PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
di Paolo F. Peloso

Guevara, Morselli: IL MEDICO E LA GUERRA.

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26 novembre, 2017 - 10:06
di Paolo F. Peloso
Abbiamo rievocato il 9 ottobre in occasione del cinquantenario della morte il discorso tenuto da “Che” Guevara ai medici rivoluzionari cubani “Il medico rivoluzionario” (clicca qui per il link). In esso Guevara affronta una serie di questioni importanti, che hanno a che fare con una doppia spinta etica: quella ad essere un buon medico e un buon rivoluzionario. Due cose che, nella sua visione, tendono quasi a coincidere. Una spinta che come medico impegna a servire il paziente, e come rivoluzionario pone al servizio del popolo al quale il paziente appartiene, insieme a tanti altri che potrebbero essere i nostri pazienti domani. Un popolo, però, che qui non è inteso come quello al quale si appartiene di per sé, la patria,  ma come ogni popolo al quale si sceglie di appartenere per servirlo, perché lo si avverte vittima d’ingiustizia e perciò bisognoso della rivoluzione (il popolo di Cuba, del Congo, della Bolivia ecc.).
Ma al fondo del ragionamento di Guevara, tra tante questioni importanti per il medico, una riguarda il suo atteggiamento rispetto alla rivoluzione. Il che mi pare che abbia qualche assonanza  con il problema del dovere del medico rispetto alla guerra patriottica, affrontato da Enrico Morselli nella conferenza “Il dovere dei medici italiani nell’ora presente”, della quale abbiamo ricordato il 12 novembre il centenario (clicca qui per il link).
Anche la conferenza di Morselli  è interessante per il momento particolare: Caporetto. Ora, è chiaro che uno storico potrebbe obiettare che egli sostenne tesi patriottiche anche al di fuori di quel momento. Come è vero che l’Italia si era trovata a difendersi dopo Caporetto perché, prima, era stata lei a dichiarar guerra. Ma ai fini del nostro ragionamento ora non interessano gli affari di Morselli. Ci interessa invece che egli affronti in quella conferenza il problema di quale fosse il dovere dei medici nell’ora presente - cioè non nell’ora che la patria (il gruppo) avanza, vince e conquista (perché allora mi pare evidente che il dovere del medico sia battersi contro la guerra) - ma proprio nell’ora che il fronte crolla e la patria (il gruppo) è in pericolo. Nell’ora che la patria (cioè noi, il nostro gruppo) - che è un concetto che nell’ora in cui invece la patria vince ci pare quanto di più lontano dai valori umanitari e universalistici della medicina - è invasa, sottomessa, conquistata, il che riabilita questa idea in sé nefasta, come può accadere ad esempio nelle lotte di liberazione dei Paesi coloniali (quando “nuestra patria està de duelo…”).
Ed è un’ora, quella della difesa dell’integrità territoriale e dell’indipendenza della patria nel pericolo, che doveva far sentire in quel momento Morselli, a torto o a ragione, in risonanza emotiva con i tanti medici che, nel secolo precedente, avevano partecipato al risorgimento[i], a partire dal suo maestro Carlo Livi che prese parte il 29 maggio 1848 con il Battaglione universitario toscano alla battaglia di Curtatone e Montanara.
In entrambi gli interventi dai quali partiamo, dunque, si sostiene l’esistenza per il medico di un dovere a prendere parte - armandosi direttamente, o ponendosi al servizio di una parte armata come medico; il che dipenderà dalle circostanze - all’interno di uno scontro politico armato. Nel caso di Morselli per mettere al servizio del suo popolo nel momento del pericolo le tecniche di cura delle quali è in possesso e il suo ascendente sul popolo stesso[ii]. In quello di Guevara, oltre che per queste ragioni, perché nella rivoluzione sono in gioco valori fondamentali per la medicina. E in ciò mi pare consista la principale differenza tra le due posizioni, che definirò rispettivamente del medico patriota e del medico rivoluzionario.
Credo che sia stato il fatto di essere incappato in un mese due volte in quest’ordine di questioni - cosa il medico possa/debba fare quando lo scontro politico si fa armato[iii] - mi abbia spinto a pormi la questione in termini più generali: quali sono i possibili atteggiamenti di un medico di fronte alla guerra e alla rivoluzione armata? E quali sono per ciascuna le ragioni che la sostengono, e le contraddizioni? Spero che da quanto ne uscirà non ci si aspetti troppo; è stato solo un ragionare dentro di me per pensieri sparsi e libere associazioni, prendendone appunti. E come tali li propongo a chi avrà voglia di leggerli ed eventualmente commentare.
 
