Di un uomo che ride, di neri serpenti, di uno Spirito nella bottiglia: una schizofrenia in analisi

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17 dicembre, 2018 - 17:37
Conosci la misura, o il grado del vaso della nostra opera,      
 perché il vaso è la radice e il principio del nostro magistero.
 E questo vaso è come la matrice negli animali,
 perché in quella essi generano, concepiscono
 e parimenti nutrono la generazione.
Perciò se il vaso del nostro magistero non è idoneo,
 tutta l'opera è distrutta…( 1 )

Per introdurre

 
Un tempo codesta malattia veniva designata col nome non del tutto appropriato di “demenza precoce” datole da Kraepelin. Bleuler la chiamò più tardi “schizofrenia”. Sventura volle che questa malattia fosse scoperta dagli psichiatri, giacché è a questo fatto che si deve la sua prognosi apparentemente infausta: “demenza precoce” è infatti sinonimo di malattia incurabile ( 2 ).
 
Ho scelto di dare inizio a questo mio contributo con una delle più sbilanciate affermazioni di Jung a proposito della schizofrenia. La citazione allude rudemente ai due interrogativi di fondo che deve porsi chiunque si cimenti in trattamenti analitici di questa forma di psicosi:  
-   l’inenarrabilità e l’irrappresentabilità, diffusamente ritenute emblematiche dell’essere al mondo dello schizofrenico, sono dati fenomenici apodittici o lasciano spazio a comprensibilità e dinamismo?
-   il calore cui viene esposto il terapeuta è un fuoco che non può che bruciare chi si appressa, o è l’unica condizione da sperimentare per generare trasformazioni significative?
Tento di rispondere, o almeno di dare indicazioni dal vertice di quella che amo definire l’artigianale misura per attuare il possibile, lasciandomi guidare da una articolata esperienza clinica.
Affronto il tema dell’Umwelt inteso come luogo-metafora della nascita delle rappresentazioni mentali, descrivendo l’emersione di varie forme di esse in un rapporto analitico, in cui si intersecano una schizofrenia, l’apporto del Gioco della Sabbia, una supervisione in corso, nonché scelte senz’altro eterodosse, altrimenti considerabili come necessarie estensioni dei limiti del co-rappresentare in analisi.
Rappresentare, sosteneva Tommaso d’Aquino, « significa contenere la similitudine della cosa » ( 3 ); pregnante definizione del Simbolo junghiano, se per contenere si intende letteralmente un esporre in una relazione,  pur continuando a tenere dentro, in modo che non vi sia mai un’esplicitazione definitiva, che significherebbe la dissoluzione del Simbolo. Rappresentazione, quindi, in un processo in fieri, identifica l’oggetto o il contenuto della psiche nel continuo dinamismo dell’azione conoscitiva, il guardarsi-dentro e il guardare-con.
La terminologia che fa ricorso all’Umwelt è di marca fenomenologica, e scelgo, in questo scritto, di giocare una continua intersezione tra psicologia analitica ed ermeneutica fenomenologica, dove l’una fecondi l’altra; lo ritengo particolarmente utile. Paradigmi ed esegesi a confronto, cifre che cercano uno sguardo d’intesa e trovano luoghi comuni, nel caso che descrivo in questo scritto, nella significatività di una relazione terapeutica forte.
Fondamentale, però, è guardarsi da quella distaccata esplorazione o descrizione che fa la differenza tra il bello e freddo osservare e la condizione in cui l’esperienza terapeutica con lo psicotico trascenda l’a-simmetria, fino a che il terapeuta riesca a
 
…porsi accanto al paziente psicotico in uno stato d’animo, da identificarsi con lui e da ricomporre se stesso nella ricomposizione del paziente. Egli deve far sentire a questi…la dualità delle esperienze psicotiche; ossia, nella terminologia junghiana, l’universalità degli archetipi ( 4 ).
 
