CUORE DI TENEBRA
Viaggio al termine della psichiatria
NOI, PSICHIATRI DEL NOVECENTO: GLI ULTIMI CLOWN
23 aprile, 2018 - 08:10
Una traversata sul filo è una metafora della vita:
c’è un inizio, una fine, un progresso, e se si fa un passo di lato, si muore.
Il funambolo avvicina le cose destinate a restare lontane,
è la sua dimensione mistica.
Philippe Petit
Colui che viene da un altro luogo,
il maestro di un passaggio misterioso,
il contrabbandiere che supera le frontiere proibite.
Jean Starobinski
Noi boccheggiamo, tra la voglia di respirare e la paura di annegare; siamo equilibristi con le vertigini,
con lo smodato desiderio di percorrere l’abisso e al contempo la necessità di tornare a terra, al sicuro
Raffaella Serra
Tutti sanno che un clown dev’essere malinconico per essere un buon clown,
ma che per lui la malinconia sia una faccenda seria da morire,
fin lí non arrivano.
Heinrich Boll
In Ilaritate tristis, in tristitia ilaris
Giordano Bruno
c’è un inizio, una fine, un progresso, e se si fa un passo di lato, si muore.
Il funambolo avvicina le cose destinate a restare lontane,
è la sua dimensione mistica.
Philippe Petit
Colui che viene da un altro luogo,
il maestro di un passaggio misterioso,
il contrabbandiere che supera le frontiere proibite.
Jean Starobinski
Noi boccheggiamo, tra la voglia di respirare e la paura di annegare; siamo equilibristi con le vertigini,
con lo smodato desiderio di percorrere l’abisso e al contempo la necessità di tornare a terra, al sicuro
Raffaella Serra
Tutti sanno che un clown dev’essere malinconico per essere un buon clown,
ma che per lui la malinconia sia una faccenda seria da morire,
fin lí non arrivano.
Heinrich Boll
In Ilaritate tristis, in tristitia ilaris
Giordano Bruno
Alla memoria di Tonino D’Errico (1934-1995), che della Psichiatria del Novecento è stato uno degli ultimi e più discreti maestri ; a Tonino D’Errico che, del teatrino della Clinica universitaria in cui mi sono formato, è stato, senza ombra di dubbio, l’ultimo clown. Alla sua corte dei miracoli, tra personaggi improbabili, in anni incredibilmente belli e ineluttabilmente perduti, ho incontrato tutto il senso umano, ironico e tragico, dell’essere psichiatra.
Ai quarantanni della Legge “180”, che ci ha liberati dai nostri tetri teatri, gettandoci, a volte senza arte né parte, insieme ai nostri pazienti, sul palcoscenico del mondo.
Ore due della notte. Una notte di Aprile.
Il cicalino del cordless scuote il sonno leggero. Mi ero da poco appoggiato. Ho un reparto esplosivo di anime irrequiete, insonni e vaganti. E’ l’internista del PS che mi chiede di andare a dare un’occhiata ad un uomo, il quale avverte un malessere generale, vago, persistente ed acuto. Dagli esami effettuati non risulta nulla, obiettività negativa. Dunque: consulenza psichiatrica. Ad un’occhiata dalla finestra il buio è terso. La notte stellata. Metto la felpa, recupero la penna, il timbro, le chiavi, gli occhiali. Mi tiro la zip fino al mento ed esco, stringendo il colletto nelle spalle. Forse un automatismo invernale. Forse un modo per sentirmi più protetto. Non avverto gli infermieri. Vado da solo. Hanno abbastanza da fare dentro. L’aria primaverile subito mi avvolge e mi accarezza. E’ fresca. Dalla costa sale un intenso profumo di camelie. Attraverso tutto lo spazio esterno, tra i pini, cerco, senza trovarlo, lo sguardo dei gatti, poi, dalla porticina del retro, mi introduco nella pancia del Moloch. L’ospedale, i rumori, le luci, i corridoi, le pareti, l’odore. Ed eccomi, dopo poco, nel PS. Solito personale indaffarato, che corre senza vederti, barelle, volti sofferenti, abbandonati al destino. Le stanze dei codici di colore. I triagisti in overbooking. Tutto molto americano. Senza l’America. Compresa la guardia giurata. Passo in rassegna le stanze, codice rosso, codice giallo. Mi affaccio al codice verde e un’infermiera intenta ad un malato sulla lettiga mi presenta al collega nuovo del PS che mi aveva chiamato, il titolare del caso: “E’ lo psichiatra, dottore”. Il collega si rallegra, mi invita subito a vedere il paziente. “Dov’è finito il paziente?”. Dà disposizioni di cercarlo. Poi, nel corridoio, dopo qualche secondo, un’altra infermiera si materializza seguita da un uomo di mezza età, con i capelli bianchi, diafani, che si muove mesto. Veniamo presentati, ci diamo la mano. Ad occhio mi sembra più giovane della sua canizie. Poi l’infermiera mi chiede dove vogliamo parlare. “Dovunque ci sia un po’ di tranquillità”, rispondo. “Allora andiamo nell’isolamento!”. Ci guida in fondo, nella stanza-isolamento degli infettivi. Mi ricordo che Foucault, nel suo testo classico sulla Storia della Follia, scrisse che i primi manicomi presero lo spazio dei lazzaretti lasciati deserti dagli appestati e dai lebbrosi. In Italia ho trovato anche alcuni SerT che erano allocati in ex sanatori tubercolari. Entro per primo. Ci sono due lettighe affiancate, con poco spazio che le separa. Sopra ci sono lenzuola bianche e verdi stropicciate, che hanno l’aria di sudari, abbandonati da lunghe agonie. Ma qui non si va per il sottile, siamo nell’ultima trincea della Sanità Pubblica, già fare il colloquio non nel corridorio in piedi è grasso che cola. Invito il mio interlocutore a prendere posto davanti a me. Ci accomodiamo, l’uno di fronte all’altro, ridicolmente semiseduti sul trespolo delle barelle. L’infermiera va via. Rimaniamo soli. Potrebbe essere la scena di apertura di una piece teatrale. Ci guardiamo, in silenzio. Sul petto, a sinistra, della mia felpa blu, sta cucita la scritta: nome, cognome, medico psichiatra, reparto SPDC. L’uomo la legge. Poi abbassa lo sguardo, sento che i suoi gli occhi si riempiono di lacrime. Io taccio. Le sue prime parole, quelle che rompono il silenzio, sono: “Ho perso mia figlia. Aveva ventanni. Un cancro al cervello. Non mi rassegno. E’ un dolore infinito. Lei è uno psichiatra. Mi dica, per favore, che non sto impazzendo. Questo dolore che mi strazia voglio sentirlo da lucido, fino alla fine. E’ il dolore di mia figlia. E’ solo in questo dolore tremendo che io la sento ancora vivere. Ma non ce la faccio più a sostenerlo” I rumori, adesso, sono lontani. Il contesto sfuma i suoi contorni. Siamo nel cuore della notte. Ma la primavera è svanita. Ci sono solo due uomini, soli, seduti approssimativamente e precariamente l’uno di fronte all’altro. Lo spazio tra le loro ginocchia, per quanto esiguo, è un abisso invalicabile. Impossibile toccarsi, impossibile consentire. Da un lato una felpa, una scritta, una formazione, un timbro, una penna, un uomo, un medico, dentro panni molto scomodi, molto inadeguati. Dall’altra parte una vita, che non vuole lasciare alla morte il passo. Un padre che piange la sua bambina perduta. Che non vuole perderla. Che pensa di seguirla, di precipitare con lei avvinto nella morte. Vorrei abbracciarlo. Ma non lo faccio. Sono impietrito. Ci diamo