A.     Il medico patriota. Il medico patriota è quello che si pone, come uomo, come medico e come intellettuale, al servizio della propria tra due parti in conflitto, nel momento in cui essa subisce un’ingiustizia o è in pericolo. Egli partecipa (prende parte) alle sofferenze e alle speranze della parte cui appartiene, e lo fa interamente, sacrificando i valori di pace cui lo vincolerebbe l’essere medico alle passioni e ai doveri collegati alla sua appartenenza al gruppo. Non c’è quindi, in questa posizione, un riferimento diretto ai valori della medicina, in quanto i medici che lottavano perché i confini austro-italiani si spostassero nell’una o nell’altra direzione non lo facevano perché credessero che, in quel caso, sarebbero migliorate le condizioni materiali o igieniche di vita di quelle popolazioni, divenendo più favorevoli alla prevenzione delle malattie o che quelle popolazioni potessero godere di una migliore assistenza sanitaria. Il medico, semplicemente, è tenuto per Morselli a servire la propria parte come chiunque altro ad essa appartenga, soprattutto nel momento della disfatta e dello scoramento; ma con qualche responsabilità, e quindi qualche dovere, in più che gli deriva dalle tecniche delle quali ha padronanza e dall’ascendente che da esse gli derivano. Il medico che serve il gruppo ha un duplice nemico: il nemico austriaco, ovviamente, innanzitutto. Ed è combattendo contro di esso che morì Gaetano Perusini, l’eroe degli psichiatri italiani caduto in prima linea nel 1915 mentre tentava di evacuare i feriti a lui affidati da un’infermeria sotto bombardamento[iv]. Ma ha anche un secondo nemico, che può nascondersi nel proprio paziente, il soldato pauroso, fuggiasco, simulatore, antisociale che lui deve contribuire a smascherare, a far punire, a restituire alla guerra. Perché quando il paziente si pone contro la patria, il medico patriota, che si trova di fronte a un dilemma in quanto medico e in quanto patriota, sceglie la parte della patria. Soprattutto se essa è in quel momento in pericolo. Si tratta, come è evidente, di due problemi diversi: può il medico, durante la guerra tra austriaci e italiani, schierarsi con gli uni contro gli altri? E poi, altro problema, può il medico che visita un paziente, pensare prima agli interessi della patria che a quelli del paziente che ha in cura?
B.     Il medico rivoluzionario. La posizione che abbiamo visto espressa da parte di Guevara è per alcuni aspetti analoga a quella di Morselli, perché il medico ha per entrambi il dovere di schierarsi, proprio in quanto tale, nello scontro; un dovere che è tanto maggiore per il prestigio del quale gode. Ma è diversa da essa perché il medico non si batte qui per il proprio gruppo, ma può/deve schierarsi, scegliendo di appartenere a qualsiasi popolo, in difesa di quelli che ritiene valori e interessi universali che hanno diretta attinenza con la medicina. Che consistono, almeno, nella possibilità per tutti di disporre di condizioni igienico-alimentari compatibili con la salute e di accedere a un buon livello di assistenza sanitaria. Perché la lotta alla miseria, e quindi alle disuguaglianze dalle quali essa deriva, è un’attività di prevenzione delle malattia e una condizione preliminare all’accesso per tutti alla cura; a partire dal fatto che, come scrive un altro medico rivoluzionario, Norman Bethune: «il povero muore perché non può permettersi il lusso di vivere». Infinite volte gli studi di epidemiologia gli diedero ragione, dimostrando che anche oggi l'aspettativa di vita nelle classi subalterne è anche di molti anni inferiore a quella nelle classi privilegiate. Ora, che il medico debba schierarsi in politica dalla parte che persegue con maggiore determinazione la lotta alla povertà per tutti finché la lotta non è armata, mi pare fuori discussione e non mi pongo neppure il problema; anche se so bene che molti colleghi non lo fanno e non sarebbero d’accordo con questa asserzione[v]. Ma la questione è più delicata se ci si chiede se il medico può/deve farlo anche nel momento in cui la lotta politica si arma, ed eventualmente anche armandosi lui stesso. In altri termini: il medico può rimanere indifferente quando la politica impone anche a un solo uomo, cittadino o straniero, condizioni materiali e/o morali di vita, lavoro o accesso alle cure in pesante contrasto con la sua salute? Può scotomizzare o considerare ineludibile questo contesto, e limitarsi a svolgere al meglio una funzione tecnica di cura? No, sostiene Guevara. Il medico deve schierarsi con la rivoluzione. E se occorre, indurirsi fino al punto di saper prende le armi, certo senza perdere anche in quel momento per quel che può la propria tenerezza di medico e di uomo. Rifacendosi alla propria esperienza, del resto, Guevara racconta ai colleghi di avere scelto la medicina a partire da una spinta altruistica, che lo ha  portato in un primo tempo a pensare di perseguire lo scopo impegnandosi nella ricerca medica. La scelta rivoluzionaria, avvertita più urgente in un momento successivo - dopo aver preso contatto diretto con le piaghe del continente sudamericano[vi] - ha rappresentato per lui un modo diverso di servire gli stessi valori che avrebbe servito impegnandosi, in modo più diretto, nella lotta contro le malattie: coll’impegno nella lotta contro gli squilibri economici che ne favoriscono la diffusione e ne impediscono la cura. Il medico rivoluzionario può (deve?) quindi, sostiene Guevara, più raramente trovarsi nella necessità di servire il popolo sospendendo la propria attività medica e facendosi temporaneamente soldato; oppure, più spesso, servirlo proprio con la sua attività di medico, ma medico rivoluzionario. E lo farà in questo secondo caso standogli accanto mentre combatte; come fece ad esempio il chirurgo e tisiologo canadese Norman Bethune nei momenti in cui accompagnò, da medico, nella sua affascinante biografia i combattenti della Repubblica in Spagna e della Rivoluzione in Cina[vii]. Oppure, in tempo di pace, prestando comunque la sua opera di cura senza preoccuparsi dell’onorario, cioè di ciò che il popolo può dargli, ma di ciò che lui può dare al popolo.
 