Ma si può interpretare una psicologia analitica archetipica di tipo distante, direi anzi siderale, così come se ne può  esprimere una di tipo concretamente transitivo ( e mi auguro di fornirne qui una dimostrazione fruibile ).
Del resto, così come esiste una  ermeneutica psicopatologica calda ed una fredda, occorre ammettere che è esprimibile, nella pratica, sia  una ermeneutica psicologico-analitica calda che una fredda. A quest’ultima noi aderiamo, come psicologi analisti, quando ci abbandoniamo ad un furore adesivo al padre fondatore, più o meno complessualmente fascinati dai grandi enunciati. Così cerchiamo dopo aver già deciso cosa troveremo, piuttosto che rammentare l’inesauribile lezione clinica e le drammatiche esperienze daimoniche  patite proprio da Jung al Burgholzli:
 
La terapia è diversa in ogni caso. Quando un medico mi dice che segue rigorosamente questo o quel metodo, ho i miei dubbi sull’efficacia della sua terapia. E’ stato scritto tanto sulla resistenza che oppone il malato, da far sembrare quasi che il medico voglia tentare di imporgli qualcosa, mentre la cura dovrebbe provenire spontaneamente dal malato stesso. La psicoterapia e l’analisi variano tanto quanto gli individui umani ( 5 ).
 
Orbene gli esempi, per essere incisivi,  non possono che puntare a un forte impatto e a riferimenti storicizzabili, per cui faccio ricorso a una osservazione algida, partorita dal più grande classificatore della storia della psichiatria, Emil Kraepelin; egli si riferisce proprio alle schizofrenie ( per lui ancora demenze precoci ) di tipo catatonico, in un passo che impietrisce, appunto, chi legge:
 
Molto distintamente si può dimostrare in tali stati il grave disturbo volitivo, quando si domanda agli infermi di mostrare la lingua per pungerla con uno spillo. Benché vedano lo spillo e comprendano perfettamente ciò che sta per avvenire, ad un comando reciso tirano fuori, immancabilmente, la lingua. Spesso si può ripetere a volontà tale esperienza sempre col medesimo risultato. Gli infermi contraggono in modo doloroso il viso ad ogni puntura ma non sono capaci a sopprimere l’impulso determinato dal comando, o a sottrarsi in altro modo al dolore che li minaccia ( 6 ).
 
Lascio a Stefano Mistura un caustico commento, tratto dalla sua introduzione al fondamentale volume sulla Schizofrenia di Eugène Minkowski:
 
Non mi pare ci sia bisogno di commenti circa l’assurdità del comportamento dello psichiatra punzecchiatore. Senza contare che se il paziente non avesse tirato fuori la lingua, avrebbe probabilmente detto trattarsi di un “negativista”! …Le pagine del Trattato  sono piene di riferimenti ad esami di pazienti che somigliano a vere e proprie torture, ma Kraepelin, col suo atteggiamento distaccato e neutrale, riesce sempre ad attribuire a chissà quale alterazione quel determinato comportamento... sono decine i giudizi di valore, più che clinici, che tendono a invalidare, sconfessare, svilire, sminuire i pazienti ( 7 ).
 
Restando in argomento storico, quindi, se ne deduce che dalla fucina del Burgholzli emersero Minkowski per l’ermeneutica psicopatologica e Jung per quella analitica; ad essi va riconosciuta la primogenitura nel trattamento non biologico delle schizofrenie. Così come si restituisce obiettività alla storia se, pur dovendogli riconoscere alti meriti, si deve rimarcare che Bleuler fu incapace di operare una scelta netta e non riuscì a evitare un atteggiamento supino e ambiguo  rispetto alla dominante psicopatologia tedesca:
 
A lungo andare non si può apprezzare un comportamento del genere, perché quelli che amiamo avere intorno sono uomini e non maschere di complessi… Adesso striscia letteralmente sul ventre davanti ai padreterni tedeschi ( 8 ).
 
Sempre Jung, a proposito dell’atteggiamento di Bleuler rispetto all’autismo, si spinge ad affermare :
 
L’autismo di Bleuler è molto equivoco e oscurissimo dal punto di vista teorico. Il termine giusto per definirlo è senza dubbio “inconsistente” ( 9 ).
 
In definitiva, anche Bleuler fissa la sua esplorazione alla descrizione, anziché puntare alla trasformazione dell’osservazione in terapia e degli enunciati in rivoli dirigibili verso il grande alveo della nascente psicoanalisi e, principalmente,  della psicologia analitica.
Le posizioni di Minkowski, ribadisco, sono molto prossime a quelle di Jung, e quindi evidenti sono le intersezioni tra psicopatologia fenomenologica e psicologia analitica, almeno in cinque punti fondamentali:
-       La centralità dell’affettività (peraltro da entrambi interpretata con coerenza e dolore nelle rispettive prassi, e non soltanto teorizzata) fino alla consacrazione di Jung, tra il 1902 ed il 1904, con il Complesso a tonalità affettiva ( 10 ):
 
Il concetto di affettività è trasformato da Jung nella qualifica aggettivante di ogni struttura complessuale... Si viene così a creare nell’impianto teorico della psicologia analitica una struttura simmetrica tra aspetto rappresentativo ed aspetto affettivo di un contenuto psichico ( 11 ).
 
