GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
di Luca Ribolini

Gennaio 2015 III - Fuochi e inganni

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25 gennaio, 2015 - 21:04
di Luca Ribolini

C’È UNA VITA PRIMA DELLA MORTE? 
di Redazione, Miguel Benasayag, Riccardo Mazzeo, doppiozero.com, 15 gennaio 2015

C’è una vita prima della morte?, in corso di pubblicazione presso l’editore Erickson, raccoglie una lunga conversazione tra Riccardo Mazzeo, editor della casa editrice, saggista, autore con Zygmunt Bauman di Conversazioni sull’educazione (Erickson 2012), e Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista, noto in Italia per il volume L’epoca delle passioni tristi (Feltrinelli) e per L’elogio del conflitto (Feltrinelli). Benasayag, di origine argentina, è stato membro della resistenza contro i militari del suo paese; catturato e sottoposto a torture, fu salvato solo per la nazionalità francese della madre. Risiede in Francia, dove ha pubblicato numerosi volumi; l’ultimo, Organismes et artefacts (La Découverte), è dedicato alla necessaria convivenza con gli “ibridi”. Al dialogo partecipa in alcune parti anche Jean-Michel Besnier, filosofo, docente alla Sorbona; di lui è stato tradotto di recente L’uomo flessibile (Vita e Pensiero); Besnier si è occupato dei temi del “transumanesimo” ed è una delle voci più critiche rispetto al “nuovo uomo aumentato” proiettato verso la cancellazione della morte. C’è una vita prima della morte? affronta i temi del rapporto tra vecchi e giovani nell’Occidente contemporaneo, segnato da legami fluidi e rapporti virtuali, e dalla negazione dell’età anziana e dallo smarrimento di quella giovanile. Pubblichiamo qui il primo capitolo del volume, per cui ringraziamo l’editore Erickson.
Riccardo Mazzeo
Questo dialogo nasce dalla tua partecipazione al 5° Convegno Internazionale sulla Qualità del Welfare «La tutela degli anziani. Buone pratiche per umanizzare l’assistenza» organizzato dalle Edizioni Erickson e svoltosi a Rimini il 18 e 19 ottobre 2013. Avevi tenuto una conferenza così stimolante che non potei evitare di chiederti se volessi scrivere un libro sull’argomento, e allora tu mi invitasti a venire a Parigi per passare qualche giorno con te e affrontare l’argomento insieme a casa tua, allargando il campo alla fragilità umana e alle conseguenze che il dispositivo impazzito e autodistruttivo della contemporaneità ingenera non solo su coloro che si avvicinano nei termini del proprio stato civile alla morte, ma anche sui giovani che rischiano sempre di più di perdere l’opportunità di rivestire il proprio ruolo nella società: una società che, votata alla sopravvivenza, lascia da parte la vita.
Di fatto, la condizione anziana che, per tutto il corso della storia, ha implicato non solo l’indebolimento delle forze fisiche e talvolta mentali ma anche la considerazione, il rispetto e sovente la venerazione da parte delle generazioni più giovani, ha subito in questo tempo, quello che tu hai definito nel tuo libro più famoso L’epoca delle passioni tristi, un brusco cambiamento di prospettiva che si è manifestato nella perdita dei cicli di vita. Ne parlavi facendo riferimento al rapporto insegnante/alunno: prima si portava al proprio maestro un rispetto che era intrinseco al fatto che fosse nato prima, e che possedesse quindi l’esperienza, le conoscenze e l’illuminazione che una vita più lunga doveva necessariamente incarnare. Questo postulato trovava la sua conferma nella «modernità solida», ma con l’avvento della nuova stagione, quella che Zygmunt Bauman ha chiamato «modernità liquida», caratterizzata da una estrema individualizzazione e dalla perdita delle certezze che esistevano nel mondo ordinato in cui avevamo sempre vissuto, il rispetto per chi è nato prima si è polverizzato, è evaporato, sia nel rapporto insegnante/alunno, sia in quello genitore/figlio, sia nello sguardo che si rivolge a chi sia divenuto vecchio. Un tempo i propri vecchi erano la fonte a cui non era neppure pensabile rinunciare, a cui i figli si abbeveravano nei momenti di indecisione; era evidente che il loro consiglio sarebbe stato prezioso, era quasi «naturale» che una loro parola potesse avere ragione dei nodi esistenziali o finanche pratici più resistenti. Si guardava ai vecchi con una mescolanza di timore reverenziale e di affetto riconoscente per il fatto stesso che ci avessero messi al mondo, che si fossero presi cura di noi e del nostro benessere, per averci cresciuti, per la loro vita così articolata e così ricca degli eventi che avevano vissuto. Chiederei dunque a te e a Jean-Michel Besnier, che è con noi oggi, di cominciare a parlare dell’argomento.
Miguel Benasayag
Comincerei con un piccolo aneddoto. Lo raccontavo prima a Jean-Michel. A nord-est, dove si trova la regione india del Brasile, arrivo con tre francesi in un villaggio indio, indio al cento per cento. Arriviamo e il consiglio degli anziani ci riceve nella casa della comunità. Sono tutti lì e c’è un’anziana signora che è il capo del villaggio — un villaggio del genere non è una tribù. Allora entriamo, i tre francesi e io, e procediamo verso questa signora che è il capo. Ci seguono trenta o quaranta giovani, che entrano dopo di noi nella casa della comunità. Uno dei tre francesi comincia a parlare e dice: «Sono molto contento che ci siano tutti questi giovani ad accoglierci». Di fatto, però, in un villaggio indio, l’onore richiederebbe che fossero gli anziani del villaggio ad accoglierci poiché gli indios ritengono che i giovani siano immaturi e debbano prima assoggettarsi alle loro prove. Una cosa è dire ciò che faranno, altra cosa è vedere che cosa succederà quando avranno raggiunto «l’altra sponda del fiume».
Questo francese ha offeso tutti, ricorrendo a una prospettiva che è un luogo comune in Francia, ma anche in Italia, in Argentina già meno, e cioè quella di considerare che un soggetto, o una riunione, o un gruppo funzioni se vi sono dei giovani. La questione da sviscerare è: ma che cosa succede con queste persone che, in Europa, sono diventate dei «vecchi» e non sono più degli «anziani»? Che società è quella che revoca la valorizzazione della scultura della vita di qualcuno che ha vissuto a lungo, che è la scultura nel corpo, nella memoria corporea, nell’esperienza, nelle ferite, nei punti di forza? Che cosa è successo nella nostra società per far sì che, quando si guardano le persone anziane, non si veda altro che la perdita delle possibilità, la perdita della potenza o qualcosa che semplicemente dice: «Ti restano pochi colpi in canna»? E allora, qual è la perversione di una società che, a dire il vero, nel suo disprezzo per i vecchi nasconde a fatica l’annientamento dei giovani? Giacché, di fatto, a questo branco di vecchi che non ha fatto che invecchiare, corrisponde una massa di giovani, biologicamente giovani, ma ai quali non si permette più affatto di essere dei giovani che corrispondano a una società con dei cicli, cioè dei giovani che vivono insieme a dei vecchi.