del lei. Non c’è confidenza tra di noi. E poi, chi sono io per abbracciarlo. Io, che non posso neanche lontanamente capire un dolore come il suo. Ecco, stavolta c’era questo dietro il cicalino del telefono. Ecco cosa ti aspetta dietro lo spigolo di una notte tepida, primaverile, che prelude alla bella stagione, con l’aria profumata di camelie. “Come si chiamava la sua bambina?” E’ l’unica cosa che riesco a dirgli. “Rossella….era straordinaria, piena di vita. Come è potuto accadere..” Di fronte ad un dolore senza nome mi domando come mai quest’uomo, quest’uomo che sta qui, adesso, davanti a me, non ha nessuno con cui piangere? Quale pensiero gli ha attraversato la mente stanotte? Perché è venuto qui, portando un allarme del corpo? Perché non ha detto subito all’internista il lutto che lo stava divorando? E’ possibile che tra una tragica morte ante diem, ed il grottesco colloquio con uno psichiatra di guardia alle due di notte nella stanza infettivi di un PS, questa società non abbia più nulla in mezzo? Nulla più. Confessioni religiose, partiti, amici, parenti, niente. Che fine ha fatto il mondo? Dove è finito il mondo? Dolore intollerabile, reazione somatica, obiettività negativa, colloquio con lo psichiatra. Ed io, che ho davanti questo dolore, mi sento come un funambolo che deve provare a raggiungere una sponda lontana, cavalcando un abisso. Una sponda dove c’è qualcuno, un uomo, che sta chiedendo qualcosa, senza però chiedere nulla. Che si trattiene aggrappato alla vita solo per esperire un dolore infinito. Che faccio con quest’uomo? Che faccio di quest’uomo. Gli prescrivo dei farmaci? A che servono? Con quale diagnosi? Lo ricovero? A che pro? In SPDC? Lo rimando a casa? Io lo sento che se stanotte è qui, è perché, affacciandosi, ha guardato lo strapiombo, non la notte di primavera. Poi si è sentito male. E poi si è portato in PS: qui ha incontrato me. La sua corsa finisce davanti a me. In quel calderone NAS per cui i colleghi del PS chiamano la consulenza psichiatrica. Se rimando a casa quest’uomo, ed egli si uccide, stanotte, io sono l’ultimo uomo che lo ha incontrato. Colui che se non lo avesse rimandato a casa gli avrebbe salvato la vita. Almeno per stanotte. Se lo ricovero, in un reparto di matti, rischio di fare del suo dolore umano, troppo umano, di un dolore che questa società intera non tollera più, un caso psichiatrico. Che faccio?
Questa apertura traccia i termini della rappresentazione che sta per avere luogo : il mondo moderno come la grande arena di un circo, la vicenda della psichiatria come una vicenda funambolica che attraversa la modernità a tutto campo, il medico psichiatra costretto, suo malgrado, ad essere una sorta di saltimbanco che tenta il suo difficile equilibrio, ma anche le sue manovre acrobatiche su di una fune che pare corta, e assai contorta. In qualche tratto, addirittura spezzata.
***
Il 7 agosto 1974 il funambolo francese Philippe Petit compì la sua impresa più famosa e spettacolare: passò da una torre all’altra del World Trade Center di New York (quelle distrutte negli attacchi dell’11 settembre 2001) camminando su un cavo sospeso a più di 400 metri di altezza. Lasciandosi indietro la sponda ferma, e andando incontro ad un ignoto destino, la sua figura di funambolo tra le nuvole incarna quello che, secondo Walter Benjamin, rappresenta l’ Angelus novus di Paul Klee. Il suo stato d’animo, in quell’istante, era pervaso dal lutto per la vita che forse stava per lasciare, e dalla gioia di compiere, per primo, un’impresa unica al mondo. Quest’ idea, apparentemente paradossale, della felicità malinconica e della gioiosa malinconia, ha a che fare molto con l’angelo di Klee, che si allontana proprio da qualcosa su cui fissa lo sguardo. E’ l’angelo della storia, con il volto rivolto al passato e le ali attratte dal vortice del futuro. Dietro il funambolo non c’è più nulla. Tornare indietro non è possibile. E andare avanti è andare verso l’ignoto. Mentre la catastrofe cancella tutto dietro di lui lasciando un cumulo di rovine, una tempesta vorticosa, ovvero ciò che noi chiamiamo progresso, lo spinge irresistibilmente al futuro. Come ha scritto Nietzsche : la lancetta si muove, la tragedia comincia. A proposito di questo modo ambiguo di essere nella tristezza e nella gioia voglio anche ricordare le parole che furono scritte sul Corriere della Sera da Giovanni Grazzini per la morte (1977) di un altro clown, un clown vero, questa volta, forse il più grande clown del Novecento, il clown per antonomasia, Charlie Chaplin : “Aveva, nel sorriso il pianto del mondo e nelle lacrime delle cose faceva brillare la gioia della vita”.
***
L’arco di cerchio della psichiatria è breve : nata nella seconda metà del Settecento, consolidatasi nell’Ottocento, entrata in crisi profonda ed irreversibile nel Novecento. Come a dire un paradosso : un’esistenza così breve, da poterne avere presente la storia in un colpo d’occhio, eppure già terminale, quella della psichiatria, una sorta comica e tragica parabola agonica. Noi, psichiatri del Novecento, chi siamo, se non esseri-sempre-in-bilico, curatori fallimentari di esistenze che rovinano, esperti della precarietà, quelli convocati nell’ora senza lancette. Noi, che lavoriamo con le mani nude, medici senza macchine e senza strumenti, lettori della mente senza tracciati, catastorie. Si delineano, anche se in modo ancora confuso, i molti termini di questo cavo breve e contorto su cui ogni psichiatra, dopo il Novecento, si trova in bilico : mente e corpo, ambiente e genoma, cervello e psiche, natura e cultura. Funamboli, su questa corda instabile, funamboli su questa posizione intenibile ora, che lo vogliamo o no, noi lo siamo tutti. La psichiatria con il Novecento, che lo voglia o no, ha perso la durezza tipica della scienza alienistica dell’età classica. La psichiatria, con il Novecento, si è profilata come scienza debole o scienza complessa. Perduta la sponda dell’organicismo positivistico e senza approdare alla terra promessa dalle neuroscienze, alla psichiatria e agli psichiatri sono rimasti tutti gli adulteri possibili e immaginabili : la psicologia, la filosofia, la letteratura, il teatro, il cinema, la politica, la meditazione zen, le droghe. A chi, come me, ha la prospettiva della storia, l’enfasi attuale sulla neurobiologia e sulle neuroscienze appare chiaramente come una deriva del mercato, piuttosto estrinseca, quindi, alla capriola storica della psichiatria. L’illusione di coda di poter costruire una psichiatria biologica prende facilmente spazio nel vuoto lasciato da tutte le idee e le prassi che la psichiatria del Secondo Novecento ha incenerito, dopo averne assaggiato, nel rogo, la forza palingenetica e fusionale. Siamo gli ultimogeniti del Novecento. Siamo noi, psichiatri circolanti, gli ultimi figli del secolo breve. Per avere i primi psichiatri millennials dovremo aspettare il 2029.