-       La comprensibilità del delirio, principio al quale si opponeva Jaspers e si     allineava Janet.
-       Il ridimensionamento del peso della nosografia psichiatrica. E’ sì importante intendersi in termini generali su come sia inquadrabile  diagnosticamene l’oggetto dell’osservazione, ma è ben più importante calarsi nei vissuti di quell’oggetto e tentare di tutto per entrarvi in una relazione significativa. Dicotomia ancora non superata, del resto, se si pensa all’attuale dibattito tra categorialità e dimensionalità dell’inquadramento nosografico.
-       L’abbandono del causalismo riduttivistico e, quindi, della banalizzazione della terapia in metodi blindati e seriali.  Il Simbolo junghiano è la più alta espressione della rinuncia a posizioni apodittiche.
-       La doverosa necessità di intersecare la ricerca psicologica con quella filosofica ( e qui l’influenza Bergsoniana fu fondamentale ).
 
Personalmente, nel trattamento delle psicosi, mi sento orientato dalla sfida del curare secondo un assunto, semplice da esprimere ma ostico da percorrere: la cura come amore senza possesso.
Il tema del calore, recato come attestato identificativo dal mio compagno di viaggio che chiamerò Alberto,  mi ha posto per lunghi anni davanti al rischio di atti salvifici e di abissi insondabili. Questo, a mio avviso, ha reso degno di una mia particolare attenzione il caso che qui ho deciso di esporre.
 

Alberto

Alberto oggi ha poco più di cinquant’anni. Un padre quasi ottantenne. La madre è deceduta pochi mesi fa. Sin dall'infanzia, il suo rapporto con la terra e il duro lavoro che essa impone, la sua stessa appartenenza alla classe contadina, sono stati da lui vissuti con un’estrema ambivalenza. Come da carta-carbone, assorbiva da sempre le esternazioni di un padre che, se da un lato lottava per difendere i diritti della categoria, dall'altro faceva riecheggiare in ogni luogo imprecazioni verso la stessa terra; mortificazioni che esaltavano la ragione, e con essa lo studio, la cultura, il sapere. Lo faceva con aggressività e pesantezza, scaricando sulle  già deboli spalle di Alberto un fardello intollerabile.
Dirà Alberto in un momento di sconforto: « Penso proprio di dovere a mio padre di essermi ammalato. Mi sento come un inciampo della natura. In fondo non capisco cosa ci faccia sulla terra, perché mio padre non mi ha mai significato ciò che io sono venuto a fare quaggiù ».
 