Che cosa significa essere un giovane? Un giovane è qualcuno che esplora i «possibili» per i quali la vita non corrisponde a un viaggio organizzato, vale a dire qualcuno che non considera la vita come una linea, la linea più corta, quella che comporta il minimo sforzo, ma che al contrario è qualcuno che si spende. Come direbbe Canguilhem, un uomo sano, dall’organismo sano, preferirà sempre seguire la sua natura, seguire il suo destino, piuttosto che proteggere la sua vita e la sua salute fisica. Dunque qui si parla di una salute sia esistenziale, sia organica: ora, in effetti, nella nostra società, ciò che mi sembra interessante notare, parlando della vecchiaia, e parlando piuttosto dell’auspicio di una società in cui gli anziani riescano a resistere, è vedere come, se non vi sono più anziani, ciò dipenda dal fatto che non vi sono più neppure giovani, e come la nostra società terrorizzi e disciplini i giovani impedendo loro di seguire la propria natura.
È un po’ come la famosa storia dello scorpione e della rana. Lo scorpione punge la rana, la rana gli chiede perché, visto che in questo modo moriranno insieme nel fiume, e lo scorpione le risponde: «Non posso farci niente, è la mia natura». Lo scorpione pungendo la rana salva la sua essenza, altrimenti sarebbe uno scorpione transgenico, non sarebbe più lui. Dunque, oggi, tutti i diktat liberticidi, di oppressione della vita, tutti i diktat più orribili sono diktat che dicono: «Non pungere la rana. Non pungere la rana». Ma la questione che si pone è allora: che cosa resta dello scorpione che non punge la rana, che non segue la sua natura? Che cosa resta del giovane che — io l’ho constatato personalmente in psichiatria infantile — a partire dall’età di sei o sette anni non fa i compiti e si sente dire: «Sai, la vita è dura, sarai disoccupato». E allora che cosa vuol dire questo? Me ne rendo conto tutti i giorni. Nel mio studio di psicoanalista non ricevo più molti giovani adesso, vedo pazienti di tutte le età, ma mi capitano genitori che sono disperati perché il loro figlio non prenderà il diploma. E mi viene da pensare che è davvero incredibile, perché dei genitori possono fare a pezzi il loro figlio immaginando che sia molto pericoloso che passi uno, due, tre anni di vagabondaggio, di percorsi obliqui? Dal canto mio, quel che vedo in un dialogo, in una riflessione condivisa sulla vecchiaia, è questo: un mondo in cui tutti i cicli vengono soppressi e in cui la forza della tecnica, la forza orizzontale, sincronica della tecnica fa sì che, di colpo, tutti gli individui funzionino allo stesso ritmo.
Jean-Michel Besnier
Quello che dici non ci fa forse constatare che facciamo prevalere il progetto sulla vita? Pensiamo alla vita in termini di progetto. E ciò vuol dire che, per certi versi, si aggiorna sempre l’esistenza a un momento successivo, ci si trova in una dimensione un po’ sacrificale, si dice ai giovani: «Fate degli sforzi oggi, domani sarà meglio, noi che siamo più anziani ci troviamo già in quella dimensione». Dunque, a partire dal momento in cui si fa della vita un progetto, si suppone che in un certo momento vi sarà un punto finale. E il vecchio, lui, non è più nel progetto, è squalificato da questo punto di vista. Quando dicevi che in fondo si vuole che lo scorpione sia fedele alla sua natura, è come se vi fosse un’essenza e l’essenza dovesse realizzarsi, mentre di fatto gli indios del tuo villaggio non fanno della vita un progetto, essi fanno della vita qualcosa che è dell’ordine del ciclo, dove è il ritorno delle stagioni a scandire gli eventi. Da questa prospettiva, non vi è mai una gerarchia fra i vecchi e i giovani. Il vecchio ha forse un privilegio poiché ha già conosciuto i cicli, ed è per questo che non ci si trova nella posizione di poter squalificare il vecchio in questi villaggi e che stupisce lo si possa fare in altri contesti. Credo però che la dimensione prevalente della nostra società sia quella di una perpetua fuga in avanti. La modernità è proprio questo, una fuga in avanti. Tutto sarà migliore domani. E in quanto il vecchio ha contribuito a far arrivare questo domani, viene tollerato, ma a partire dal momento in cui non si trova più nel processo, in questa fuga in avanti, in questa sete di innovazione, beh, è fuori dai giochi.
Miguel Benasayag
C’è solo un punto su cui credo che non mettiamo in risalto la stessa cosa. Secondo me, quando lo scorpione punge, non è nel progetto ma nella realizzazione della sua essenza. L’istantaneità del progetto sarebbe che uno scorpione, invece di essere quel che è, proiettandosi nel futuro trovasse più interessante non pungere. Per il resto quello che dici è fondamentale poiché permette di comprendere un po’ quest’idea di progetto, che è l’idea attraverso la quale viene sottratto continuamente il presente. Per questo motivo dicevo che, in verità, la questione della vecchiaia è un dispositivo di analisi che consente di comprendere come si rubi in continuazione il presente di questi giovani, i famosi giovani di cui si parla. Il progetto si traduce nell’impossibilità di abitare il presente.
Quanto alla questione dell’«anziano» — io pretendo di essere un «anziano» e non un «vecchio» — vi racconto un aneddoto che ho vissuto mentre ero invitato da alcuni giovani cattolici che ogni tanto mi chiedono di far loro visita per parlare insieme. È accaduta una cosa incredibile. Un giovane — sono giovani cristiani, idealisti — mi fa una domanda. Loro vogliono sempre parlare della resistenza, della lotta armata contro i militari, quelle cose là. Io, sinceramente, non credo di essere una persona che sfrutti molto il suo passato. Al tempo stesso, però, l’esperienza della guerriglia e della prigione mi ha formato più di qualunque diploma. Dunque, un giovane mi dice una cosa incredibile: «Non capisco, da un punto di vista costi/benefici, il fatto di opporsi con le armi alla dittatura. Vi opponete alla dittatura perché volete una democrazia, ma che cosa succede se vi uccidono? Investite tutta la vostra vita, nell’ottica costi/benefici, rischiando di non ottenere un profitto equivalente al vostro investimento». È fantastico, giacché questo pensiero che consiste nel dirsi, concretamente, «ma quanto mi devo sbattere oggi rispetto a ciò che mi aspetto?» è proprio ciò che ci impedisce di abitare il presente. E la verità è che il vecchio è davvero nella merda, poiché se si pensa che l’oggi non conti e che la sola cosa che conti sia il domani, il vecchio, che non è più un anziano, è formattato come tutti in un presente immediato in cui la sola cosa che conta è il futuro, quindi il vecchio è fuori. Ma è proprio qui che è interessante vedere come, con questa perenne sottrazione del presente, anche i giovani siano fuori: i ragazzi sono fuori, gli uomini maturi sono fuori. È questo che è interessante vedere: come la vecchiaia palesi un meccanismo di sottrazione permanente. Non si abita mai il presente.
http://www.doppiozero.com/materiali/anteprime/ce-una-vita-prima-della-morte