Chi è, allora, lo psichiatra del Novecento o, meglio, quale tipologia di psichiatra sopravvive al Novecento, cosa residua, nello psichiatra e dello psichiatra dopo il Novecento ? Lo psichiatra del Novecento continua a configurarsi come un laureato in medicina iscritto all’albo professionale dei medici chirurghi, ma, di fatto, egli è un medico, senza più la clinica; un terapeuta, senza più la magia religiosa dello sciamano; un umanista di fatto, perché è costretto a muoversi in un universo segnico ad alta espressività antropica, senza però la cultura dei filosofi e dei letterati. Un camaleonte di metodi, un eterno debuttante, un improvvisatore, uno che, nella migliore delle ipotesi, suona bene ad orecchio, un buon intrattenitore, un attore che recita a soggetto, uno che parla di tutto senza sapere nulla, a volte un illusionista, a volte un uomo d’ordine, a volte uno che scandalizza. Quando mancano le basi precise dell’etiopatogenesi, della fisiopatologia, dell’anatomia, dell’istologia, della neurochimica tutto può essere possibile.
Il nostro dramma attuale è che abbiamo accettato, come i vari Romoli Augustoli che occupano oggi le cattedre delle nostre università, la parte seria degli uomini di scienza prima ancora di averne tutti i titoli e le carte. Abbiamo fondato un sapere positivo, ovvero ratificato un sistema di credenze, su un’ipotesi non ancora verificata. E’ questo, in fondo, l’errore grave dei paranoici. Il nostro dramma è che al cospetto della follia la società civile e gli uomini di cultura non vogliono sapere ragioni: nessuno ci solleverà dall’incarico. Le dimissioni non sono più ammesse. La brace ardente, ormai, è stata passata. La consegna finale è quella di arrangiarsi.
Penso, mentre dico queste cose, al dramma di ogni giovane psichiatra o specializzando quando dovrà spiegare ai parenti che cosa sta accadendo al paziente che ha un esordio psicotico che egli sta, tra l’altro, in qualche modo curando. Su quali e su quanti specchi si arrampicherà il suo discorso ? Non ha un tracciato da mostrare, non ha una lastra, un’eco, non ha un solo valore ematochimico alterato. Eppure è un medico. Può solo intrattenere, giocare la sua partita solitaria senza lo spalleggiamento di nessun sapere. Questa, nella costellazione contemporanea, è una posizione che rasenta, se non l’arte, l’artigianalità, se non le acrobazie dei trapezisti, la temerarietà e l’impreparazione di un saltimbanco da strada.
Chi è, allora, lo psichiatra del Novecento o, meglio, quale tipologia di psichiatra sopravvive al Novecento, cosa residua, nello psichiatra e dello psichiatra dopo il Novecento ? Lo psichiatra del Novecento continua a configurarsi come un laureato in medicina iscritto all’albo professionale dei medici chirurghi, ma, di fatto, egli è un medico, senza più la clinica; un terapeuta, senza più la magia religiosa dello sciamano; un umanista di fatto, perché è costretto a muoversi in un universo segnico ad alta espressività antropica, senza però la cultura dei filosofi e dei letterati. Un camaleonte di metodi, un eterno debuttante, un improvvisatore, uno che, nella migliore delle ipotesi, suona bene ad orecchio, un buon intrattenitore, un attore che recita a soggetto, uno che parla di tutto senza sapere nulla, a volte un illusionista, a volte un uomo d’ordine, a volte uno che scandalizza. Quando mancano le basi precise dell’etiopatogenesi, della fisiopatologia, dell’anatomia, dell’istologia, della neurochimica tutto può essere possibile.
Il nostro dramma attuale è che abbiamo accettato, come i vari Romoli Augustoli che occupano oggi le cattedre delle nostre università, la parte seria degli uomini di scienza prima ancora di averne tutti i titoli e le carte. Abbiamo fondato un sapere positivo, ovvero ratificato un sistema di credenze, su un’ipotesi non ancora verificata. E’ questo, in fondo, l’errore grave dei paranoici. Il nostro dramma è che al cospetto della follia la società civile e gli uomini di cultura non vogliono sapere ragioni: nessuno ci solleverà dall’incarico. Le dimissioni non sono più ammesse. La brace ardente, ormai, è stata passata. La consegna finale è quella di arrangiarsi.
Penso, mentre dico queste cose, al dramma di ogni giovane psichiatra o specializzando quando dovrà spiegare ai parenti che cosa sta accadendo al paziente che ha un esordio psicotico che egli sta, tra l’altro, in qualche modo curando. Su quali e su quanti specchi si arrampicherà il suo discorso ? Non ha un tracciato da mostrare, non ha una lastra, un’eco, non ha un solo valore ematochimico alterato. Eppure è un medico. Può solo intrattenere, giocare la sua partita solitaria senza lo spalleggiamento di nessun sapere. Questa, nella costellazione contemporanea, è una posizione che rasenta, se non l’arte, l’artigianalità, se non le acrobazie dei trapezisti, la temerarietà e l’impreparazione di un saltimbanco da strada.
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Prima ho tracciato i punti di attacco della fune su cui corre questo equilibrista: l’irriducibilità epistemica e dualistica della mente e del corpo; ora però cerco di definire il funambolo stesso, e con estrema difficoltà. Sto iniziando a delineare, dunque, non solo un ente senza una propria e ben connotata identità, ma anche senza nessuna concreta possibilità di trovarla. Qui la sua croce e la sua delizia. Il sentore di un bluff è l’impressione che connota tutto ciò che ha a che vedere con la psichiatria. Un sorta di buffonata vestita di tragedia. Una cosa che poi, tuttavia, nell’immenso circo del mondo finisce per avere quasi una sua dignità esistenziale. Questo solo, forse, ci può ancora salvare. Il fatto che quest’uomo, di notte, trova solo me per il suo dolore, è un dato che rende ormai la mia presenza indispensabile. Io sto di guardia in luogo delle parole che nessuno sa più dire e ascoltare, delle emozioni che marciscono a stare dentro, dei gesti che non sono più leggibili da nessun codice culturale. Di fatto, a dispetto della mole di letteratura che si è accumulata sull’identità dello psichiatra noi psichiatri del Novecento, figli e orfani di un Secolo che non c’è più, poco importa ormai se siamo reduci dalla neurologia o dalla psicoanalisi, dalla politica o dall’università, rimaniamo alla stessa stregua di coloro che cercano una definizione, senza mai trovarla. Personaggi pirandelliani in cerca di autore. Sia che gli eventi storici ci favoriscano, sia che ci siano avversi, ci ritroviamo sulla linea di un traguardo che è sempre una striscia di partenza. In fondo, per onestà di gioco, dobbiamo dire che da circa duecentocinquanta anni a questa parte non siamo ancora venuti a capo di nulla. Tuttavia, nel palcoscenico della storia, abbiamo occupato un sipario, abbiamo e stiamo tenendo banc : che cosa raccontiamo e a chi; quanto ci crediamo, ancora, in quello che facciamo ma, soprattutto, in come lo facciamo ? Prima che si spengano, su di noi, le luci della ribalta, forse possiamo tentare di guadagnarci l’applauso che ritenevamo ci fosse dovuto: possiamo essere quello che, nostro malgrado, ci siamo ritrovati ad essere: clown, intrattenitori, giocolieri delle passioni degli altri, con la tristezza di non poterle mai farle nostre, mai forse trattenerle, mai contenerle veramente e con la gioia di esserne, cionondimeno testimoni, come coloro che, pur avendo fatto di tutto per scappare e mettersi in salvo, sono rimasti investiti da ciò che essi stessi sono andati ad evocare.