Quella stessa terra, fonte di nutrimento, risuonava  di esortazioni all’odio e al disprezzo. I detentori  della cultura erano invidiati, in quanto agiati, eppure malvagi e persecutori. Gli onesti lavoratori, invece, venivano dipinti come schiacciati dalla pesantezza esistenziale, dall’attitudine a reprimere ogni entusiasmo, a sopprimere ironia e ilarità. Il riso era bandito da quella sorta di cattedrale laica che era la casa di Alberto; in quelle mura aleggiava la contraddizione di una preghiera intrisa di bestemmia. Insomma, l’antico contadino che albergava in lui era cresciuto dilaniato da dubbi e contraddizioni, in un’atmosfera tetra, rivendicativa, oppressiva e ambivalente. Un cuore oltremodo angosciato e reso impotente, sin dall’infanzia, dalla grave epilessia del padre, « il tragico e magico mistero del male comiziale ». Dubbi e contraddizioni, alimentati anche dalle sue scelte scolastiche, interessavano il tortuoso rapporto tra ragione e sentimento, sapere ed emozioni. Alberto, infatti, aveva conseguito un diploma superiore di tipo tecnico e dopo alcuni anni aveva trovato un impiego nella pubblica amministrazione che  lo aveva assorbito, « sistemato », diceva con auto-commiserazione, « non certo appagato ».
In realtà, aveva sempre amato le lettere e la filosofia, detestato le convenzioni, la tecnica ed il lavoro monotono da signor mezze maniche. Ancor prima di trovare quell’impiego, però, aveva deciso di cercare fortuna lontano dai luoghi delle origini, e fu proprio in un Paese straniero che impattò nello spettro della malattia. Era in Germania: aveva trovato lavoro in un'impresa che si occupava di realizzazione di strade. Aveva poco più di vent'anni. Un giorno, il  primo giorno di lavoro, dalla crosta pietrosa che cercava di perforare con il martello pneumatico, partì una scheggia che gli si conficcò in un occhio. Pensò che la sua vita fosse finita lì, in quell'anonimo fazzoletto di terra straniera, in quell'altrettanto anonimo e freddo giorno di gennaio. La terra ora lo stava tradendo, quella stessa terra  luogo-simbolo della partorienza,  dell’accoglimento e del nutrimento, imposta per vent’anni come l’ossessione del padre e, quindi, come non-luogo  dell’ambivalenza. E lo stava facendo nel modo più inaspettato e traumatico possibile: lanciargli un dardo acuminato, affinché non vedesse più!
La reazione normale della psiche a una esperienza traumatica è di ritirarsi dalla scena del danno. Se la ritirata non è possibile, bisogna allora che una parte del sé venga ritratta e, perché questo avvenga, bisogna che l'io altrimenti integrato si scinda in frammenti o si dissoci. La dissociazione fa normalmente parte delle difese che la psiche oppone all'impatto potenzialmente lesivo del trauma... La dissociazione è un tiro che la psiche gioca a se stessa; un espediente che consente alla vita di proseguire, spezzettando l'esperienza intollerabile e distribuendola in compartimenti della mente e del corpo, soprattutto negli aspetti “inconsci” della mente e del corpo… L'immaginario mentale…può essere scisso dall'emozione… oppure affetti e immagini possono dissociarsi dalla conoscenza inconscia… ( 12 ).
E infatti Alberto, rientrato immediatamente in Italia, rinvenne « un  mondo stranamente e rapidamente cambiato ». Un destino non proprio benevolo volle che proprio  in quel periodo gli venisse comunicato il superamento del concorso presso un Ente amministrativo statale. Gli fu assegnata come sede Milano. Era alle prese con le angosce legate all’attacco alla vista e con i vissuti di drammatico cambiamento, quando dovette subire un ulteriore sradicamento. Di nuovo il confronto con una realtà diversa, una lingua diversa, ritmi esistenziali accelerati, insostenibili, come una gara veloce per un fondista. Fu così che si ritrovò bloccato per istrada da « imbattibili infermieri », mentre urlava e correva disperato, tormentato da voci e persecutori, da spettri interni ed esterni, da devastanti vissuti di estraneità a se stesso. La drammaticità della percezione di cambiamento del mondo, che serpeggiava dopo l’incidente all’occhio, aveva infettato, come in un rapido processo di diapirismo, gran parte del già frastagliato arcipelago della sua personalità, adagiandolo in quel non-luogo che è la dimora della Wahnstimmung, per dirla con Daniele Pavese:
 
C’è una radura umana in cui l’esperienza naturale del mondo, con il suo carattere aproblematico, viene meno; è una zona di confine, rischiosa ed inabitabile…; è la Wahnstimmung, quell’atmosfera delirante, in cui il terreno sotto ai piedi sembra vacillare, in una durata sospesa…che non è stata ancora arginata dal delirio strutturato…lì sta la sfida dello psicopatologo che incontra un’esperienza così estrema; starci, ma in che modo e, soprattutto, di fianco a chi? E il delirio che tipo di soluzione rappresenta per un soggetto che è portato nel luogo più autentico, quello in cui l’Esserci è portato di fronte al proprio Essere( 13 ).
 