HUNGRY HEARTS, QUANDO L’ISTINTO MATERNO SI AMMALA DI IDEOLOGIA. Esce oggi al cinema il film di Saverio Costanzo, storia di una madre ossessionata dall’integralismo alimentare al punto di far quasi morire di fame il suo bambino. L’intervista alla psicologa Silvia Vegetti Finzi 
di Laura Salonia, iodonna.it, 15 gennaio 2015

È un racconto che inizialmente respinge. Come può respingere l’idea di una madre che fa del male al suo bambino, anche se pensa di proteggerlo. Ma poi la narrazione diventa magnetica e ti costringe a seguirla, per capire quale sia la sua verità. Il film Hungry Hearts, di Saverio Costanzo, con Alba Rohrwacher e Adam Driver, vincitori entrambi della Coppa Volpi al 71° Festival di Venezia, esce al cinema oggi ma già se ne parla. Tratto dal libro di Marco Franzoso Il bambino indaco (Einaudi), parte da una storia d’amore ma si trasforma presto in un giallo psicologico. Jude e Mina si incontrano, si innamorano, lei resta incinta, si sposano e da quel momento qualcosa si incrina nel suo assetto emotivo. Fin dai primi mesi di gravidanza crede che quel bambino sia un essere speciale. Ma l’istinto materno di Mina le suggerisce qualcos’altro: quel figlio sarà dotato di poteri sovrannaturali e per preservarne la purezza deve proteggerlo da tutto ciò che è impuro, inquinato. Deve tenerlo lontano dal cibo, dal mondo, dalle persone… dalla vita. Isolamento, niente cibo solido, soprattutto niente carne, solo pochi e scarni alimenti assolutamente inadeguati a uno sviluppo sano e corretto. L’integralismo alimentare diventa ossessione e trasforma l’istinto materno nel suo esatto opposto, l’istinto di morte, fino a mettere in pericolo la vita stessa del bambino, facendolo quasi morire di fame. Sarà l’intervento del padre, ma soprattutto quello della nonna, a interrompere il pericoloso circolo vizioso.
Quello che è sempre stato definito l’infallibile istinto materno è davvero così fragile?
L’istinto guida le condotte essenziali (sopravvivenza e riproduzione) di ogni animale, ma l’umanità lo ha talmente elaborato da renderlo indistinguibile dalla cultura. Per quanto riguarda la maternità, occorre attivare le competenze innate, spesso sopite, con l’educazione e la sensibilizzazione.
Come può il desiderio di protezione per un figlio trasformarsi in ossessione e poi in follia, fino a metterlo a rischio di vita?
Viviamo nella società del perfezionismo e anche i figli devono corrispondere a un ideale per essere amati. Ma l’ideale è, per definizione, irraggiungibile. Di qui il rischio di un accudimento persecutorio che, per “il bene del bambino”, può nuocergli sino a ucciderlo.
Diventare madre può riportare alla luce disagi psicologici pregressi o irrisolti? Quali sono i segnali d’allarme?
La maternità, sin dal primo annuncio, riattiva il rapporto generazionale con la propria madre riportando alla memoria ricordi remoti, emozioni rimosse, conflitti irrisolti. Vi possono essere sintomi organici, come certe nausee incontrollabili, insonnia, inappetenza, oppure psichici, quali depressione, eccitazione, negazione della propria condizione di gestante. L’importante è favorire l’introversione delle energie con un lavoro di introspezione, immaginazione, prefigurazione del nuovo nato.
L’alimentazione controllata e ben gestita, come dalla maggior parte dei vegetariani e dei vegani, fa parte dei doveri genitoriali. A volte però, si trasforma in integralismo alimentare e poi in mania. Quali sono i sintomi e in che modo se ne può uscire?
Lo svezzamento è diventato un periodo a rischio perché alcune mamme lo trascurano mentre altre lo esasperano, come se attraverso il cibo potessero controllare in modo onnipotente la crescita del figlio. Il pericolo delle diete particolari è il “fai da te”, mentre in questi casi, più che mai, è necessario seguire le prescrizioni di medici seri e competenti.
Inquinamento atmosferico, contaminazione dei cibi, contagio delle malattie. Sono solo alcuni dei rischi che possono spaventare chi sta per diventare genitore. E sono ottimi spunti per piccole o drammatiche nevrosi… Come mettersi al riparo (e soprattutto metterne al riparo i nostri figli)?
I mass media hanno in proposito non poche responsabilità in quanto assumono spesso toni apocalittici che angosciano le mamme più sensibili e fragili. In realtà i dati statistici sono piuttosto confortanti: la mortalità infantile è minima rispetto alle generazioni precedenti, molte malattie, come le leucemie infantili, hanno raggiunto percentuali di guarigione impensabili sino a qualche anno fa, mentre la durata della vita si prolunga continuamente. Aver fiducia nella medicina scientifica è ragionevole e giusto.
Il ruolo del padre, per la psicanalisi, è tipicamente quello di “portare il figlio nel mondo”, interrompendo al momento giusto il rapporto dualistico, esclusivo, tra il neonato e la madre. In questo film, Jude capisce quello che sta accadendo e vuole proteggere il figlio, ma il ruolo risolutivo, benché drammatico, lo lascia a sua madre, la nonna (a sua volta madre…).
Ancora una conferma delle capacità risolutive (a volte sacrificali, come in questo caso) di molte donne? I giovani padri hanno abbandonato, giustamente, il ruolo autoritario del passato ma non lo hanno ancora trasformato in una presenza responsabile, forte e autorevole, per cui molte mamme rimangono sole a gestire l’impegnativa relazione col figlio. Ben vengano quindi le nonne a sostenere e, se il caso, sostituire la funzione paterna.
Il trailer
 
Per le foto:
http://www.iodonna.it/attualita/primo-piano/2015/hungry-hearts-istinto-materno-film-genitori-figli-50207181844.shtml
 