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C’è un testo degli anni Settanta del Novecento di Jean Starobinski, un altro psichiatra, come Gillo Dorfles, poi curvato alle humanae litterae, che si chiama Ritratto dell’artista da saltimbanco. La tesi che sostiene Starobinski è che nel corso del Novecento l’artista da saltimbanco, il clown è diventato una sorta di metafora viva, direbbe Paul Ricoeur, di ogni artista e della sua vita. Colui che non riusciva a rientrare nei formalismi della società borghese si dava al circo come ultima via. La figura del Pierrot triste e ilare al tempo stesso, senza che per questo nessuno lo classificasse ancora come un rapid cycler. Scrive Starobinski:“Il mondo del circo e della fiera rappresentava, nell’atmosfera plumbea ed inquinata di una società in via di industrializzazione, una piccola isola colma di meraviglie dai colori cangianti, un pezzetto ancora intatto della terra d’infanzia, uno spazio entro il quale la spontaneità vitale, l’illusione, i prodigi semplici dell’abilità e della goffaggine fondevano insieme tutte le loro seduzioni, offrendole allo spettatore stanco della monotonia dei doveri che la vita seria impone. La gran confusione dei palcoscenici era quasi una macchia luminosa nella monotonia di un’epoca grigia”. A un certo punto Starobinski coglie i segni inequivocabili di una vera e propria identificazione, ovvero di un camuffamento, tra l’artista e la figura del clown. “A partire dal romanticismo il buffone, il saltimbanco ed il clown sono diventati le immagini iperboliche e volontariamente deformanti che agli artisti piacque dare a se stessi e alla condizione dell’arte.” Mentre l’artista, allora, nella cerniera tra Ottocento e Novecento, raccoglieva la terminalità dell’elemento dionisiaco in scomparsa in una società che si andava normalizzando e burocratizzando (ovvero irregimentando), lo psichiatra, o meglio, l’alienista era attaccato al fronte di questo anello riduzionale: tutto il mare del pathos umano e della marginalità sociale premeva per entrare nella buca di sabbia della nosografia. Durante il Novecento questa operazione è saltata ampiamente e continuamente smentita, o meglio, si è svelata nel cuore della sua velleità. Persa la faccia di scienziato positivo e radicato nelle sue certezze fisiche allo psichiatra sono rimaste due vite: reinventarsi moderno sciamano chimico o psicoterapeuta, via maestra seguita dai più e strettamente consigliata come politically correct, oppure mettersi, semplicemente, a divertire il suo pubblico, ma anche ad intristirlo, recitando, in fondo, a soggetto, cercando continuamente il suo autore, facendosi identità mutante, diventando, in un certo senso, fermento lattico, solo quello che gli rimane di essere: un buffone, o meglio, un clown. Seguire, cioè, con cento anni di ritardo, l’ultima via per la quale se ne sono usciti gli artisti. In fondo in questo suo percorso epistemico di fatto, come l’artista indicato nel testo di Starobinski, lo psichiatra ha raccolto l’humus autentico dell’ultima follia. E’ questa una tragedia che si compie ogni volta ai nostri occhi: prima che iniziamo un trattamento farmacologico, di fronte ad un esordio, raccogliamo l’esplosione o la frantumazione di una persona, la sua sospensione di un mondo senza significati o popolato di significati sinistri, il lanciarsi nel vuoto di un’esistenza a cui, di fatto, siamo gli ultimi che tentiamo, a volte inutilmente, di lanciare una fune.
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Lavoro da ventanni a stretto contatto con i tossicomani. Ne vedo sempre di più giovani e sempre più con sintomi psicotici: ho dati sufficienti per ipotizzare che tra qualche anno tutta la psichiatria sarà allagata dalle sostanze. Vedremo, per così dire, non psicosi naive che noi andiamo a nosografizzare e a neurolettizzare, ma psicosi sintetiche prodotte dall’incontro tra le coidddette designer drug, le droghe nuove, e la vulnerabilità neurobiologica di quella persona. Tutto questo accade prima ancora che possa costituirsi nel soggetto quel complesso che noi chiamiamo carattere e formazione di personalità. Lo psichiatra del futuro cercherà di riazzerare le reazioni di un cervello starato in risposta ad una miscellanea di bombardamenti neurochimici. Nella mia pratica clinica assisto ad un impoverimento di forme psicopatologiche: la fenomenologia deficitaria dello sballo e la fenomenologia produttiva dello schizzo sono il codice binario con il quale si misurerà la nuova psichiatria. Il mio ruolo, spesso, finisce per essere quello di un riequilibratore sinaptico. Non c’è più poesia e non c’è più pathos nella technofollia, nella psicosi indotta, nella psicosi sintetica. Il cinema post-organico di Cronenberg dà ampi squarci di questi nuovi panorami. Però anche qui mi sento, ancora una volta, come un funambolo: in fondo ho fatto in tempo a vedere le emozioni umane emergere e frantumarsi prima che sparisse la frontiera tra esterno ed interno, tra superficiale e profondo, tra dentro e fuori; prima che il corpo si virtualizzasse e la psiche si mineralizzasse. Ancora, come psichiatra, mi sporgo tra un’umanità che ha conosciuto l’esplosione della follia ed un’umanità che procede verso la pasteurizzazione chimica delle emozioni. Niente come le psicosi sintetiche, insorte in concomitanza dell’assunzione di MDMA al ritmo di trecento battute al minuto della technomusic, mi rimanda all’assenza di contenuti. Io che mi sono formato alla fenomenologia delle grandi sindromi della psichiatria clinica classica, intuite dalla psicopatologia francese e sistematizzate dalla psicopatologia tedesca, mi trovo oggi a possedere raffinatissimi strumenti di rilevazione, al cospetto di paesaggi lunari che però non sono ancora il Defekt, le sindromi deficitarie e negative della post-psicosi e delle psicosi residuali. La povertà dei contenuti, la non sistematicità e l’andatura a flash e a spotting delle dispercezioni dei deliri indotti dalle droghe sintetiche mi portano in una dimensione meccanica di assenza di gravità. Il Vuoto, il Nessun Luogo di cui parla Rilke e a cui, in fondo, conduce tutto il pensiero tragico e negativo della filosofia del Novecento, da Nietzsche ad Heidegger, a Junger, diventano, paradossalmente, il campo in cui si iscrivono le acrobazie di questo nuovo psichiatra e di questi nuovi psicotici all’uscita da quel grande inceneritore di racconti che è stato il Novecento. La gratuità, l’assenza di senso, la vacatio legis delle psicosi con cui oggi mi confronto, sintomi psicotici senza più strutture psicotiche, si dànno nella dimensione rarefatta dell’incontro: non più una clinica variopinta di segni e di sintomi, ma una clinica del silenzio.
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L’ultimo clown, allora, si esibisce nella solitudine, di fronte ad un pubblico interno o ad un pubblico assente, o ad un pubblico che tace, ad un pubblico che se ne è uscito, oppure, per la strada, di fronte ad un pubblico che passa veloce, perché ha fretta ed è iperconnesso con la globalità virtuale. Come scrive Starobinski, c’è un punto in cui questa immensa riserva di non senso diventa, paradossalmente, proprio la premessa del passaggio al senso. Una forte capacità metamorfico-liberatoria è insita nella trasformazione dello psichiatra da uomo schiacciato dai paradigmi del positivismo, del neopositivismo e dell’empirismo a psichiatra-clown ispirato all’anarchia metodologia e all’improvvisazione del momento.