Sta di fatto che Alberto sperimentò ufficialmente l’esordio della sua storia di schizofrenia.
Ospite « non fisso ma abituale » del Policlinico, « Guardia Seconda, Cattedra di Psichiatria, direttore Carlo Lorenzo Cazzullo », sentenziava cadenzante e sarcastico. Ricordava spesso  di  « affettuose ed illuminanti esibizioni » di cui era fatto oggetto, al cospetto di « specialisti e specializzandi, infermieri ed infermi, clienti ed astanti » ( per fortuna l’auto-ironia da sempre ha contribuito a riacciuffarlo dai viaggi verso gli inferi, viaggi altrimenti senza ritorno ). A volte era condotto in aula e mostrato come schizofrenico, « non aggressivo! », ci teneva a precisare; a volte come caso clinico di interesse quasi etno-psichiatrico; come non-responder ai trattamenti farmacologici; come esempio di malato con ottime capacità di compenso nei periodi intercritici.  Per lunghi anni si erano alternate crisi patite a Milano con altre nel suo paesino, quasi sempre seguite da ricoveri. Qualche volta gli avevano regalato anche il brivido ( anzi la scossa ) dell'elettroshock.  Sin dal giorno in cui  gli occhi di Alberto furono profanati da quella scheggia, un persecutore ha accompagnato la sua esistenza, prendendo le sembianze di neri serpenti, di camionisti aggressivissimi, di aria inquinata, di cibo avvelenato, di direttori terribili. Il  nero  serpente ne ha combinate di tutti i colori ponendolo, a volte,  in situazioni grottesche. Lo ha costretto a rintanarsi in casa, a percorrere strade tortuose e labirintiche, a fare balzi da gazzella, a verificarne l'assenza con mille artifizi. L’astuzia del serpente è nota, per cui Alberto ha dovuto aguzzare l’ingegno per poterlo contrastare. Sì, perché il rettile si materializzava all'improvviso, sembrava attraversare pareti, infilarsi negli anfratti più ostici, sgusciare via rapido dopo averlo beffeggiato.
I camionisti, poi: enormi, pericolosamente ironici, eroticamente attrezzati, minacciosamente sorridenti, sempre sulla sua strada.
E, ancora, l'aria apportatrice di polveri velenose, germi patogeni, a volte addirittura gas nervini;  il cibo, ben che andasse pieno di sostanze tossiche, troppo caldo o troppo freddo, offerto quasi sempre dalla madre, con « un sorriso strano sulle labbra ».
Il direttore dell’ufficio che lo costringeva a stare alla cassa; deliberatamente lo esponeva al contatto, e quindi al contagio; gli negava le sue irrinunciabili esigenze d'isolamento.
E una voce interna ( spesso era la voce del padre ) che lo chiamava in dialetto stretto: « ù spalator’ », lo spalatore; prima sfumata, poi sempre più nitida, tanto che spesso si auto-definiva spalatore, quando parlava quasi in trance, lo sguardo fisso verso un punto prossimo e abissalmente distante, come riferendosi ad una terza persona. Ho sempre ritenuto singolare e significativa, nel mio ascolto, l’assonanza tra “spalatore” e “spaltung”, come se si riferisse alla sua scissione e all’aver dovuto lasciare una parte, quella colpita all’occhio, in terra straniera.  Del resto anche l’operazione che stava effettuando, quando partì la scheggia, era una operazione di scissione, di separazione dall’inseparabile, un tentativo di distanziamento dal mondo delle radici.
E i suoi tempi: « Quando devo affrontare un problema, specie se riguarda l’interazione con la gente, mi sento invaso; è come se dovessi risalire alle origini del mondo per poterlo risolvere. Non riesco a collocarmi nello spazio in cui mi trovo; del resto pure il tempo mi sembra che si fermi e si acceleri bruscamente. Mi sento una specie di ectoplasma ».
E le incontenibili risate! Fardello, ma anche arma efficace; compulsione e teatrale trovata; metodo distanziante, ma anche invito ad avvicinarsi; grido d’aiuto e violenta opposizione; esplosione reattiva e sommessa preghiera. Senz’altro un’altra singolare forma di rappresentazione delle proprie difese psichiche.
Ritengo possa anche essere utile a chi legge qualche elemento caratterizzante la qualità del suo stare in analisi.
Alberto ha tentato sempre di rispettare il ritmo concordato, sforzandosi di essere puntuale, di mantenere teso il filo della continuità. Ma come poteva essere sistematicamente presente? Come poteva sostenere la cadenza di tre sedute a settimana, che pur riteneva indispensabili? Quegli enormi camionisti rispettavano i tempi dell'analisi? Il nero serpente era sensibile e possibilista rispetto a tali esigenze da contratto analitico? Tutta l’analisi, quindi, si è da sempre snodata nel rispetto di tempi condizionati da minacciosissimi fantasmi interni, proiettati su ineludibili contingenze esterne.