AUTOPSIA DELLO ZOMBIE 
di Damiano Palano, tysm.org, 16 gennaio 2015

E attraverso il rifiuto / attraverso i rifiuti / abbiamo trovato asilo / su mondi separati / e per comunicarci / il menù di domani / possiamo solamente / far segni con le mani / e fare le boccacce / d’un linguaggio inventato / che non emette suoni / emette solo fiato / con un po’ di paura / che un intellettuale / capisca anche il silenzio / e lo voglia svelare / e ci tolga la voglia / di non capire niente / vivendo come corpo / anche la nostra mente / sapendo che comprendere / vuole dire abbracciare / ma se l’abbraccio è morsa / vuol dire strangolare / sapendo che la morte / non è così lontana / siamo noi che l’amiamo / non è lei che ci chiama / perché siamo i fantasmi / del fantasma d’Europa / che di carne e di sangue ne ha conservata poca / e dice con sospiro / come un basso profondo / unitevi di nuovo / zombie di tutto il mondo».
Sul finire degli anni Settanta, gli «zombie di tutto il mondo» di cui Gianfranco Manfredi evocava l’unione erano naturalmente una metafora di ciò che rimaneva dei movimenti del «maggio strisciante» italiano. In un Lp che riprendeva in chiave satirica i titoli di alcuni film del periodo, il cantautore milanese non mancava infatti di sfruttare il successo di Dawn of the Dead, il secondo episodio della saga dedicata ai morti viventi da George A. Romero, uscito pochi mesi prima e distribuito in Italia da Dario Argento con il titolo Zombi (oltre che con una colonna sonora dei Goblin, ben più efficace di quella originale).
Per Manfredi la sinistra sagoma dello zombie diventava così il pretesto per fare dell’ironia (e soprattutto dell’autoironia) sul sogno coltivato durante un lungo decennio di mobilitazioni. Un sogno di cui in quella fase restava ormai solo qualche scampolo rabberciato, messo a dura prova dalla militarizzazione di alcune componenti del movimento e dal prorompente «riflusso». Tanto che il vecchio «spettro», che secondo Marx ed Engels si aggirava per il Vecchio continente, lasciava il posto alle assai meno romantiche movenze dei morti viventi, «fantasmi / del fantasma d’Europa / che di carne e di sangue ne ha conservata poca». Fantasmi di cui valeva ancora la pena auspicare l’unità, ma che certo parevano sempre più abissalmente lontani da quel nuovo ‘spirito del tempo’, che incominciava già allora a mostrare i propri contorni.
Nell’allegoria di Manfredi lo zombie assumeva evidentemente sembianze molto diverse da quelle che sembravano suggerire le sequenze di Dawn of the Dead. Nel film di Romero le orde di morti viventi, che affluivano con la loro goffa marcia verso un grande centro commerciale, parevano infatti alludere agli «uomini-massa» soggiogati dallo spettacolo ipnotico delle merci.
«Sono alla ricerca di questo posto», diceva d’altronde uno dei protagonisti della pellicola di Romero osservando la massa di zombie assiepata ai cancelli di quel tempio del consumo, ormai abbandonato: «Non sanno perché. Ricordano e basta. Ricordano che vogliono venire qui». Ma l’operazione che Manfredi operava sulla sagoma dello zombie non era certo la prima rielaborazione di cui l’immagine del morto vivente era oggetto, e non sarebbe stata neppure l’ultima. A ben vedere, infatti, lo zombie subisce una serie di radicali metamorfosi, e soprattutto quando entra a far parte della cultura popolare delle società occidentali – in gran parte proprio per merito di Romero – lo spettro del living dead è destinato a conoscere una serie quasi sterminata di utilizzi, nel corso dei quali spesso acquisisce nuove caratteristiche o esibisce aspetti in precedenza sottovalutati.
Probabilmente la storia dello zombie inizia in Africa, ma le tracce del percorso che poi lo condurrà a irrompere nell’immaginario delle società occidentali passano soprattutto per Haiti. Nell’isola, nel corso del diciottesimo secolo, lo zombie assume infatti le sembianze di un individuo ridotto a una condizione di morte apparente a causa di una polvere somministrata da malvagi sacerdoti, i quali riescono poi a risvegliare quegli individui, ormai privi di resistenza, per costringerli al lavoro dei campi. In questo immaginario popolare il morto vivente è probabilmente un simbolo della schiavitù e della stessa incapacità da parte degli schiavi di poter anche solo immaginare la libertà.
Ma da Haiti lo zombie sbarca negli Stati Uniti al principio del Novecento, con il romanzo di William Seabrook The Magic Island, per poi essere sfruttato anche dal cinema, in pellicole degli anni Trenta come L’isola degli zombies (1932) di Victor Halperin. In questa fase il morto vivente è comunque ancora – come nella tradizione haitiana, e prima ancora africana – un individuo drogato da qualcuno che ne vuole sfruttare lo stato di incoscienza.
È invece solo molto più tardi, proprio con il primo film di Romero, il celebre La notte dei morti viventi (1968), che lo zombie assume i connotati che poi diventeranno familiari: innanzitutto l’idea che gli zombie siano individui morti che, per motivi mai del tutto chiari, tornano a vivere; in secondo luogo, il motivo che rappresenta la condizione di zombie come in parte assimilabile a una sorta di epidemia, che si trasmette a seguito a un contatto con gli infetti; infine, l’attribuzione allo zombie dell’antropofagia, un espediente in virtù del quale i morti viventi vengono da allora in poi rappresentati come belve fameliche alla costante ricerca di carne umana.
È scontato rilevare come ognuno dei tratti, che a partire da Romero contrassegnano la sagoma dello zombie, abbia radici profonde, tanto che per molti versi il morto vivente eredita l’iconografia popolare del vampiro. Inoltre è certo che, nella rilettura operata da Romero, qualche ruolo sia stato svolto da uno dei più famosi romanzi di Richard Matheson, Io sono leggenda. Nel romanzo, pubblicato al principio degli anni Cinquanta, Matheson metteva infatti in scena un mondo ormai spopolato, in cui l’unico superstite era costantemente accerchiato da schiere di vampiri: i vampiri di Matheson avevano però ben poco a che vedere con il vecchio immaginario, perché si trattava di esseri umani contagiati da una misteriosa epidemia, probabilmente causata dall’utilizzo di armi batteriologiche concepite per finalità belliche. A partire dalla loro pubblicazione le pagine di Matheson hanno ispirato diverse pellicole, tra cui per esempio Omega Man (1971) di Boris Segal (film noto in Italia con il titolo 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra) e il più recente I am Legend (2007) di Francis Lawrence, nel quale peraltro i vampiri sono ormai divenuti veri e propri zombie.
Qualche influenza sul giovane Romero, che di lì a pochi anni avrebbe realizzato The Night of the Living Dead, ebbe probabilmente anche la prima trasposizione del romanzo sul grande schermo, L’ultimo uomo sulla terra (1964), di Ubaldo Ragona e Sidney Salkow, per molti versi la più evocativa (anche in virtù dell’ambientazione della vicenda nel quartiere romano dell’Eur). E forse non è neppure da escludere che qualche ruolo, nella metamorfosi dello zombie, si stato svolto anche da un piccolo cult movie come I Vampiri (1957) di Riccardo Freda, che ruppe con la tradizionale ambientazione gotica, collocando il vampiro in una città contemporanea. Ma il punto più significativo è che, combinando il mito haitiano dello zombie con i vampiri di Matheson, Romero riusciva a dar forma a una figura destinata a imporsi nell’immaginario occidentale e a conquistare sempre maggiore spazio con l’andare del tempo.
Fino agli anni Settanta gli zombie rimasero in fondo confinati a una piccola nicchia dei b-movies, ed è sufficiente pensare agli emuli italiani di Romero e in particolare al grande Lucio Fulci, che rivisitò in più occasioni il genere, in piccoli classici del cinema splatter comeZombi 2 (1979), Zombi 3 (1985) o Paura nella città dei morti viventi(1983). Ma solo più di vent’anni dopo la fortuna dello zombie incomincerà a conoscere un’autentica esplosione nella cultura popolare. Non solo perché lo zombie tornerà al centro di film come28 giorni dopo o di serie televisive come The Walking Dead, o perché verrà sfruttato da videogiochi, fumetti e romanzi di genere (oltre che nella narrativa più ‘rispettabile’, come nel caso di La strada di Cormac McCarthy). Ma anche perché la sagoma del morto vivente riaffiorerà persino nella stessa cultura ‘alta’, diventando per esempio oggetto delle riflessioni di filosofi e politologi, i quali – certo senza prendersi troppo sul serio – si interrogheranno sul successo di questa figura o la assumeranno come simbolo di una conflittualità assoluta.
Alcuni esempi di questa riflessione sono senz’altro due volumi recentemente tradotti in italiano La filosofia di zombie e vampiri. Una nuova vita per i non morti, un testo curato da Richard Greene e K. Silem Mohammad (Mimesis, Milano 2014), e Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso lo zombie, un saggio di Maxime Coulombe (Mimesis, MIlano 2014).