Starobinski insiste ancora sul ruolo iniziatico di questa maschera, del clown, come se egli fosse una sorta di traghettatore, di mediatore, tra il visibile e l’invisibile. Lo slancio verso l’alto dell’acrobata, corpo leggero ed atletico proteso sul niente, come il tuffatore della tomba di Paestum, è in fondo, niente altro che una sublime pantomima sull’orlo della morte. Dal muto universo delle macchine, degli automi, dei circuiti informatici a fronte di una crisi psicotica comunque indotta, anche chimicamente, noi psichiatri rimaniamo, che lo sappiamo o meno, che lo vogliamo o no, gli artefici di un passaggio: i testimoni di una rabbiosa e sfrenata ipotesi di vita scagliata dentro il puro vuoto del nulla. Ancora una volta, in questa performance, respiro il bilico, la paura di cadere, ma soprattutto, la necessità di fare, comunque, qualcosa, non con quello che so ma con quello che sono, con pochi mezzi: palline, nastrini, nasi, un cappello. Uno schetch, non più un’intero dramma; una battuta, un gesto, perché non c’è tempo: il frammento dell’emozione che vivo lanciata verso l’altro come la cima di una fune. Sapendo che dietro di me non c’è il molo, che l’unico attracco possibile è il difficile equilibrio su di un’altra fune. Il clown, il saltimbanco, il funambolo: la loro poesia e la loro povertà, il loro appartenere ad un universo di viandanti che camminano per le strade del mondo divertendo le piazze, colorando di gioia la malinconia delle domeniche pomeriggio. Starobinski ricostruisce la complessa vicenda dell’artista nella cultura borghese otto-novecentesca indicando i momenti decisivi della sua alienazione, del suo autocritico, malinconico e ilare allontanamento dal corpo mondano, il suo autoironico camuffamento nei panni del pagliaccio da circo. In fondo il gioco del clown è quello che fa nascere alla luce della coscienza ridotta a paesaggio brullo e post-atomico le immagini residuali e frammentarie dell’uomo, i cocci della bottiglia, le oscurità immateriali ed immemorabili. E sto pensando, adesso, al passaggio malinconico ed ebbro, dionisiaco, della frontiera del nulla, che lo psichiatra è costretto a fare ogni volta che contatta un’esperienza psicotica. Il vero compito del clown, dello psichiatra, dello psicoterapeuta rimane ormai solo quello, come dice Hillman, di fare anima; la vera conoscenza non è più quella della meta ma quella della strada, la conoscenza iniziatica del cammino.
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Questo psichiatra residuo o sopravvissuto al Novecento che, come il clown di Starobinski, fa capriole in uno spazio irreale, si pone nella posizione intenibile e squilibrata della speranza, proprio perché, nella sua lucidità, è disperato. Egli è, sul piano umano, definitivamente borderline, perché va nella morte e dalla morte ritorna, perché a modo suo, funambolico, domina il confine sconfinando, ad ogni istante, colui che, come dice ancora HiIllman, prende gli schiaffi per sfidare ogni certezza, perché la storia lo ha lasciato, a lui per primo, senza certezze. Così come l’avvento dell’ Età moderna ha messo in fuga dal mondo l’incantamento di tutte quelle figure che popolavano i boschi come i folletti, gli spiritelli, i coboldi, gli gnomi, le fate l’avvento della civiltà industriale e tecnologica ha messo al margine gli artisti, da una parte, i folli, dall’altra. L’avvento dell’Era informatica e globale porta all’estinzione dei clown, dei saltimbanchi, dei funamboli, che rappresentavano, mascherate, alcune irriducibili istanze umane che la poesia e la follia svelano. Noi, psichiatri del Novecento, non volevamo essere dei clown e non abbiamo studiato per questo. Ma, di fatto, dopo anni, mi verrebbe da dire dopo almeno due secoli e mezzo di equilibrio sulle funi qualche numero lo sappiamo fare anche noi. Ma, soprattutto siamo stati testimoni, ogni volta, della malinconia profonda e dell’ilarità maniacale, della frammentazione e dell’illusione, dell’ombra e della nebbia, della polvere e del silenzio. Questo anche ci rimane, fa parte ormai del nostro numero, non ci resta, ora, che trasmetterlo a chi verrà, a chi se n’è già andato, a chi ancora dobbiamo incontrare.
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Scrive Starobinski : “Perché i clown e i saltimbanchi possano vivere è necessario che godano di una libertà totale. Non ci si affretti troppo, quindi, ad assegnare loro un ruolo, una funzione, un senso ; bisognerà lasciarli liberi di essere null’altro che un gioco insensato. La gratuità, l’assenza di senso è, se mi è lecita l’espressione, la loro aria natale. Solo a prezzo di questa vacanza, di questo vuoto primario, essi potranno passare al senso che abbiamo scoperto per loro. Essi hanno bisogno di un’immensa riserva di non senso per poter passare al senso. In un mondo utilitaristico, attraversato dal reticolo fitto delle relazioni significanti, in un universo pratico nel quale ogni cosa viene investita di una funzione e di un valore d’uso o di scambio, l’entrata del clown fa saltare alcune maglie della rete, e nella pienezza soffocante dei significati ammessi apre una breccia per la quale potrà spirare un vento d’inquietudine e di vita. Il non-senso, che il clown porta con sé, avrà allora, in un secondo tempo, valore di messa in dubbio, di sfida alla serietà delle nostre certezze. Questa boccata di gratuità c’impone di riconsiderare tutto ciò che si riteneva tranquillamente necessario. Così proprio perché è anzitutto assenza di significato, il clown attinge il significato supremo di contraddittore: nega tutti i sistemi di affermazione preesistenti e introduce nella massiccia coerenza dell’’ordine costituito il vuoto grazie a cui lo spettatore, staccato finalmente da se stesso, può ridere della propria pesantezza. L’assurdità pura accetta di diventare una figura polivalente: figura dell’intruso che si impone e che viene espulso; figura della vittima espiatrice e del demone ingannatore; figura dello slancio ottimista verso l’alto o della caduta nell’abisso. Una catena di echi si propaga, e il circo non basta più a contenere gli sviluppi. Infatti la funzione del clown, così come l’ho fin qui descritta, presuppone l’esistenza di una società organicamente strutturata, alla quale sia possibile opporre una contraddizione sotto la specie di una forma e di una maschera istituzionali. Allorchè l’ordine sociale si dissolve, la presenza del clown si attenua così sulla scena come sulla tela; ma è proprio allora che il clown scende per le strade: ed è ciascuno di noi. Non ci sono più limiti, dunque non c’è più infrazione. Rimane la derisione”
***
Guardo l’orologio. Segna ormai le tre. Il nostro colloquio, di silenzi, di lacrime, di rispetto profondo, è finito. Lasciamo le barelle, usciamo dalla stanza, i rumori ci riavvolgono. Ci stringiamo la mano, a lungo, ancora nel silenzio, forte, come si fa tra uomini. Lui torna alla vita. Io alla follia. Ho fatto, anche stanotte. Il mio numero. Senza pubblico, senza gloria, senza testimoni. L’aurora tarda. Forse riuscirò ancora ad appoggiarmi sulla mia branda che non fa mai in tempo a riscaldarsi. Fino al prossimo cicalino. Fino al prossimo numero. Triste nella gioia. Gioioso nella tristezza.
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Caro Gilberto,
sono una “giovane” psichiatra quarantenne di Torino e ti scrivo durante una lunga notte di guardia nel più grande ospedale della città e della Regione . Ti scrivo come ad un collega, che sento però al tempo stesso amico, perché vive sulla sua pelle ciò che vivo io e quindi può comprendere, che pensa ciò che anche io penso e che però è al tempo stesso un Erede, nel senso di detentore di un grande tesoro cultural-intellettuale, derivatogli da grandi Maestri e in questo senso egli stesso diffusore di un sapere e di una profondità che ormai sento quasi perduta . Ti scrivo per condividere e per sfogarmi ...