A volte  si muoveva da casa con largo anticipo. Metteva le pinzette alla base dei pantaloni, « per evitare al nero serpente di infilarvisi ». Viaggiava con la mano sotto al naso « per impedire alla benché minima sostanza inquinante e velenosa di infilarsi nei polmoni ». Poi, imprevedibilmente, un camionista… un'auto della polizia…un animale che spuntava minaccioso. E allora doveva cambiare strada, effettuare  percorsi tortuosi; il cuore sussultava tumultuoso, come a voler schizzar via dal petto; il respiro diventava rapido, affannoso e rumoroso.  Procedeva, insomma, secondo la continuità possibile: lunghe tenute, assenze, sospensioni unilaterali. In definitiva, un’analisi sufficientemente lunga, ma strutturata a tranches, anche perché Alberto effettuerà un ulteriore percorso d’analisi, dopo ben cinque anni dal periodo cui mi riferisco in questo scritto ( 14 - 15 ). Alberto ha sempre colto il senso del regolare pagamento anche delle sedute cui mancava e non ha mai avvertito come reciso il filo che lo congiungeva alla stanza d'analisi, sforzandosi di ricondurre ogni assenza, ogni ritardo, ogni condizionamento, al mondo interno e alla relazione con l'analista.
Un’altra delle antiche iterazioni di Alberto era stata quella di acquistare libri di psichiatria, psicologia e psicoanalisi. Più attraversava periodi di crisi e più comprava libri. In realtà non li leggeva. Cominciava, sospendeva, incrociava e confondeva con altri, prendeva quanto ritenesse utile ad “analizzareil suo stato mentale del momento, attraverso un processo di esasperata intellettualizzazione. Sin dall'inizio del lavoro analitico aveva cominciato a portare in seduta uno dei numerosissimi libri acquistati negli anni. Dal momento che ora era realmente in analisi, trovava naturale offrire all'analista materiale senz'altro più utile a questi che a lui. Fu combattuta una estenuante tenzone per giungere al compromesso.  Rimase davvero turbato quando, con atteggiamento rigorosamente analitico, prima lo invitai a riflettere sul significato del suo tentativo di oblazione, poi affermai con affettuosa decisione di non poter accettare doni dall'analizzando. Riflettemmo sul tentativo di dono e sulle radici antiche ( sue, familiari e persino archetipiche ) del dare quale seduzione, aggressività verso un analista ignorante-che-deve-imparare; e poi del mettere  un oggetto nello studio dell'analista; e ancora del libro quale segno della sua frustrazione rispetto alla mancata laurea, del contadino antico che viveva il conflitto tra estrazione sociale e sete di cultura, del padre, del maestro. Quindi il libro rappresentava una liaison traslata, come un dire all’analista: « intanto studia », con tutta l’ambivalenza connessa al tema della cultura, del sapere, del rapporto col paterno.
Fu molto stimolato dalla lettura simbolica dell'oggetto messo dentro l'analista per valutarne le capacità contenitive. Il filo conduttore di quel gesto sembrava comunque essere quello della ragione che veniva portata in analisi attraverso il “peso” culturale del libro. Così come divenne gradatamente indicativo del suo tentativo di mantenere la continuità analitica; la fantasia sottostante era che le sue assenze potevano essere colmate, in qualche modo, da una lettura del libro da parte dell’analista. Nulla di tutto ciò, comunque, riuscì  a temperare la sua iterativa oblatività; anzi, diveniva sempre più frequente che si presentasse col libro sotto l'ascella. Poiché di fatto non se lo riportava dietro, nonostante i miei inviti, glielo facevo ritrovare lì sulla scrivania dove lo aveva poggiato la volta precedente. Il titolo del libro diventata argomento d'entrèe della seduta e veniva tradotto in messaggio per l'analista. Ne veniva analizzato il significato intrapsichico e relazionale; riusciva a dire cose impedite alla sua parola.
Dopo mesi di estenuanti e creative contrattazioni, fu trovato un compromesso. Mi propose di non considerare i libri in dono, bensì in comodato. Io, finalmente più sciolto, risposi che escludevo senz’altro l’oblazione ma scartavo anche la possibilità di mettermi a studiare il libro dell'analizzando ( come se fosse stato un compitino ); avrei tollerato la presenza dei libri nel mio studio considerandolo, quindi, come comodato di non uso, fino alla fine dell'analisi. Fu palesemente soddisfatto, non solo del compromesso ma anche della orgogliosa e affettiva capitolazione dell'analista, attestata dal suo escamotage, che rinviava ad una modificazione del codice procedurale civile e…di quello analitico. Nessuna legislazione, infatti,  prevede il comodato di non uso. Quella scelta, però, era riuscita a inserire nella nostra relazione un proficuo nuovo codice di comunicazione. E fu così, fino all'ultimo libro dell'ultima seduta delle sue tre tanche d’analisi: Il sentimento della vergogna ( 16 ).
Tento ora di chiarire a chi legge  i tempi cui mi riferisco in questo lavoro. Inizia l’analisi. Per il primo anno il mio assetto di lavoro non comprende ancora il Gioco della Sabbia. Alla fine del primo anno annuncio ad Alberto che alla ripresa post-estiva avrebbe trovato nello studio la novità-sabbia. Egli, però, per tutto il secondo ed il terzo anno di lavoro non si avvicina mai alla scatola azzurra. Poi fa una scelta unilaterale di sospensione dell’analisi, con modalità parecchio compulsive: alla fine del terzo anno trovo nella buca della posta un prematuro quanto inaspettato proclama d’addio:
 