Nel primo dei due volumi si incontrano i contributi di intellettuali provenienti da percorsi disciplinari piuttosto eterogenei che – con qualche concessione alla goliardia – indagano i percorsi che conducono dal vampiro fino allo zombie contemporaneo, non senza volgersi verso i possibili significati che i morti viventi assumono nella cultura popolare americana. Ben più stimolante è invece il secondo lavoro, in cui Coulombe, sociologo e docente di storia dell’arte contemporanea all’Università francese di Laval, compie una sorta di ‘autopsia’ filosofica dello zombie, alla ricerca di una risposta al fascino che questa creatura dell’orrore esercita sull’Occidente contemporaneo. Benché forse non proprio sorprendente, la risposta che fornisce Coulombe è comunque interessante, ed emerge d’altronde già dall’enunciazione dell’obiettivo che l’autore del volume esplicita: «fare dello zombie un Virgilio, una guida per osservare la nostra società occidentale», una guida particolarmente efficace perché «sembra indicare le angosce e le paure della nostra società occidentale molto più che le sue speranze o i suoi sogni» (p. 14).
Ma Coulombe rifiuta una lettura schiacciata su un’unica interpretazione, perché – e qui coglie un punto importante – nello zombie «confluiscono immaginari a volte contraddittori che dinamizzano la sua figura», immaginari che lo intendono di volta in volta «cadavere e riflesso di noi stessi, mostro sanguinario e individuo traumatizzato, vittima e carnefice» (p. 15), senza che comunque sia mai riconducibile solo a una di queste varianti. Adottando alcune delle indicazioni metodologiche fornite da Georges Didi-Huberman, a partire dall’opera di Aby Warburg (cfr. sul punto L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino, 2006), Coulombe mostra che in effetti «lo zombie rappresenta perfettamente il frutto di un bricolage complesso che arriva a mescolare il mostro haitiano e l’individuo turbato, la bestia sanguinaria e il malato contagioso, la folla anonima e il doppio dell’uomo» (p. 33). Tutte le trasformazioni che la figura subisce nel corso del tempo – nel suo cammino dall’Africa ad Haiti, fino a giungere nel cuore dell’Occidente – hanno comunque significati che non possono essere ricondotti a una logica binaria, e cioè alla lotta fra due (e solo fra due) istanze contrapposte. «Noi infatti siamo convinti» – questa è la tesi di Coulombe – «che lo zombie non sia il risultato di una dialettica tra due desideri contraddittori; forse non è neppure soltanto una questione di desideri, ma anche di timori. Questi timori, distinti tra loro, costruiscono una creatura capace di aprirsi un varco in molteplici modi fino all’immaginario della nostra epoca. Seguire lo zombie come appare oggi nel nostro cinema, nei nostri romanzi e nelle nostre strade, significa capire che rispetto a questo stesso tema si sono espressi molti dei nostri interrogativi, dei nostri dubbi e dei nostri fantasmi. Questa la ragione per cui lo zombie ci affascina ed è così popolare, questa è la ragione per cui è anche un formidabile rivelatore della nostra epoca» (p. 37).
Per decifrare cosa si nasconda dietro il volto dello zombie, Coulombe segue in particolare alcune grandi piste teoriche. La prima – nonostante l’autore prenda in parte le distanze dalla logica dicotomica ravvisabile nella teoria del padre della psicoanalisi – è indicata da Sigmund Freud e dal suo celebre scritto sul «perturbante». Lo zombie in altre parole è legato, in questo senso, al paradigma dell’uomo traumatizzato, all’individuo che ha subito uno shock, e più in particolare lo shock causato – come voleva Walter Benjamin – dalla modernità. «L’appiattimento della soggettività e la difficoltà di vivere nuove esperienze segnano», secondo Coulombe, «l’orizzonte della nostra condizione (post)moderna» (p. 51). Una seconda pista conduce invece a rappresentare la cinematografia degli zombie come una sorta di rito carnevalesco, in cui si ribalta il codice ordinario della cultura contemporanea, fondato sul rifiuto della morte e della carne, anche se in un tale rovesciamento manca del tutto qualsiasi proiezione verso un futuro alternativo: «Ciò che si manifesta chiaramente nella figura dello zombie è una volontà, visibile nella risata, di rovesciamento delle costrizioni sociali. Tuttavia stiamo parlando di una volontà priva di progetto. Nel momento in cui la trama lo renderebbe possibile, l’orrore non riesce a trasformarsi in utopia. Essa non fa che liberarci mostrando i nostri obblighi, le nostre norme minate. In questo gusto per lo sfogo, in questa volontà di assistere alla fine del mondo occidentale, in questa incapacità di sognare, sopra le rovine dell’ordine stabilito, un altro mondo possibile, si manifesta una certa pulsione per la morte.
Qui arriviamo a toccare il nodo centrale fantasmatico che si incarna nel mondo contemporaneo ed è raffigurato nel cinema zombie: il desiderio di assistere, in mancanza della possibilità di sognare qualcosa di migliore, alla distruzione del mondo» (p. 81). Ed è questo motivo che conduce d’altronde a ritrovare, dentro l’immaginario di tutta la fantascienza apocalittica, un riflesso della freudiana pulsione di morte: «una parte di noi desidera la distruzione dell’umanità come modo – metaforico – di riprendere il controllo di un fenomeno che ci è generalmente imposto. Il sogno dell’apocalisse funziona come una pulsione di morte, non semplicemente comportando una distruzione dell’umanità, ma permettendo di liberarsi da una passività – sociale, politica, ecc. – imposta. La fine dell’umanità sarebbe il nostro riscatto, non ne saremmo più vittime poiché l’avremmo, almeno immaginariamente, sognato, sperato. D’un tratto essa potrebbe liberarci: il film dell’apocalisse ci mostra questo fantasma. La finzione ci permette qui una riscossa immaginaria» (p. 103).
Le considerazioni di Coulombe – talvolta davvero interessanti, in qualche caso non del tutto convincenti – meriterebbero un approfondimento ulteriore. Ma, probabilmente, meriterebbe anche uno sviluppo più articolato il richiamo dell’autore alla riflessione di Giorgio Agamben sull’homo sacer e sul fondamento biopolitico dell’intera esperienza occidentale. Nel discorso di Coulombe le ipotesi di Agamben sul ruolo costitutivo dell’«eccezione» e dunque sullo spazio di indeterminazione fra zoé e bios, tra la vita ‘animale’ e la vita ‘qualificata’ (propriamente umana), vengono utilizzate per interpretare l’orrore nei confronti dello zombie, come variante del medesimo orrore (o della pietà) che proviamo dinanzi a individui privati di bios, e cioè a individui ridotti a una condizione di «quasi vita». «Lo zombie è una figura immaginaria, il comportamento dei protagonisti nei suoi confronti fornisce indicazioni sulla nostra cultura. Qui la reazione dei protagonisti davanti allo zombie è molto simile alle reazioni che noi abbiamo di fronte a individui che si trovano in uno stato vegetativo irrimediabile, individui che non sarebbero, ormai e per sempre, che zoè» (p. 58). Intesa in questo senso, l’immagine agambeniana dell’homo sacer finisce evidentemente col diventare poco più di una caricatura, che peraltro smarrisce del tutto il riferimento al potere ‘sovrano’, come potere che agisce nello spazio di indeterminazione tra zoé e bios.
E in questo senso Coulombe non coglie alcune sollecitazioni pure molto importanti per sviluppare il suo progetto. È infatti molto probabile che proprio le ipotesi di Agamben potrebbero consentire di interpretare almeno alcuni frammenti dell’immaginario cresciuto attorno allo zombie. Come ha sostenuto Agamben in alcune sue pagine fondamentali, la macchina antropologica occidentale riesce a scoprire ciò che è proprio dell’essere umano solo grazie a un’operazione di esclusione, e cioè grazie alla fissazione di un confine tra la vita specificamente umana e la vita di qualcosa che, pur essendo vivo, non è qualificabile come «umano». In questa macchina è in gioco proprio «la produzione dell’umano attraverso l’opposizione uomo/animale, umano/inumano»: per questo, essa non può funzionare se non «attraverso un’esclusione (che è anche e sempre già una cattura) e un’inclusione (che è anche e sempre già un’esclusione)» (G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 42). Inevitabilmente, la possibilità di distinguere fra umano e inumano prevede uno spazio di indeterminazione. Ed è questo lo spazio che viene occupato da quella galleria di mostri – di cui lo zombie rappresenta l’ultima variante – che si presentano come al tempo stesso «umani» e «non (più) umani».
Nella passione che mostra per la sagoma dello zombie, la cultura popolare contemporanea non fa altro che riflettere il fascino e al tempo stesso la repulsione verso quella zona di indeterminazione, inevitabilmente ‘perturbante’. Ma è anche molto probabile che nel successo dell’immaginario dei morti viventi si trovino confusi tutti gli incubi dell’era biopolitica. Un’era in cui l’estensione globale dell’impero globale abbatte ogni barriera fisica tra il dentro e il fuori. E un’era in cui tutte le mitiche figure dell’estraneità – figure che in un passato neppure troppo lontano risultavano proiettate oltre i confini, o intraviste (forse solo immaginate) nelle misteriose foreste di remoti scenari esotici – vengono fatalmente introiettate. Tanto che nel famelico, bestiale eppure così familiare ghigno dello zombie possiamo riconoscere – ‘condensati’ come in un grande incubo notturno – tutti gli spettri della «natura umana».
http://tysm.org/autopsia-dello-zombie 