Ho iniziato a leggere la tua rubrica su Psychiatryonline circa un anno fa e sono stata poco a poco conquistata . La prima volta mi attiro’ il titolo, che richiamava quel Viaggio al termine della notte che per me resta “il libro del cuore”, il libro che ho letto più volte e ancora mi commuove . Poi quel Cuore di tenebra e quelle tante citazioni che si susseguono nei tuoi scritti , simboli di una profonda cultura e sensibilità . Ho letto con entusiasmo i tuoi ultimi tre scritti (Kaddish, Lettera a un giovane specializzando e gli ultimi Clown) e perciò ho deciso di scriverti e di ringraziarti .
Nell’alternarsi di storie di vita vissuta , di esperienze, di pazienti , così vive e intrise di emozioni, e di brani più dotti e “magistrali”, nelle parole di polemica verso l’attuale sistema della Psichiatria italiana, ho ritrovato poco a poco le mie emozioni , i miei pensieri inespressi e il mio sconforto di tanti momenti in trincea . Ti ringrazio per la tua vis quasi eroica , per la tua energia e per le provocazioni a cui inviti noi tutti , colleghi e soldati troppo spesso silenziosi (o peggio lamentosi in silenzio ) e passivi davanti a quel meccanismo ormai poco umano e poco etico che si chiama Sanità Pubblica .
Il mio contesto di lavoro è la Clinica Psichiatrica Universitaria, ma con il ruolo di Medico Ospedaliero , dedito alla clinica e alle urgenze. La mia trincea è il Reparto DCA, uno dei pochissimi in Italia dedicato alla cura di queste patologie, 10 letti occupati da adolescenti scheletriche e ammantate di angoscia di morte . Poi c’è l’Ambulatorio in cui mi occupo dei casi più gestibili . La mia trincea è la frustrazione, la rabbia e l’angoscia che queste pazienti (e talvolta le loro famiglie) riescono a farti esperire, essendo così forti e inermi al tempo stesso . La mia trincea è dover affrontare lo stigma nello stigma , perché queste patologie - al pari delle Dipendenze - nessuno psichiatra “territoriale” le vuole affrontare e troppo spesso sono ancora considerate (anche da medici e specialisti) dei “capricci” di ragazzine immature e quindi si scaricano su noi , super-specialisti settorializzati . La Psichiatria è ormai parcellizzata .. c’è chi si occupa di DOC, di Psicosi (Esordi) , di Disturbo Bipolare, di Tossicodipendenze e poi di DCA. A riflettere la frammentazione creata dal Manuale DSM , anche i luoghi delle cure (CSM, SPDC, Case di Cura, comunità, SerD, cliniche universitarie..) si sono frammentati . Frammentati e allontanati, separati da mari di frustrazione e narcisismo, ciascuno fa ciò che può e pensa di farlo meglio degli altri e i colleghi - soldati di uno stesso esercito e accomunati da uno stesso obiettivo e da similari angustie - non si confrontano , non si parlano, non si mettono in rete per seguire magari gli stessi pazienti , e così sprecano energie e si sentono sempre più soli .
Divisioni .. ne avverto sempre di più . Guerre intestine e civili , guerre fra poveri , fra psicologi e psichiatri , fra universitari e ospedalieri o territorialisti, fra colleghi di reparti diversi e talvolta all’interno delle stesse equipe ...tutti così preoccupati di sopravvivere (o di legittimarsi) e portare a casa la pelle, che alla fine passa sullo sfondo il fine della loro stessa esistenza ... prendersi cura del paziente .... Il paziente che talvolta diventa il nemico, infastidisce, rovina la vita ... primi sintomi di un burn-out già in agguato. Sento colleghi di tutte le età (io lavoro anche a stretto contatto con gli specializzandi) lamentarsi, pur lavorando in realtà diverse, e il leitmotiv è sempre lo stesso: il carico di lavoro, la responsabilità, il pericolo, la scarsità delle risorse (uomini e mezzi), l’ottusita’ dei capi e delle Istituzioni , la frustrazione, la crisi di ruolo, le scarse possibilità formative etc... Tutte questioni che anche tu conosci bene ! Un esercito che mugugna sottovoce , perché poi nessuno ha il coraggio di alzare la voce in contesti pubblici e interloquire con chi quelle Istituzioni rappresenta ! E questo è molto frustante . Forse non si sa nemmeno come fare a farsi ascoltare però , senza piegarsi alle insidie della “politica”....
La 180, i manicomi , la rivoluzione della Psichiatria ... storia vecchia ormai! E romantica. Dopo 50 anni quel che resta (e che mi rende molto triste ) sono “30 minuti ogni 3 mesi che si dedicano ai pazienti più compensati e 10 minuti al mese per i pazienti scompensati (TSO escluso)”... Frase pronunciata in un convegno pubblico da un Direttore di DSM riguardo allo stato dei CSM della città, spesso accorpati e oberati di centinaia di pazienti. In questa disfatta dei CSM, dei Centri Crisi e Centri diurni , restano i Dea degli ospedali e gli Spdc ad accogliere il disagio grave e il lavoro è ormai fatto perlopiù sull’urgenza (come spesso sottolinei tu). Poi ci sono le case di cura, parcheggi di sollievo per pazienti medio-gravi e le comunità , diventate ormai “beni di lusso” viste le cifre esorbitanti richieste ai CSM per le rette giornaliere (da 160 a 280€ al giorno). Anche i gruppi appartamento, risorsa secondo me importante , sono stati abbandonati dalle Asl e lasciati nelle mani di varie ed eventuali Cooperative private , la cui serietà lascia spesso a desiderare ..
In questo impoverimento globale di risorse emerge però il dato di un progressivo aumento del disagio mentale (come sottolineato recentemente da Fabrizio Storace), sintomo specifico di un generico impoverimento culturale e relazionale, cui evidentemente non si riuscirà più a far fronte.
La Psichiatria non ha più appeal, come dicevi tu , il numero degli psichiatri si riduce e spesso i concorsi vanno deserti ... Gli specializzandi in uscita dalle Scuole non bastano a coprire tutta la richiesta, sia in ambito pubblico che privato ... Senza contare che ormai lavorare “nel pubblico” sembra più una condanna che una fortuna, vissuto ormai come un enorme tritacarne che succhia tutto e restituisce poco .
E come potrebbe avere appeal quando sono sempre meno le figure dei grandi Maestri che danno l’esempio , delle grandi Menti che affascinano i giovani ?
Come ? ... quando i luoghi della Psichiatria (concedimi una digressione estetica) sono così fatiscenti , tristi , disagiati , lasciati andare, al limite dell’abitabilita’, dal punto di visto architettonico ed estetico, quando la maggioranza degli spdc e molte case di cura assomigliano troppo ai vecchi manicomi , nella loro miseria di arredamento e colori (ma a volte anche di servizi igienici), nella mancanza di piccoli spazi aperti e verdi dove sentirsi un po’ più liberi . Gli esterni a volte rispecchiano gli interni ... e luoghi tristi e privi di ogni eco di Bellezza, rimandano l’immagine di abbandono e resa che spesso abita i cuori di chi quei luoghi frequenta .
