite».

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