LIGURIA, PRESENTÒ LIBRO A CASAPOUND. POLEMICHE SU PORTAVOCE DELLA PAITA. “La mia identità di sinistra non è in discussione”: Simone Regazzoni ha risposto così alle accuse per l’incontro del 2012 tenuto nella sede dell’associazione di estrema destra

di Renzo Parodi, ilfattoquotidiano.it, 16 gennaio 2015 
“La mia identità di sinistra non è in discussione. Sono figlio di un operaio e sindacalista della Cgil, sono cresciuto nei centri sociali e l’unica mia candidatura politica è stata con i Disobbedienti di Casarini”. Simone Regazzoni, 39 anni, genovese, non l’ha presa troppo male. È il portavoce di Raffaella Paita, vittoriosa alle primarie liguri del Pd. Ma è anche un filosofo, professore a contratto di Estetica a Pavia, dopo un soggiorno parigino sotto le ali di Jacques Derrida. Nel 2012 Regazzoni aveva partecipato ad un dibattito organizzato da Casapound sul suo libro Sfortunato il Paese che non ha eroi. E quindi, oggi, apriti cielo. Non si va in casa del nemico, non si accetta il confronto con Casapound. Le accuse lo hanno investito come un treno in corsa. Regazzoni prova ad argomentare la propria difesa. “Intanto il dibattito risale al 2012 quando non avevo alcun incarico politico. Quella vicenda viene strumentalizzata e lo posso capire ma non ho nulla da rimproverarmi – dice a ilfattoquotidiano.it – Un filosofo nello spazio pubblico ha il dovere etico di non sottrarsi ad alcun confronto di idee, in particolare di quelle difficili”. Regazzoni cita Giulio Giorello, studioso certamente di sinistra che prima di lui ha accettato il confronto con Casapound. E del giornalista Luca Telese, pure lui disposto ad affrontare il nemico ideologico senza farsi scrupoli di sorta. E tuttavia la sua posizione di portavoce di un esponente del Pd qualche imbarazzo glielo ha creato: “Indubbiamente: se si vuole giocare con i contenuti di un libro è facile farlo. E comprendo che una volta scesi nell’agone della politica si fanno considerazioni diverse. Ma, ripeto, ho la coscienza a posto”. E Raffaella Paita come l’ha presa? L’attacco, dopotutto, è diretto a lui, che è già è alle prese con le polemiche sui voti che si sospettano comprati in blocco e con le sue aperture sfacciate al centrodestra: “Mi ha detto di andare avanti e di fare tutto ciò che ritengo giusto fare”. Cosa contiene di tanto stuzzicante per la destra estrema il suo libro? Il titolo capovolge la celebre sentenza di Bertolt Brecht sugli sventurati Paesi che hanno bisogno di eroi: “Brecht aveva condensato in quella frase la classica visione di sinistra ostile all’eroismo come valore estraneo alla sua cultura – spiega – Io riporto invece la figura dell’eroe in una dimensione etica, seguo l’insegnamento di Lacan. Nel libro tento di sottrarre i valori dell’eroismo e del coraggio alla destra, che da sempre ne ha fattole sue bandiere. Cerco di dimostrare che esiste un’etica dell’eroismo e del coraggio anche a sinistra che è quella di chi vuole andare fino in fondo, difendendo le proprie convinzioni, al di là di ogni calcolo. Il mio eroe di sinistra ha una dimensione etica e si rifà ad un filosofo francese della sinistra, Alain Badiou. Anche Sartre e lo storico italiano Pavone concordano con questa visione”.
Nessuno scandalo, dunque, insiste Regazzoni. Che sulla copertina del libro ha voluto l’immagine di Clint Eastwood. “Eastwood per la sinistra è stata l’icona di una certa cultura americana di destra. Nel corso degli anni anche gli intellettuali di sinistra lo hanno riabilitato e i suoi film oggi sono considerati politicamente corretti e tutt’altro che reazionari. Nel mio libro faccio una provocazione e chiedo: è possibile compiere lo stesso percorso di Eastwood anche da noi? A Casapound avevo chiesto se ritenevano esistesse un eroismo dei partigiani durante la Resistenza e la risposta era stata: sì”. Chi è l’eroe contemporaneo assimilabile a questo schema? “Barack Obama, a cui ho dedicato il secondo tomo del mio lavoro, edito da Ponte alle Grazie. Obama ha avuto il coraggio di imporre la propria visione anche a costo di perdere consenso nell’opinione pubblica americana. Ha mostrato quello che io chiamo l’etica della responsabilità”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/16/primarie-liguria-portavoce-paita-presento-libro-casapound-sinistra/1344999/

PORTARE IL FUOCO: LA FAMIGLIA RACCONTATA AL CINEMA. A Milano, l’Associazione Jonas e Anteo spazio Cinema danno il via a una rassegna che affronta i lati oscuri del rapporto genitori e figli 
di Benedetta Verrini, iodonna.it, 16 gennaio 2015

Dove affrontare il rapporto tra genitori e figli, le nuove conformazioni familiari, la liquidità dei legami? Sul lettino dello psicoanalista o… in una sala cinematografica. Nessuna sorpresa: gran parte della riflessione sui cambiamenti socio-familiari della nostra epoca, terreno d’indagine per la psicoanalisi, è stata rappresentata anche dal cinema. Di più: nel suo percorso storico, la produzione cinematografica ha saputo quasi profeticamente raccontare i cambiamenti sociali e far emergere temi complessi e profondi dell’animo umano, incontrando l’esperienza parallela della clinica psicoanalitica. A Milano Jonas Onlus, il Centro di clinica psicoanalitica per i nuovi sintomi fondato da Massimo Recalcati, insieme con il progetto Gianburrasca dedicato ai più piccoli, offre la possibilità di riflettere sul tema della genitorialità attraverso una rassegna cinematografica. Qual è oggi il posto del genitore? Come affrontare i mutamenti in atto?
Il progetto, intitolato Portare il fuoco (dalle parole del celebre libro di Cormac McCarthy, La strada, in riferimento all’eredità paterna), è organizzato in collaborazione con Anteo spazioCinema e prevede quattro serate in cui uno psicoterapeuta e un critico cinematografico affronteranno un film che illumina aspetti diversi della complessa sfida di essere genitori oggi.
Si comincia martedì 20 gennaio, alle ore 19.30 con The Road di John Hillcoat.
Il film, tratto dal libro di Cormac McCarthy, racconta la storia di un padre e un figlio in viaggio verso sud, che cercano di sopravvivere in uno scenario post apocalittico. La riflessione sulla serata, affidata a Massimo Recalcati e Andrea Bellavita, semiologo, critico cinematografico, Università dell’Insubria Varese, affronta i temi dell’eredità paterna e del “complesso di Telemaco” recentemente illustrato in un libro dallo stesso Recalcati.
Giovedì 5 febbraio alle ore 19,30 si proietta invece Mommy di Xavier Dolan.
Premio della Giuria al Festival di Cannes, il film racconta di un complesso rapporto tra una madre e un figlio iperattivo, in un possibile futuro prossimo, in cui una legge consente ai parenti di minori difficili, in caso di emergenza, di effettuare un ricovero coatto presso un istituto psichiatrico, saltando la procedura legale. Intervengono Uberto Zuccardi Merli, psicoanalista, e Andrea Bellavita.
Giovedì 5 marzo alle ore 19,30 appuntamento con Quel che sapeva Maisie di Scott McGehe. Gioiellino indie presentato a Toronto nel 2012, il film rispetta pienamente l’analisi sociale del romanzo di Henry James, folgorante narratore dei rigidi rituali sociali della borghesia americana di fine Ottocento, trasponendoli in una New York contemporanea, con il punto di vista di una bambina di sei anni che descrive le fragilità familiari tra divorzio e nuove figure accudenti. Intervengono Nicolò Terminio, psicoterapeuta, e Andrea Bellavita.
Ultimo appuntamento mercoledì 15 aprile alle ore 19,30 con Hungry Hearts di Saverio Costanzo. Il film, pluripremiato al Festival del Cinema di Venezia e interpretato da Alba Rohrwacher, affronta un lato oscuro dell’amore materno che porta alla iperprotezione e la deriva del rapporto di coppia. Intervengono Maria Barbuto, psicoanalista, e Andrea Bellavita.
La rassegna si svolgerà all’Apollo Spazio Cinema, galleria De Cristoforis 3, Milano, tel. 02/780390 Ingresso: € 8.00 – Abbonamento a quattro proiezioni: € 18.00 http://www.iodonna.it/attualita/vivere-meglio/2015/film-giovani-05-50209028616.shtml
 

EGOISTE ED ALTRUISTE: LO SGUARDO DI LOU ANDREAS SALOMÉ 
di Francesca Bolino, il-volo-della-mente-d.blogautore.repubblica.it, 16 gennaio 2015

“L’egoista che domina e raccoglie per sé quanto più possibile, come pure l’atruista che a questo massimo di possibilità si dedica partecipandovi, balbettano entrambi in fondo, ciascuno nella propria lingua, la medesima preghiera rivolta allo stesso dio e, in questa preghiera, amor proprio e oblio di sé si confondono indistintamente: “voglio avere tutto” e “voglio essere tutto” esprimono, in un loro significato estremo, lo stesso desiderio nostalgico”. Ecco. Parole di Lou Andreas Salomé (scrittrice e psicoanalista russa che affascinò e incantò Nietzsche, Freud e Rilke) si interroga sulla natura dell’amore in un libretto molto prezioso (Riflessioni sull’amore, mimesis).
Lou Salomé ci dimostra che, in fondo, né l’egoista né l’altruista raggiungeranno il loro traguardo perché nel loro pensiero e dunque nelle loro azioni si cela una contraddizione: per superare i limiti del loro modo d’essere, l’egoista dovrebbe essere non-egoista e tuttavia se stesso, il non-egoista dovrebbe essere egoista e tuttavia se stesso. “Sono sempre i nostri muri quelli contro cui urtiamo e su cui proiettiamo la nostra immagine del mondo”. Una riflessione, un’esortazione molto femminile, a rimanere fedeli a noi stesse, a non spaventarci di fronte alla solitudine del pensiero che coglie chi di noi, sceglie e decide di mettersi fuori dal flusso e si ferma, ma solo per pensare…
http://il-volo-della-mente-d.blogautore.repubblica.it/2015/01/16/egoiste-ed-altruiste-lo-sguardo-di-lou-andreas-salome/
 