Ma siamo sicuri che, nel corso di una disfatta militare della patria o di una rivoluzione armata, il medico possa/debba schierarsi? Certo, il medico appartiene al proprio gruppo, dice Morselli, ed è chiamato a combattere con gli altri nell’ora del pericolo. Certo, la medicina non è neutrale, dicono Bethune o Guevara, e ha i propri valori: la pace e almeno quel tanto di giustizia sociale necessaria perché nessuno sia esposto alle insidie della fame, delle infezioni, degli incidenti evitabili, della mancanza di cure perché è povero.
Fatto comunque salvo - nell’un caso e nell’altro - il dovere del medico di curare anche il nemico in quanto singolo essere umano, quando se ne presenta la necessità.
Esistono però anche idee diverse in proposito, secondo le quali il medico in un conflitto armato non deve prendere parte; ma limitarsi a curare, chiunque. Come può -  ci si chiede in questo caso - il medico che ha per compito di curare l’uomo e preservare la vita dell’essere umano, che ha per primo dovere quello di non fargli del male, partecipare direttamente o indirettamente ad azioni che abbiano per obiettivo ferirlo nel corpo o nella mente, o anche ucciderlo?
Prenderei in esame questa posizione, opposta alle due precedenti, distinguendo al suo interno un atteggiamento, che proverò a definire di neutralità passiva, con il quale il medico, quando gli altri fanno la guerra o la rivoluzione, offre assistenza a chiunque evitando di prendere qualsiasi tipo di posizione rispetto al contesto e, di fatto quindi, stando a fianco degli eserciti in quanto enti istituzionali per intervenire tempestivamente a rattopparne i danni, senza metterne in discussione l’operato. E quella, che proverò a definire di neutralità attiva, con la quale il medico è sì neutrale tra due parti in conflitto, ma assume una posizione terza che è una posizione politica, col ribadire con l’eloquenza del lavoro di cura e con le parole pubbliche quelli che abbiamo già visto essere i valori generali della medicina, cioè gli stessi per i quali il medico rivoluzionario si schiera.
 
