La “Piazza è mia”: epica di una ri-conquista dello spazio vissuto nell’epoca del COVID-19.

Share this
23 maggio, 2020 - 08:37
Da circa due mesi, a seguito delle norme per limitare la diffusione del COVID-19,  siamo invitati a rimanere nelle nostre case, a distanziarci fisicamente e a spostarci solo in funzione dei bisogni concernenti la sopravvivenza del nostro corpo organico (Korper), inseriti, ma costretti, in una dimensione temporale non più dettata dai ritmi frenetici della ipermodernità. Ci ritroviamo improvvisamente nella doppia e ambigua condizione di assediati (nelle nostre abitazioni) e assedianti i luoghi desertificati dell’aggregazione a cui aneliamo di accedere (magari con la scusa di comprare una scatola di aspirina o una confezione di tonno). Assistiamo al farsi “geometrici” (cioè da misurare) degli spazi relazionali: le strade e le piazze ci appaiono completamente deserte se non per essere attraversate da file ordinate di persone, per lo più mute e distanti, in attesa del loro turno per entrare in un negozio esercente il “necessario”. Accompagnatori di cani esausti o improvvisati podisti cingono, a loro volta, d’assedio le loro abitazioni o quartieri. Veniamo colti dalla strana impressione, certamente falsata dall’attenzione che vi dirigiamo, di non esserci mai resi conto di quanti cani al guinzaglio o di quanti cosiddetti “runners”, potessero vivere nelle nostre città. Abbiamo smesso di abitare uno spazio vitale, in quanto definito dalla nostra corporeità agente, limitandoci a percorrere distanze predefinite (o meglio “consentite” di attraversare) e anche  il tempo è vissuto per lo più come attesa (del nostro “turno” o del prossimo DPCM) e non come un vortice inebriante di vissuti solo superficialmente mentalizzati. Il vuoto, il silenzio e l’ipocinesia globale ridefiniscono un paesaggio sempre meno abitato e più “geografico”. Un paesaggio che non smette di turbarci, privato, nel suo restarci intimamente familiare e di quella promessa “all’incontro di corpi”, ora tristemente surrogato dalle immagini e dalle parole che, dell’Altro, ci vengono trasmesse, dai nuovi media. E dunque perché siamo così inquieti? Perché molti di noi trasgrediscono le cosiddette “misure di distanziamento sociale”? Perché non ci accontentiamo delle mura domestiche e cerchiamo, al di fuori di esse, l’Altro? Cosa sentiamo dinanzi ad una piazza completamente deserta e paurosamente silenziosa, poco prima dell’ora di cena? Quello che ci ha insegnato la psicopatologia di stampo fenomenologico ed antropologico è che nelle “situazioni limite” (K. Jaspers, 1913) e nelle “forme di esistenza mancata” (L. Binswanger, 1956) vediamo più chiaramente le condizioni fondanti l’Esser-ci (Da-sein) che l’atteggiamento naturale ci tiene per lo più nascoste, proprio perché precedono e fondano la nostra esperienza (E. Husserl, 1910). Ci torna, così, in mente il bellissimo film di Giuseppe Tornatore “Nuovo Cinema Paradiso”. Proprio nelle scene iniziali ricordiamo tutti il “matto” quando, allo scoccare della mezzanotte, scende dalla colonna incava dove rimane accucciato durante il giorno, per occupare lo spazio dell’intera piazza del paese che rivendica veementemente come “SUO” (“La piazza è mia!”…. urla furente). Nel personaggio di Tornatore notiamo, quindi, uno stravolgimento interessante: di giorno sembra vivere come uno “stilita”, letteralmente “spiazzato” dal mondo delle relazioni e “spaesato” all’interno del suo stesso borgo.  