IL DESTINO DELL’HAREM. Esce in Francia, all’indomani dei sanguinosi fatti di Parigi il libro dell’antropologo e psicoanalista Malik Chebel «L’incoscient de l’Islam» 
di Anna Maria Merlo, ilmanifesto.info, 17 gennaio 2014

Lo psi­coa­na­li­sta Jac­ques André vede nel mas­sa­cro della set­ti­mana tra­gica pari­gina «molte cose che riguar­dano la vio­lenza dell’adolescenza», che cor­to­cir­cuita il pen­siero. «L’inconscio è un sel­vag­gio – aggiunge – mai la demo­cra­zia sarà l’erede dell’inconscio, si farà sem­pre con­tro di esso, non c’è né egua­glianza né fra­tel­lanza nell’inconscio. E se esi­ste una libertà, è asso­luta e non addo­me­sti­cata» (Libé­ra­tion, 14 novem­bre). Lo psi­coa­na­li­sta e antro­po­logo delle reli­gioni Malek Che­bel, autore di una nuova tra­du­zione del Corano e, tra l’altro, di vari libri sull’erotismo e l’amore nell’islam, ha appena pub­bli­cato L’inconscient de l’islam (Cnrs Edi­tions, pp.121, euro 15,90). Che­bel va alla ricerca della fra­gi­lità affet­tiva ed emo­tiva del mondo arabo di fronte al pro­gresso e s’interroga sulle radici del legame, anche osses­sivo, con pra­ti­che reli­giose del pas­sato. Indaga anche «l’aggressività che ne deriva, iso­lata o di massa». All’origine, c’è il sen­ti­mento di colpa e la tra­sgres­sione: Che­bel parla della guerra santa sviata, dell’esacerbazione della figura del kami­kaze, della vio­lenza sim­bo­lica esi­stente nella rela­zione madre-figlio, della cen­sura, dell’immolazione in nome di una puri­fi­ca­zione sacra, per cer­care di fare un po’ di luce nelle rela­zioni tra islam e modernità.
«La colpa e la tra­sgres­sione sono dati cru­ciali per una vera com­pren­sione dell’islam», afferma Che­bel. Nel Dic­tion­naire des idées réçues, Flau­bert aveva scritto: il Corano è «il libro di Mao­metto dove si parla solo di donne». Il libro di Che­bel ini­zia con l’analisi del con­cetto di «guerra santa» e, mal­grado la for­mula un po’ appros­si­ma­tiva di Flau­bert, ci porta imme­dia­ta­mente al cen­tro della que­stione fem­mi­nile: «il Corano evoca rego­lar­mente la donna, ma uni­ca­mente per rin­chiu­derla tra la colpa e la tra­sgres­sione». La guerra santa non è stata fatta solo per isla­miz­zare il mondo pagano.
Sullo sfondo, c’era soprat­tutto il pro­getto di popo­lare l’harem con gio­vani donne venute da altrove. Una decli­na­zione del Ratto delle Sabine, che oggi ha ancora dei suoi deri­vati: «qual è la vera natura della guerra santa a cui si aggrap­pano gli jiha­di­sti di oggi, adepti del matri­mo­nio tem­po­ra­neo?» (è suc­cesso in Alge­ria nel corso de decen­nio nero degli anni ’90, accade dove domina l’Isis). L’harem, regno chiuso delle donne dove si costrui­sce una sorta di contro-potere, il ser­ra­glio, luogo dell’incontro, deter­mina un destino di schia­vitù: le donne ven­gono rin­chiuse, con lo scopo di pro­teg­gere la loro purezza, senza chie­dere il con­senso. Oggi l’harem nella realtà appar­tiene al pas­sato, ma l’eredità che ha lasciato con­ti­nua a lavo­rare l’inconscio: «l’erotismo orien­tale è figlio di un desi­de­rio con­tra­riato – scrive Che­bel – l’assenza di spazi misti, l’educazione sepa­rata di ragazze e ragazzi e, soprat­tutto, la neces­sità per le ragazze di non com­pro­met­tersi ses­sual­mente prima del matri­mo­nio, sono i prin­ci­pali assi di defi­ni­zione dell’erotismo, che lo limi­tano alla sola fun­zione riproduttrice».
Nell’antico schema, che mal­grado tutto soprav­vive, la donna trova il suo posto nella fami­glia, nella società, solo gra­zie al figlio (maschio). «Non è tanto la madre che dà vita al figlio maschio quanto il figlio, per­ché è di sesso maschile, che dà vita alla madre». La madre tra­sforma lo spi­rito materno in uno spi­rito «ma(n)terno», sostiene Che­bel, cioè si com­porta come un man­tra reli­gioso. Il bam­bino nei primi anni di vita resta nell’harem, i legami fisici con la madre sono for­tis­simi. Il bam­bino arabo è onni­po­tente? «La rela­zione arcaica madre-figlio è fon­da­trice di un ordine com­plesso che fun­ziona come una pre­fi­gu­ra­zione dell’individualità araba, dei suoi ava­tar di egoi­smo spro­por­zio­nato e dell’aggressività di cui l’uomo dà prova nei con­fronti delle figlie, delle sorelle e delle amanti». Per Che­bel, «il ma(n)terno è, nella società araba, un ciclo par­ti­co­lare di inte­rio­riz­za­zione della Legge sociale, prima di diven­tare la legge sociale stessa. Que­sto ciclo ha come base il rife­ri­mento al Padre, ma è il fem­mi­nile che lo mette in scena, che lo dram­ma­tizza». La subli­ma­zione resta schiac­ciata sul reale, si con­fonde con esso, impe­dendo la distanza cri­tica con l’attività dello spi­rito. Lo dimo­stra la vicenda delle Mille e una notte, «una meta­fora del sogno impos­si­bile degli arabi, un motivo di supe­ra­mento di sé e di ele­va­zione». I rac­conti di She­he­ra­zade «raf­for­zano attra­verso la loro vita­lità l’umiliazione che gli arabi hanno subìto dal loro declino, che è sim­bo­li­ca­mente ini­ziato a Gre­nada nel 1492». L’ultimo calif­fato è finito nel 1923. Tra puri­fi­ca­zione e immo­la­zione, tra la figura del capro espia­to­rio che oscilla tra colpa a tra­sgres­sione (il tuni­sino Boua­zizi, che si è immo­lato con il fuoco, scin­tilla che ha dato il via alla con­te­sta­zione con­tro il regime di Ben Alì) e l’alienazione del kami­kaze che nega l’umanità nelle sue vit­time, l’inconscio lavora sul fondo, men­tre i discorsi fatti dei poli­tici, la loro cor­ru­zione, la vio­lenza delle isti­tu­zioni difen­dono un ordine che è ormai vuoto di senso. I gio­vani si ribel­lano, ma molti sono ancora all’interno del cir­colo mor­ti­fero della colpa e della trasgressione.
http://ilmanifesto.info/il-destino-dellharem

VIAGGIO DALL’IO AL NOI PER DIVENTARE UMANI. Massimo Ammaniti indaga i meccanismi della convivenza che comprendono anche empatia, convenienza, istinto di imitazione 
di Roberto Esposito, repubblica.it, 18 gennaio 2015

Secondo Freud, gli istinti individuali si contrappongono alle esigenze sociali, cosicché solo sacrificando il principio del piacere a quello di realtà gli uomini possono dare luogo alla convivenza. Ma se le cose stanno così, se è vero, come ha affermato Sartre, che “l’inferno sono gli altri”, dove si origina l’interdipendenza umana che ha consentito il formarsi della civiltà? Se non vogliamo rispondere a tale domanda con la fantasiosa teoria hobbesiana del patto sociale, siamo costretti ad ipotizzare, accanto a quello egoistico, un altro istinto, altrettanto intenso, di empatia verso gli altri. È questo il presupposto da cui prende le mosse Massimo Ammaniti nel suo ultimo libro, edito dal Mulino, Noi. Perché due è meglio di uno.
Per continuare:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/01/18/viaggio-dallio-al-noi-per-diventare-umani52.html?ref=search  