C.     Il medico in posizione di neutralità passiva. Il medico che si muove in questa posizione è un medico che assiste, che cura l’uomo ferito o malato, e non ha occhi né orecchie per il contesto in cui opera, o per quelli che possono essere gli effetti indiretti del proprio lavoro. Quando nel 1863 il filantropo svizzero Jean Henry Dunant (1828-1910) fondò la Croce rossa, fondò un’organizzazione finalizzata allo scopo di fornire assistenza al ferito; un’organizzazione sanitaria che non combatte e non prende parte neppure nella discussione se sia giusta o meno quella guerra, o se sia giusta la disuguaglianza o la povertà. Non mette in discussione le decisioni dei politici e l’operato dei militari; ma si limita a ripararne i danni. Ed è una posizione, questa, che presenta un indubbio  vantaggio: perché, stando in una posizione di assoluta neutralità della quale non si discute, il medico potrà ben pretendere che nessuno dei contendenti “spari sulla Croce rossa”, al punto che questo è diventato un modo di dire. Ma presenta anche alcuni rischi. Il primo, che il fatto di non assumere una posizione, neppure rispetto a chi decide la guerra, alla quale - sia pure in una posizione inoffensiva - il medico prende comunque parte, la sua azione si presti a essere equivocata come un implicito avallo della guerra. E ponga in questo caso il medico in una posizione ambigua, simile forse a quella del cappellano militare. Cioè di chi non è in guerra; ma è comunque dentro la guerra e la sua logica. Il secondo rischio è quello che, stando presso l’esercito, il sanitario possa rischiare di subirne una certa fascinazione sul piano dei modelli organizzativi, culturali, estetici[viii]. Il terzo, è che mi pare che, mentre questo modello funziona quando lo scontro riguarda organizzazioni formali, regolari (Stati, eserciti) per le quali è stato pensato, esso entra in crisi quando la contrapposizione coinvolge organizzazioni informali, sia nel caso della vera e propria guerriglia che in quello di moltitudini antagoniste disarmate in situazioni di alta tensione sociale[ix]. Con il rischio che in scontri di questo genere soltanto una delle due parti (quella regolare) possa contare su un’assistenza sanitaria adeguata, mentre gli appartenenti alle organizzazioni informali possono accedervi soltanto consegnandosi al nemico. 
D.     Il medico in posizione di neutralità attiva. In questo caso il medico non prende posizione con nessuno dei due schieramenti, e può quindi a buon titolo pretendere da entrambi il rispetto dovuto a chi è neutrale, lo stesso di cui gode la Croce rossa. Egli non prende parte, impegnandosi con chi sostiene i valori della medicina nello scontro, come fa il medico rivoluzionario. Tuttavia testimonia quei valori, sia implicitamente attraverso il proprio operato che esplicitamente attraverso la propaganda in favore della pace e della lotta all’ingiustizia e alla povertà. E’ questa, mi pare, la posizione nella quale alcune ONG sanitarie, mi vengono Emergency di Gino Strada o Médécins sens frontières, forse oggi si muovono. Anche questa posizione, però non è esente da rischi,  perché mantenere la neutralità è più facile quando si avvertono entrambe le parti distanti dai valori della medicina o della giustizia, mentre è più difficile via via che i valori  di una delle due parti tendono a coincidere con i propri (libertà e autonomia dei popoli, lotta alla povertà e alle disuguaglianze). La posizione di neutralità attiva corre perciò più rischi di apparire ambigua e sospetta agli occhi di una delle due parti, o addirittura di entrambe, rispetto a quella precedente. E allora rischierà di essere confusa con quella del medico rivoluzionario; o di essere più esposta, rispetto a quella di neutralità passiva, al sospetto di andare a coincidere con quella, che vedremo, del medico in posizione scissa[x].  

 

Schematizzando certo molto, si potrebbero, mi pare, riassumere le quattro posizioni finora delineate nella seguente tabella:

 
                                                                              Prende parte allo scontro          Lotta per le condizioni
                                                                                                                              preliminari della salute
Patriota                                                                          SI                                                    NO
Rivoluzionario                                                                SI                                                    SI   
Neutralità passiva                                                         NO                                                  NO
Neutralità attiva                                                             NO                                                  SI
 

Esiste poi, mi pare, ancora una quinta possibilità da considerare, quella che proverò a definire come posizione scissa, per la quale il medico partecipa sì in quanto uomo allo scontro schierandosi, per lo più clandestinamente, da una delle due parti; ma continua a svolgere separatamente, in quanto medico, la sua attività clinica cercando di tenere, almeno in linea di principio, le due cose separate.
  