Di notte reclama il possesso di un luogo che, da “spazio fisico-di-tutti” e “non-luogo-delle-relazioni”, può essere nuovamente occupato solo come spazio geometrico, il solo abitabile da un’esistenza altrimenti “ustionata” dai rimandi di sguardi e parole in-traducibili in mancanza di quel “common sense” che  infonde il giusto significato immediato e preverbale alle intenzioni dell’Altro (G. Stanghellini, 2007). Tra gli aspetti essenziali della nuda struttura della realtà di cui, in modo straordinariamente acuto, G. Di Petta ci ha annunciato il disvelarsi in questo periodo (G. Di Petta, Pol.it), c’è dunque anche il sentire uno smarrimento nel percorrere uno spazio parzialmente destituito di senso nell’atto di occuparne porzioni sempre più geometrizzate, silenziose e non più alla portata di mani che si cercano e si stringono e di occhi che si scrutano al di la del sospetto o, in qualche caso, della “paranoia del sospetto” (G. Di Petta, Pol.it). Erwin Strauss ci istruisce sul fatto che la vita vissuta dello spazio dovrebbe superare la intenzionalità oggettivante husserliana per cogliere la matrice oscura della soggettività, la sua 'paticità' (E. Strauss, 1963). Per Bruno Callieri il vissuto dello spazio è qualcosa che accompagna l'uomo, il suo Affekt  sin dai suoi mesi inconsci nel grembo materno. Aprirci allo spazio vissuto significa confrontarci a questa vita vissuta che ha la struttura della via dell’'homo viator’. Il suo qui-ora, dal pre-neonato fino al decrepito ottantenne, ha la struttura della via, si costituisce mediante un da-dove ed un verso-dove (B. Callieri, 1972). Questa spazialità vissuta, incarnata agli inizi da questo spazio occupante un capezzolo all'interno della bocca del lattante, si esplica in un da-dove ed in un verso-dove ed è intessuta dalla decisione antropologica che io non sono rinchiuso nella pelle del mio corpo (D.Anzieu:“l’Io-Pelle”). Esser-ci significa essere-qui-ed-essere-là: sono qui dove occupo uno spazio anche interno (Inner-raum), ma sono anche là, là dove arriva il mio sguardo e la mia presa (presa orale oppure presa di una mano accarezzante, afferrante o avvolgente, o anche presa dello sguardo). E qui si pone, per Callieri, il problema che allo psicopatologo suscita il contatto interpersonale: la modulazione della distanza spaziale. Essa, studiata dalla prossemica, implica lo spazio di una percezione vissuta tra due interlocutori, tra due amanti, tra medico e paziente, ma anche all'interno dello spazio pubblico (dove vige l'impersonale si- si fa, si è, ecc.) (B. Callieri, 1972). Bisogna, quindi, tenere presente lo spazio vissuto come modulatore dei rapporti interpersonale così come aveva postulato Martin Buber con il suo concetto di 'Zwischenheit', per introdurre uno 'spazio-del-tra' che unisce e separa ed apre l'orizzonte dello spazio pubblico (M. Buber, 1923). Visione non lontana da quella che dello spazio intersoggettivo, lo spazio-del-tra che anche certi fenomenologi giapponesi hanno saputo cogliere. (Bin Kimura, 2005). Lo spazio personale per Callieri è prolegomeno ad ogni modulazione temporale: senza lo spazio alcun tempo è concepibile. Anche concetti relazionali come 'amicizia' implicano una col-leganza, e quindi un termine spaziale. C'è poi la spazialità legata all'abitare, in quanto l'uomo è l'essere che abita (wohnen): si abita vicino e si abita lontano (B. Callieri, 1972). E’, dunque, comprensibile come, in questo periodo, viviamo un ulteriore disagio che corrisponde proprio al sentire in senso “patico” e pre-verbale la perdita di efficacia di uno spazio diversamente “a portata di mano” (il Sein del Da-sein) quale instabile palcoscenico di quell’ incontro tra soggettività che possono confermarsi o ridefinirsi solo per Con-Esser-Ci (mit-dasein).
 
Bibliografia
L. Binswanger: “Tre forme di esistenza mancata” – 1956
M. Buber, “L'io e il tu”, tr. Anna Maria Pastore, Pavia: Irsef, 1991 (versione originale, 1923)
B. Callieri,Lineamenti di psicopatologia fenomenologica”, 1972
G. Di Petta, Pol.it, 2020
E. Husserl, “La filosofia come scienza rigorosa” – 1910
K. Jaspers, “Psicopatologia generale” 1913
G. Stanghellini, “Psicopatologia del senso comune”, Cortina 2007
E. Strauss, “Il vivente umano e la follia. Studio sui fondamenti della psichiatria”, 1963
Bin Kimura ,”Scritti di Psicopatologia Fenomenologia” (Giovanni Fioriti, Roma, 2005)
> Lascia un commento


Totale visualizzazioni: 3020