 
 
 
certo affermare che non avessi intuìto le peculiarità del periodo  che precedette quella che sarebbe dovuta essere la canonica interruzione d’Agosto. Ma ritrovarmi nella buca della posta la perentoria missiva di Alberto, dopo appena tre giorni dal congedo estivo, mi spiazzò e provocò una pletora di sommovimenti controtransferali. Mi chiedevo: sì, è vero che ha fatto un buon percorso, ma dovrebbe insistere e scandagliare oltre. Forse ho commesso gravi errori, mi punisce andando via. E’ un tentativo di seduzione? Un atto d’amore di chi non digerisce la pausa estiva? Quel non mi farò più vivo allude alla morte, a possibili atti suicidari? Il tono perentorio e conciso, la grafia infantile ma decisa rinviano ad un vissuto di tipo “mi fermo qui; non posso andare oltre” ? E per sempre o momentaneamente? Come mi pongo io rispetto al tema del troppo calore?
Alberto aveva lasciato il proclama d’addio agli inizi di Agosto. Io, dopo la pausa estiva, poiché ero in supervisione, continuai a lavorare al suo “caso”. Verso la metà di Novembre feci un sogno:
Sono nella mia casa natale. Non avverto la presenza di altre persone. C’è un silenzio irreale. Ricordo la violenta e stridente sensazione di percepirmi, contestualmente, come adulto e come bambino. L’adulto guarda orgoglioso la libreria che ha di fronte, dove  i trofei vinti in attività sportive si alternano ai libri sulle mensole; ricostruisce la propria “storia” sportiva; rivive, addirittura, le forti emozioni sperimentate durante le gare.
Il bambino timido, introverso, prova un profondo impaccio per l’attenzione rivoltagli dagli adulti. In quel momento pregno di sensazioni forti e contrastanti, bussano alla porta: è il supervisore. Provo imbarazzo ma, principalmente, gioia. E’ come se avessi spesso fantasticato che lui entrasse fisicamente nei luoghi dell’infanzia, ma avessi trovato difficoltoso invitarlo ufficialmente. Ora la sua affettuosa irruzione tagliava la testa al toro. Ora sì che ne avvertivo la condivisione; e poi nel bel mezzo del tourbillon di sensazioni e di mie parti adulto-bambino  in dilaniante conflitto…
In un primo momento ne diedi una lettura esclusivamente personale; mi soffermavo a guardare a quella rappresentazione riferendomi a tentativi di conciliazione che ritenevo in atto in quel periodo.
Poi riposi il sogno tra le carte della mia memoria. Alberto, intanto, sembrava dar consistenza al proclama di inizio Agosto: assenza, vuoto, assoluto silenzio.
In supervisione c’erano ancora sequenze da condividere; e poi quella lettera e quel filo reciso così rudemente; e ancora, quello spaurito  fantasma che era Alberto, comunque presente, ad incuriosire, turbare, intenerire me e forse pure il supervisore.
Troppe cose erano accadute, troppe sedute feconde, troppe affermazioni forti: « Io sono pazzo! Ho paura dell'omosessualità. O l'analisi o il lavoro ! Lei si meraviglia che non sono andato a lavorare…. io mi meraviglio di essere vivo! ».
Ed ancora : la mano sotto il naso, il calore che rischia di bruciarlo, ecc., ecc.
E, intanto, non un messaggio telefonico, non una lettera, neppure notizie indirette.
Poiché il lavoro in supervisione su ogni seduta registrata occupava 2-3 incontri, rimaneva da scandagliare l'ultimo mese e mezzo. Il materiale era copioso e sarebbe complicato riferirne i particolari. Preferisco porre l'accento sulle premesse nucleari che indussero me e il supervisore a trasgredire.
 