E.      Il medico in posizione scissa. Quest’ultima posizione è più complessa delle precedenti, perché prevede appunto una scissione tra ciò che il medico fa in quanto uomo (schierarsi) e ciò che fa in quanto medico (curare, indifferente allo scontro in atto). Mi viene a questo proposito in mente la posizione, che abbiamo già avuto modo di ricordare, di Giovanni Mercurio, psichiatra nell’ospedale di Voghera e medico delle bande partigiane, e partigiano egli stesso, in montagna[xi]. O quella di Ottorino Balduzzi, il neuropsichiatra operante a Genova che diede vita a un’organizzazione clandestina per stabilire contatti tra la Resistenza e gli Alleati, ma parallelamente conduceva la sua normale attività clinica all’ospedale di San Martino. Catturato e deportato in Germania, fu per una vicenda rocambolesca trasferito dal lager a un ospedale per soldati tedeschi con trauma cranico a Lintz; ma secondo alcune testimonianze di nuovo curava, da una parte, in ospedale i soldati nemici ma, parallelamente, tramava per stabilire contatti tra la Resistenza austriaca e l’organizzazione clandestina degli internati italiani di Mauthausen. Un altro esempio che viene alla mente è quello di Frantz Fanon, il quale praticava la psichiatria al manicomio di Blidah, curando francesi e algerini, e contemporaneamente militava nell’FLN. Finché, però, non riuscì più a reggere la contraddizione di questa posizione e giunse alla conclusione che  in determinate condizioni, come quella coloniale, la medicina non può essere praticata (o almeno non può esserlo quella disciplina medica che più strettamente ha a che fare con l’identità e con la libertà dell’uomo, la psichiatria[xii]). Poté così proseguire la sua attività scissa, ma in una situazione meno contraddittoria: quella della Tunisia libera. E’ implicito comunque in questa quinta posizione - mi pare evidente - un equilibrio sempre instabile, perché l’uomo e il medico sono inevitabilmente la stessa persona. Che condivide in quanto uomo con le posizioni A e B l’idea di doversi schierare; e in quanto medico con le posizioni C e D quella di mantenersi, neutrale. Con il rischio però che è possibile che in questi casi l’attività clinica - per quanto svolta al meglio chiunque sia il paziente - abbia o assuma anche una, più o meno inevitabile, funzione di copertura per quella militare, e il rapporto tra le due si faccia così ambiguo. O che spesso una netta separazione non tiene, e il medico finisce per essere invaso dall’uomo; così, il reparto di Balduzzi a San Martino non è un normale reparto di neurochirurgia, perché vi sono nascosti - come in tanti altri reparti di ospedale o manicomio in quegli anni - ebrei e renitenti alla leva fascista, e pare che nel manicomio di Blidah, quando c’era Fanon, fossero nascosti uomini e attività dell’FLN. Così ancora De Almeida Prado, un medico di fiction protagonista del film allegato, salva nell’ambito della pratica clinica ordinaria che porta avanti, in emergenza, il Boia di Lisbona; ma l’onorario che poi gli presenta non è quello del medico, ma quello del nemico che chiede in cambio copertura e complicità. La posizione scissa, infine, non è priva di possibili aspetti paradossali, perché ad esempio Balduzzi avrebbe potuto trovarsi a curare, in quanto medico, nel soldato tedesco ferite che gli avevano procurato proprio le armi alleate che, in quanto militante, lui stesso aveva procacciato ai partigiani. Ed è una posizione comunque sempre in bilico, sempre in procinto di scivolare, in base alle esigenze e le circostanze, in quella del medico patriota o rivoluzionario.   
 
Partendo dalla conferenza di Morselli del 1917 e dal discorso di Guevara del 1960, e accostandoli in modo spero non troppo arbitrario, mi pare di aver provato - dunque - a delineare cinque possibili posizioni del medico in un  conflitto armato, e credo che ciascuna di esse abbia buone ragioni a suo conforto. E anzi, i colleghi impegnati in ognuna siano degni di rispetto e ammirazione perché mi pare che ciascuna abbia le proprie ragioni, corra i propri rischi e mostri maggiore attenzione per l’uno o l’altro dei valori della medicina e, io credo, di ogni professione sanitaria.
 