Un altro grave problema della Psichiatria attuale è poi , secondo la mia esperienza, il rapporto con la Neuropsichiatria Infantile... Dove è finita la NPI? Si occupa solo più di bambini ? Chi si occupa della fascia che più ha bisogno di aiuto in quest’epoca attuale, quella degli adolescenti fra i 15 e i 18 anni (che la NPI ormai fatica a prendere in carico)? Perché è lo Psichiatra del P.S. a doverli intercettare e non la NPI territoriale ? Perché devono essere ricoverati in SPDC fra adulti spesso cronici, senza poter usufruire spesso nemmeno di una stanza singola dove poter assicurare l’assistenza di un familiare ? Perché non esistono reparti di NPI che possano ricoverare questi adolescenti in crisi? Senza stigmatizzarli ?
Tutte queste domande mi attanagliano durante ogni turno di guardia e ogni volta che devo ricoverare un “minore”. ...
Come si può allora restare “portatori di speranza” ed essere rappresentanti di una psichiatria etica e gentile, quando si è travolti e trascinati “unter dem Rad” (titolo di Hesse che mi accompagna)? Forse solo appellandosi alla propria formazione, buon senso e responsabilità personale , alla propria sensibilità e a quel poco di umanità che dobbiamo tener vivo nel nostro cuore per continuare a fare questo lavoro , spesso nella solitudine e nell’incomprensione , nella paura , nel triste ricordo di chi abbiamo provato a salvare, ma che abbiamo perduto (il tema del suicidio poi meriterebbe uno scritto a parte ..) . Perché in fondo anche al “termine della notte” esistono figure luminose, capaci di “tanta tenerezza da rifare il mondo intero”, fra gli operatori e anche fra i pazienti e i loro familiari .
Questo ci deve dare speranza .
Come a me ne dà la tua voce e la possibilità di condividere con te queste mie riflessioni in una sera di guardia .
Cara Nadia,
la tua lettera e quella di Raffaella possono essere inserite in una incredibile stadiazione. La lettera di Raffaella è un segnale di SOS durante il corso di specializzazione, la tua durante l'inserimento successivo nel territorio-mondo del lavoro. Quella di Giorgio Castignoli è una segnalazione che proviene da chi in questo momento sta facendo esperienza di una posizione dirigenziale, dunque stadiazione ulteriore. Giuseppe segnala l'agonia degli psicologi, ancora più straziati di noi, e dunque, nonostante tutto, irregimentati per quel poco di presenza istituzionale che hanno. I vostri contributi sono fondamentali, poichè rendono la mia posizione meno autistica. Mi fanno uscire da quel'aura di vox clamantis in deserto. Per la verità 10-20.000 visualizzazioni o letture rappresentano di per sè un dato. Lasciano immaginare, se non un consensus, l'osservazione silenziosa di un fatto : che questa rubrica coglie, nel marasma generale, un nervo scoperto. Dunque, il primo atto è la costituzione di una coscienza critica, autoriflessiva. Il passaggio all'atto è secondario. Se la psichiatria ha sempre meno appeal, probabilmente dipende dal fatto che il vuoto di idee e di contenuti su cui si costituisce deve farla apparire, all'esterno, una falsa sirena, ogni volta che essa tenta di richiamare l'attenzione su di sè. Credo che nulla sia più prezioso, in questo momento, di un lavoro di autoriflessione e di ricostituzione di coscienza critica. Bisogna recuperare la storia, riconoscere i paradigmi, capire come siamo potuti arrivare a questo punto, stilare bibliografie di riferimento, accendere nei giovani e risvegliare nei colleghi l'idea che altre strade sono possibili. Produrre lavori che promuovano la clinica, la cura, la descrizione delle esperienze vissute da noi e dai nostri pazienti. Sono convinto, come tu dici, che anche al termine della notte esistono figure luminose. Occorre risensibilizzare anche i media e le persone comuni sulla questione della follia e della psichiatria. Nessuna società che voglia definirsi progredita e civile può avere una psichiatria poco etica, poco gentile, poco estetica, poco colta, poco umana. La psichiatria dice molto del tipo di cultura e di civiltà nella quale si esprime. Il modo in cui approcciamo i malati mentali dice molto del modo con cui approcciamo noi stessi e ci approcciamo tra di noi. Siamo gli psichiatri della decadenza, non sono della psichiatria, ma di un mondo. Questo significa che dobbiamo salvare il salvabile, per trasmetterlo, se non non faremo in tempo, agli psichiatri della rinascenza. Nulla più del disfacimento ci dà la possibilità di svellere e sceverare le cose utili, dalle cose inutili. Nulla ci dà di più la possibilità di capire la struttura delle situazioni, delle esperienze. Al di là della depressione o della frustrazione c'è un fascino nell'essere noi i testimoni diretti questa agonia, gli agenti testamentari di un'eredità dispersa, andata in mille direzioni. Coloro che rifondano. In particolare a noi Italiani, questo mezzo secolo di psichiatria esercitata on the road o nei micromanicomietti chi ha aperto ulteriori prospettive. Abbiamo curato o tentato di curare la malattia mentale come in nessuno stato occidentale nessuno avrebbe mai tentato di fare. Nessuno, dunque, più di noi, può aver visto ed osservato queste cose. Dobbiamo recuperare la capacità di scrivere, di descrivere, di segnalare, di riflettere. Di considerare come fatto o dato non soltanto il dato statistico, ma il dato vissuto, l'idividuale, il frammento di storia. Ciò che i nostri pazienti ci hanno consegnato e quotidianamente ci consegnano. E' una storia, la nostra, da questo punto di vista, ancora tutta da scrivere. Sono certo che tu, come me, tornando indietro, rifaresti lo stesso lavoro. Questo è il fondamento. Il cuore è il compagno più forte. Dunque andiamo avanti. Un abbraccio.
Grazie Gilberto per la tua articolata risposta e scusa il refuso ..sono “solo” 40 gli anni dalla 180, ma forse a me sembrano di più non avendo mai vissuto una psichiatria antecedente a quella data .
Spero che questa tua rubrica possa poco a poco diventare una “piazza”, dove psichiatri, psicologi e operatori della Salute Mentale con esperienze diverse ma uguale entusiasmo possano incontrarsi e confrontarsi , stimolati dalle tue parole e dalle tue storie cliniche . L’obiettivo che condivido è quello di stimolare una coscienza critica, una riflessione che non sia solo un lamento, prima di “passare all’atto” o all’azione . E condivido anche l’idea di lavorare con e sui media per sensibilizzarli ai temi della Psichiatria, che non sia solo un aspettare di “andare in prima pagina” quando accade qualche fatto grave , spesso criminoso, qualche tragedia, per interpellare gli psichiatri in qualità di “esperti”. E altresì è importante sensibilizzare la gente comune, che della Psichiatria vive e sente ancora forte lo stigma (anche grazie a iniziative di dubbio gusto e chiaramente manipolative come la mostra multimediale itinerante intitolata “Dalla contenzione alla sedazione. Storia di errori e orrori psichiatrici dalle origini all’attualità”, appena passata per Torino..).
Quindi, lavoro da fare ce n’è molto .... Servono voci forti e chiare che diano il passo , come la tua. Grazie!
Grazie Gilberto, il tuo esplicito riferirti agli psichiatri ed alla psichiatria non mi fa sentire fuori dal discorso e nemmeno mi fa avvertire il disappunto sociale di un immaginabile adulterio messo in atto. So bene che da fenomenologo quale sei non riusciresti a parlare di cose di cui non hai un’esperienza vissuta, ma non posso fare a meno di avvertire il risuonare sintonico delle tue parole nello psicologo quale sono: eppure nei servizi di salute mentale, noi psicologi, occupiamo dei posti marginali, in quelli che trattano le acuzie quasi non esistiamo. Sento forte il richiamo alla ricerca delle fondamenta, che tu ritrovi nella storia di quei maestri di cui non smetti mai di dare voce, non ultimo di Tonino D’Errico.