L’AMORE INGANNEVOLE DI KIERKEGAARD 
Il saggio di Luigi Campagner L’inganno nell’amore. Le figure della seduzione in Kierkegaard offre gli elementi per capire ancora di più sul filosofo danese 
di Luca Ribolini, ilgiornale.it, 18 gennaio 2015

Immaginatevi di incontrare Søren Kierkegaard: come sarebbe un appuntamento con l’autore di Aut-Aut e Timore e tremore? Il saggio di Luigi Campagner L’inganno nell’amore. Le figure della seduzione in Kierkegaard (Odon, 2014) offre gli elementi per una risposta fondata. La preparazione filosofica e la competenza, pratica e dottrinale, di analista dell'autore sono felicemente alleate. Il libro è poi un lavoro d'équipe che si appoggia ai testi del filosofo danese e a contributi di vari soggetti: dapprima i curatori delle edizioni e traduzioni in Italia delle opere di Kierkegaard come Cornelio Fabro, Remo Cantoni, Gianni Guerrera; poi Sigmund Freud, Jacques Lacan e altri psicoanalisti quali Giacomo B. Contri e Maria D. Contri; infine autori della portata di Kant, de Sade, Schopenhauer, Hegel, Weber. Campagner avverte: incontrando il filosofo danese ci imbattiamo in un uomo melanconico, dotato di talento letterario e acutezza psicologica. Un uomo che in maniera eloquente e brutale dice di sé nel Diario: «Non ripeterò mai abbastanza che io sono un poeta, ma di una natura del tutto speciale; perché la dialettica è la determinazione essenziale della mia natura e la dialettica è per essenza estranea al poeta. Destinato fin dalla prima infanzia a una vita di pene, come forse pochi appena riescono a immaginare; immerso nella più profonda malinconia e da essa una volta spinto alla disperazione, io capii che il mio compito era di fare lo scrittore. L’ideale etico era ciò che mi entusiasmava – ahimè, io fui impedito di realizzarlo nella sua forma perfetta, perché ero stato infelicemente messo fuori dall’umano in generale. Se l’avessi potuto, sarei diventato immensamente orgoglioso… Non potei frenare la mia attività letteraria: io la seguii…, ed essa sfociò per logica di idee nella religiosità. Allora compresi il mio dovere di far penitenza servendo una cosa molesta, un lavoro umanamente ingrato, con sacrificio di tutto». Come si noterà, ripetizione, sacrificio e trascendenza sono termini rilevanti nelle pagine di Kierkegaard. E come finirebbe il nostro ipotetico appuntamento? Se non fossimo accorti, in un inganno infruttuoso. Il titolo del saggio è indicativo e rimanda a due relazioni centrali nella vita del filosofo danese: quella col padre e quella con la fidanzata Regine Olsen. Si tratta di due casi di incantamento con conseguente soggezione. Nei confronti del padre l’incantamento è subìto, con un resto inesausto di ribellione; con Regine l’incantamento è simile, non è riuscito, ma è lo stesso umiliante per la donna ed è proteso a una perfezione religiosa tale da non far accadere niente di soddisfacente per i partner – per Kierkegaard la stessa risurrezione non ammette differenze sessuali –. Di qui, cioè dal nesso nel pensiero del filosofo tra amore professato e inganno perseguito, la diagnosi di perversione da parte di Campagner. Il saggio ha vari meriti: mostra perché Kierkegaard è tra gli autori più influenti del nostro tempo, aiuta a individuare nella mentalità comune le idee che ci impediscono di fare dei rapporti un’occasione di soddisfazione e invita a riflettere su come – e se – traiamo profitto dai nostri incontri quotidiani.
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/l-amore-ingannevole-kierkegaard-1083909.html  

DON GIOVANNI E IL DISGUSTOSO FASCINO DELLA BULIMIA SENTIMENTALE 
di Elisabetta De Dominicis, lavocedinewyork.com, 18 gennaio 2015

Ci vuole una vita intera per fare i conti con un Don Giovanni, perché nel nostro cuore non muore mai. Ma lui i conti li ha sempre saputi fare benissimo, perché il suo unico credo è: “Due più due fa quattro”. E tutto quello che ha saputo fare è stato tenere il conto delle donne sedotte. Ci vuole una vita intera perché Don Giovanni è dentro di noi, il nostro lato oscuro, donne o uomini che si sia. Il suo fascino è ancestrale e immortale, ma ognuno di noi deve saperlo uccidere, come il Convitato di Pietra, per affrontare la propria vita e le proprie relazioni sentimentali. E capire che sul tavolo della cena si banchetta l’amore, per divorarlo. Alessandro Preziosi, attore molto amato per la sua bellezza, è riuscito a farci vedere quanto sia disgustoso il fascinoso seduttore, interpretando Don Giovanni di Molière al teatro Rossetti di Trieste in questi giorni. Preziosi riesce a metterlo a nudo rivelando che Don Giovanni è solo la parodia di se stesso, perché è un personaggio che recita la vita, inganna e si inganna. Davanti ai nostri occhi meschinità, infantilismo, narcisismo, ipocrisia: il seduttore non c’è più. Tanto che viene da chiedersi: e questo ho amato, per questo ho sofferto?
Un archetipo potentissimo che attrae, secondo lo psicanalista Claudio Risè, soprattutto le donne più intelligenti e fantasiose. Nel suo saggio Don Giovanni, l’ingannatore. Trappola mortale per donne d’ingegno, uscito una decina d’anni fa, spiega che è proprio la donna intelligente e fantasiosa e cadere nelle sue grinfie. Entrambi sono dei ribelli e vogliono sovvertire l’ordine costituito: si legano in un’oscura complicità, ma alla fine è la donna a farne le spese, perché una volta sedotta viene abbandonata.  Perde anima e corpo, lui non perde nulla e si diverte. A Don Giovanni interessa la conquista, come atto materiale e rafforzamento del suo maschile. Infatti è in competizione con il padre e con il mondo maschile nel quale vuole primeggiare. Ecco perché non ha paura di nessuno, è valoroso, si getta con la spada nella mischia. Dando appunto alla donna un’immagine virile che l’affascina. Peraltro il suo desiderare sempre, ognuna, lo porta ad essere tanto desiderato e miete vittime a ogni passo. È un “passante dell’amore”, un nomade sentimentale che non mette mai radici perché è un instabile affettivo. E affascina proprio con il fascino dell’assenza, che permette alla donna di fantasticare sulle sue imprese grandiose.
Quest’opera scritta nel ‘600, preannuncia l’epoca del consumismo: la donna è un oggetto che va consumato. Don Giovanni vive come ogni consumatore non nel presente, ma nell’istante. È un bulimico dell’amore quanto del cibo, infatti consuma il pasto divorandolo da solo, non è capace di condividere con nessuno. E quando invita a cena la statua del Commendatore, il padre di una donna da lui sedotta e da lui ucciso, lo fa perché sa che non potrà andarci. Ma accade l’imperscrutabile: il Convitato di pietra si presenta, non è lì per mangiare, ma lo invita a cena da lui. Don Giovanni che non ha paura di nulla, si presenta: sfida la morte e viene folgorato. L’ostinazione nel non aver voluto redimersi, cambiare, l’ha condotto proprio a quello che negava nel suo delirio di onnipotenza: la morte. Oggi è facile imbattersi in uomini e donne Don Giovanni part-time. Hanno una relazione stabile, ma utilizzano un comportamento dongiovannesco per distrarsi con alcune avventure. Prendono, consumano e via. Spesso si perdono e non si ritrovano fino a che qualcuno o qualcosa non gli presenta il conto.
http://www.lavocedinewyork.com/Don-Giovanni-e-il-disgustoso-fascino-della-bulimia-sentimentale-/d/9464/
 
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente a questi link:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788 

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com

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