In allegato il collegamento al film: “Treno di notte per Lisbona” di Bille August (2013) che narra la vicenda del medico Amadeu Inácio De Almeida Prado tratta dal romanzo omonimo scritto nel 2004 dal filosofo svizzero Pascal Mercier (Peter Bieri) 
 

[i] L’idea della conquista di Trento e Trieste come epilogo necessario del risorgimento era del resto uno dei temi sui quali più martellava la propaganda bellica italiana.  
[ii] Al contrario, sulle responsabilità dell’intellettuale nell’orientare l’opinione pubblica in tempo di guerra verso una consapevolezza delle ragioni del nemico, cfr. invece la delusione  espressa da Freud in Caducità (1915).
[iii] Si potrebbe obiettare che, anche in situazioni di pace, la politica non è mai del tutto esente da violenza perché, come scrisse tra i primi il giurista latino del II secolo Sesto Pomponio citato a questo proposito nel Digesto dell’imperatore Giustiniano, il terrore - cioè un certo esercizio, o almeno una certa minaccia, della violenza - è lo strumento che consente allo Stato di farsi rispettare dai cittadini incutendo loro una “paura salutare”, e l’esercizio del terrore è perciò un diritto monopolistico dello Stato. Sul tema ricordo anche il Freud della lettera ad Einstein del 1932 che, con riferimento evidentemente alle democrazie, scrive: «Il diritto è la potenza di una comunità. È ancora sempre violenza, pronta a volgersi contro chiunque le si opponga, opera con gli stessi mezzi, persegue gli stessi scopi; la differenza risiede in realtà solo nel fatto che non è più la violenza di un singolo a trionfare, ma quella della comunità». Tralascerò tuttavia quest’ordine di considerazioni consapevole di introdurre, così facendo, un vulnus nel nostro ragionamento, perché mi pare che diversamente esso diverrebbe troppo complicato. Lascio quindi al lettore valutare quanto sia lecito al medico appiattire - anche in tempo di quella che chiamiamo impropriamente “pace” - la propria posizione su quella dello Stato monopolista della violenza in quanto interprete, più o meno legittimo e democratico a seconda dei casi, della collettività, a detrimento della sua relazione sempre privata ed esclusiva con il paziente. Ed è un problema che si fa particolarmente stringente negli stati tirannici, ma può accentuarsi episodicamente anche solo in occasioni di particolare tensione sociale (vedi oltre a proposito dell’assistenza sanitaria ai manifestanti contro il G8 del 2001).
[iv] Su Gaetano Perusini cfr. in questa rubrica qualche considerazione in: 1915-18. I VINCITORI E I VINTI (clicca qui per il link).
[v] Come esempio tra tanti della prosecuzione dell’attività di cura del medico nella sua attività politica, mi fa piacere ricordare quanto scriveva lo psichiatra Andrea Verga (1811-1895) a proposito del voto suo e dei colleghi in Senato col quale veniva abrogata nel 1888 la pena di morte: «Non è da dubitare che quanti medici conta il Senato italiano, sapendo per prova quanto di rado si riesca a salvare una vita, avranno voluto ad ogni costo trovarsi in Roma il giorno della solenne votazione, felici di sottrarre migliaia di uomini alla morte con la sola deposizione di un voto».
[vi] E’ una evoluzione, questa, parallela mi pare a quella - nell’ambito della psichiatria e certo all’interno di una dialettica democratica e pacifica - di Franco Basaglia quando, in seguito alla rinuncia alla ricerca medica all’Università di Padova, impatta nella miseria materiale e morale degli internati in manicomio e, a partire da ciò, individua nella chiusura l’obiettivo cui puntare prioritariamente, per poter poi - una volta che siano garantite all’internato le condizioni materiali e morali dello status di persona, affrontare la malattia che, in quella prima fase, era stata “messa tra parentesi”. E sul punto rinvio tra l’altro in questa rivista, oltre che agli articoli di questa rubrica dedicati a CORPO E ISTITUZIONE (clicca qui per il link) e CHE COS’E’ LA PSICHIATRIA?  (clicca qui per il link), alla  registrazione di un dialogo tra Basaglia e Orsini a un anno dalla 180 (clicca qui per il link).