Ho faticato molto durante la formazione universitaria a stare nel paradigma positivistico imperante, l’unica alternativa possibile appariva quella di aderire anima e corpo al mondo psicoanalitico che ricopriva alcune delle cattedre, finalmente una flebile luce è apparsa quando non hanno potuto fare a meno di accennare a Franz Brentano (definito il secondo padre della psicologia).
La scelta di percorrere la via della clinica mi ha portato, ed ancora oggi mi porta, ad interrogarmi sull’approccio alle cose umane, per questo quando leggo i lavori che hai prodotto in questa rubrica “cuore di tenebra” ritrovo il respiro che in tante realtà formative non trovo. Quel breve ma intenso passaggio dell’incontro nella stanza degli infettivi, con il padre di Rossella, dà molto di più di tanti manuali su come strutturare un colloquio clinico. Hai chiesto l’unica cosa che si poteva chiedere ad un uomo affranto e piegato a qualcosa che non osiamo nemmeno immaginare: assistere alla morte di un figlio. Gli hai dato la possibilità di nominarla.
Le immagini del clown da un lato, del funambolo dall’altro, sono evocative di quello che ci aspetta nel nostro intenzionare le cose umane, nelle sue più svariate sfumature situazionali. Noi eterni debuttanti proveremo ad essere con i nostri pazienti, come tu ci indichi, alla ricerca della “trovata”, per dirla alla Binswanger, che possa aprire uno spiraglio per un progetto di mondo.
Caro Giuseppe, mi fa particolarmente piacere il tuo coinvolgimento come psicologo. Considero gli psicologi come fratelli di destino di noi psichiatri. Questa rubrica è intitolata alla "fine" della psichiatria, e per questo motivo non faccio menzione degli psicologi, augurando alla psicologia sorte migliore. Qualche anno fa, forse più di qualche anno fa, Mario Rossi Monti definiva gli psicologi come l'ultimo "polmone epistemologico" nell'ambito della clinica del mentale. Questa definizione mi colpì, mi piacque, la feci mia. Gli psicologi sembravano allora (fine Novecento) avere i numeri per rappresentare una resilienza al mainstream riduzionista che travolgeva la psichiatria e gli psichiatri. Immaginare gli psicologi come alberi di una grande foresta amazzonica, che rimangono a presidiare l'ossigeno della relazione, dell'incontro e della cura, è un'apertura potente. Non so se le cose siano andate esattamente così. Da quello che tu e altri dite, da quello che si osserva, da come sono organizzate le didattiche universitarie e le scuole di psicoterapia, la mia impressione è quella di una tecnicizzazione dilagante anche nel vostro ambito. Psicologia dei traumi, psicologia delle emergenza, psicologia del lavoro, neuropsicologia, per non parlare delle centinaia di modelli di psicoterapia, che annaspano per scavare fossati nella terra argillosa. Fossati chiari quando sono linee tracciate su fogli di carta, meno o non più chiari quando, dopo una notte di pioggia, i solchi non si vedono più. La terra è umida, e, soprattutto, i piedi di chi ci cammina affondano, riempiendosi di chili di creta. Considero gli psicologi che si fanno carico di reggere una mente con la propria mente, un'esistenza con la loro esistenza, degli eroi del quotidiano, e auspicherei la loro presenza in tutti i settori della clinica. Anche in quelli organici non presidiati dalla psichiatria. Spero che un giorno sia così. Ci vuole molta forza, ci vuole molto equilibrio e molto studio per non lasciarsi tentare dal mettere un griglia qualsiasi su un fenomeno scaturente dall'esperienza. Ci vuole molta sagacia per decidere di tagliare il passaggio attraverso un campo sulla base della praticabilità del campo, non sulla base di mappe cartacee, di modelli precostituiti a tavolino, curando la coerenza e l'eleganza, orpellando con inserzioni originali vecchie idee, senza curarsi di cosa accade alla terra dopo una notte di pioggia. Mi auguro che l'antica lezione di Brentano possa fecondare la smarrita sceinza psicologica, che cerca, come quella psichiatrica, il suo fondamento lontano dall'esperienza del mondo.
Buongiorno
rimarremo sempre nello "zwischen land" il tra, territorio fatto di corsie, ambulatori, spazi a "latere" dell'operare clinico ufficiale, riempito da due attori, uno, il paziente che anela ascolto umano e una mano tesa verso le sue fragilità , l'altro, lo psichiatra, abitante incallito della periferia di un mondo medico iperbolicamente fiducioso nella tecnica, privo di strumenti tecnici, per nulla reclamizzato rispetto alle altre fronde della medicina, ancorato allo strumento del linguaggio, la dimora dell'essere, perché in fondo,
noi siamo un colloquio....
grazie Gilberto
enzo santospirito
Grazie Enzo, mi piacerebbe che, come te, tutti sentissimo, oltre alla fragilità di questa nostra posizione precaria, anche la forza, poichè siamo quelli rimasti più vicini alla precarietà della condition humaine. Se per ipotesi diventassimo tecnologicamente efficaci, probabilmente perderemmo in modo definitivo il contatto con ciò che i nostri pazienti vivono. Non è da escludere un futuro di nirvana neurochimico per chi soffre di disagio mentale, enfatizzando ciò che Huxley descrive nel suo libro "Il mondo nuovo". In tal caso sentiremmo la nostalgia per la parola, per il linguaggio, per il silenzio, per il gesto, per lo sforzo di amicizia e di amore che sempre fanno due esseri umani quando cercano di comprendersi. Dovremmo dunque riuscire a ribaltare la nostra posizione di debolezza attuale in una posizione di forza, delimitando un campo che può essere arato solo a mano, e non dai droni.
Grazie Gilberto
posizione di forza scolpita nelle parole di Manfred Bleuer disarmanti nella loro semplicità..
la psichiatria scienza debole ma indispensabile a tendere la mano verso i pazienti che attendono ascolto, incontro, calore umano , comunione di esistenze...
Grazie Gilberto,
il tuo scritto ci dona di nuovo uno spazio di riflessione impervia, ma proficua. Sublime, lucido e poetico, come sempre. Speriamo dunque di essere almeno all'altezza del clown perché chi soffre oggi rischia di non trovare uno "specialista" più esperto. Qualche volta siamo privi del trucco e ci manca la maschera. Un abbraccio
Caro Giorgio, la tua testimonianza è preziosa. Sei un uomo delle istituzioni, lavori per le istituzioni e sei un clinico preparato, oltre che una persona molto umana. Dico questo perchè se un uomo come te trova calzante la metafora del clown, anzi, rincarando la dose : siamo senza la maschera, allora vuol dire che la nostra situazione è questa. E non altra. Qualcuno mi ha criticato dicendo che molti servizi funzionano. Il punto non è se il servizio funziona o no. Il punto è che la precarietà della nostra posizione, schiacciata tra la società, l'utenza e la precarietà del paradigma che ci regge, non è valutata da nessuno per la sua complessità. Il silenzio vergognoso delle società scientifiche, la mancanza di attenzione dei media e della politica, la competizione orientata alla carriera e al primato delle cliniche universitarie disegnano un firmamento sullo sfondo del quale la nostra solitudine è semplicemente grandiosa. Non un simposio è dedicato nei nostri convegni alla riflessione sulla nostra condizione. Il vecchio istituto della supervisione è tramontato. L'età è avanzata. Il mondo è cambiato. Rimane la passione. Rimangono professionisti come te che ho incontrato nei miei giri in tutti gli angoli del nostro sventurato e magnifico Paese. Grazie.