[vii] Sull’affascinante biografia del noto chirurgo e tisiologo canadese e la sua maturazione politica cfr.: S. Gordon, T. Allan, Il bisturi e la spada. La storia del dottor Bethune, Milano, Feltrinelli, 1959 (per un breve profilo su Wikipedia clicca qui per il link).
[viii] Mi paiono eloquenti, riguardo al rischio di collateralità tra Croce rossa, potere politico e potere militare le didascalie che accompagnano sul sito della CRI la documentazione fotografica della manifestazione svoltasi quest’ultimo 4 novembre al santuario di Redipuglia: «In occasione della ricorrenza del Giorno dell’Unità Nazionale e giornata delle Forze Armate, lo scorso 4 Novembre, si è svolta nel Sacrario Militare di Redipuglia (Gorizia) una solenne cerimonia per ricordare i Caduti della Grande Guerra alla presenza del Presidente del Senato, della Presidente della regione Friuli Venezia Giulia e del capo di Stato Maggiore dell’Esercito, oltre a numerose autorità civili, militari e religiose e a un modesto pubblico. A rendere omaggio ai Caduti una brigata di formazione interforze, una rappresentanza delle Infermiere Volontarie della Croce Rossa Italiana dei comitati del Friuli, dell’Abruzzo e del Molise, del Corpo Militare Volontario della Croce Rossa del FVG e Veneto e due postazioni mediche su ambulanza fornite dai Comitati CRI di Gorizia e Monfalcone». Tutti sull’attenti, perciò, autorità politiche, generali, soldati, medici e infermiere: chi rappresenta coloro che hanno sparato, e chi coloro che hanno cercato di salvare vite umane.
[ix] Il piccolo ma prezioso volume Obbligo di referto (Genova, Fratelli Frilli, 2001) documenta l’impossibilità, di fatto, di porre in una posizione di terzietà, neutralità e salvaguardia rispetto all’azione delle forze dell’ordine e delle varie anime dei manifestanti l’apparato sanitario - cioè l’insieme della normale organizzazione sanitaria della città che quella spontaneamente posta in essere dal movimento durante i giorni della contestazione al G8 - e il tema è stato ripreso in questa rubrica in occasione del XV anniversario dei fatti: CORPOREITA’ E SPAZIALITA’ DEI DISPOSITIVI DISCIPLINARI IN OCCASIONE DEL G8 GENOVESE. 15 YEARS LATER (in particolare: parte II, paragrafo II, clicca qui per il link).
[x] Ho in mente, in particolare, le discussioni e i sospetti rispettivamente di collusioni con l’altra parte e di violazione della legge dei quali l’azione di queste due ONG è stata fatta rispettivamente oggetto nel corso di alcune fasi della guerra afghana e della fasi più recenti della crisi dei migranti (su quest’ultimo punto cfr. in questa rubrica: POLITICHE MIGRATORIE. PREOCCUPAZIONI PER LA SVOLTA ESTIVA, cliccando qui per il link). Per i problemi relativi alla sclta tra neutralità e denuncia da parte di un medico di MSF e della stessa organizzazione durante il genocidio ruandese penso invece a G. Flego, Un milione di vite, Milano, Terre di mezzo, 2015, per il quale clicca qui per il link alla recensione su pol. it). 
[xi] Cfr. in questa rubrica: 25 APRILE 2016. Un pensiero al sacrificio di Giovanni Mercurio (clicca qui per il link).
[xii] F. Fanon, Lettera al ministro residente, in: Scritti politici, vol. I, Per la rivoluzione africana, Roma, DeriveApprodi, 2006, pp. 63-65. E qui potrebbe iniziare una serie di considerazioni, come quelle che portarono Basaglia a fare riferimento alla lettera di dimissioni di Fanon da Blidah quando lasciò l’ospedale di Gorizia, a proposito dell’incompatibilità della psichiatria non solo con l’oppressione coloniale, ma anche con l’oppressione asilare dell’essere umano. Perché, in effetti, per la psichiatria (che altro non è che una dimensione, un aspetto della medicina), non sono soltanto le condizioni materiali di squilibrio sociale che generano povertà per alcuni a contrastare coi valori della medicina, ma anche quelle nelle quali sono più compromesse la libertà e la dignità. Ma in queste questioni, che rischierebbero di confondere la posizione patriottica e quella rivoluzionaria rispetto a come schematicamente le abbiamo qui separate, sarebbe troppo complesso addentrarci in questo momento.

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