Di una supervisione trasgressiva
 
Il percorso analitico con Alberto ( così come ritengo accada per ogni percorso analitico con psicotici ) era stato senz’altro caratterizzato da atipie, eterodossie, peculiarità della coppia analitica, deroghe. Si aprirebbe qui un capitolo che vedrebbe crescere in maniera esponenziale le possibilità di lettura e di critica, anche oppositiva. Spero invece vada delineandosi, in questo lavoro, un mio tentativo di proporre riflessioni partendo dall'esperienza. Non intendo attestare la mia posizione come ideologica, in quanto semplicemente contestualizzata ad un rapporto. Se questo rapporto, poi, possa risultare paradigmatico, saranno solo i cambiamenti rilevati e mille altre esperienze di mille altre coppie analitiche a determinarlo ed eventualmente a codificarlo. Reco costantemente dentro di me l'affermazione fatta da Jung  al Congresso di Zurigo del 1957:
 
Sarebbe un errore pensare che esistono metodi di trattamento più o meno adatti. Si eviti dunque di parlare in generale di “metodo”. Ciò che importa soprattutto nel  trattamento è l'impegno personale, il serio proposito e la dedizione, anzi il sacrificio del terapeuta ( 17 ) .
 
Sacrificio ha assunto, nell'accezione più comune, il significato di gesto autolesivo, folle abnegazione. In realtà la radice semantica è altra: rendere sacro e, per estensione, vitale, trasformativo. Qui mi riferisco ai molteplici piani reciprocamente intersecantisi: il mondo esterno, il mondo interno del terapeuta, il controtransfert collaterale del supervisore, la Relazione   ( la maiuscola è d’obbligo ) tra tutti i soggetti.
Dopo i primi mesi di silenzio assoluto, mi telefonò la sorella, che naturalmente non conoscevo. Era allarmata: Alberto non si recava al lavoro, non usciva di casa, si alimentava pochissimo e necessitava di una certificazione specialistica, poiché rischiava di perdere il lavoro.
Non mi turbò il tono allarmato, bensì un'affermazione che sembrava confermare quanto emerso dalla supervisione: Alberto nel corso della giornata divorava pacchi di gelato ( cornetto Algida, per la precisione ). Necessità di raffreddare il proprio interno, di rendere algido il calore del rapporto con l'analista e, per estensione, con il mondo esterno. Ricordai che verso la fine dell'anno analitico in seduta erano frequentemente comparsi un ispettore ministeriale affettivo e una cassiera materna, che lo turbavano profondamente e dal calore dei quali veniva                            « inspiegabilmente attratto ». Ricordai ancora che a metà Giugno gli era sfuggito un « le voglio bene », a me rivolto.
Riferii alla sorella che, in quanto suo analista, non ero io lo specialista che avrebbe dovuto certificare la malattia e che, comunque, sarebbe stato opportuno che qualunque comunicazione o richiesta fosse fatta da lui stesso.
Fu così che, come un bambino timido finalmente invitato a giocare, lo “Spalatore” mi telefonò. Ansimava, lunghe pause, la voce ovattata, rumorose espirazioni nasali ( immaginavo la sua mano costretta a fare da mascherina ). Non mi chiese nulla di concreto. Mi ribadì della compulsione a mangiar gelati. Mi riferì che, nonostante fossimo a Gennaio, era costretto a dormire con  la finestra aperta e di aver spostato il letto sotto la stessa finestra. Si scusò per la lettera, dicendo:           « troppo brusca, lo so, ma del contenuto sono convinto…sentivo di non poter fare altro ».
Mi disse ancora che gli erano rimasti pochi libri ed era un peccato che non potesse portarmeli… Parlò di un ragnetto nero e di un serpente, « piccolo piccolo », che vedeva affacciarsi dal bordo superiore della finestra: erano inoffensivi, per cui la finestra poteva rimanere aperta.
Alla fine, con un filo di voce, mi sussurrò di sentirsi prigioniero di una sorta di maleficio e che sarebbe occorso  qualcosa o qualcuno che lo liberasse .
Nel lavoro di supervisione, intanto, l'attenzione era polarizzata su alcuni aspetti:
-       L'affermazione riferita ai  pochi libri ancora da consegnarmi.
-       La lettera. Lasciava spiragli percorribili o attestava una chiusura definitiva? Le modalità comunicative, benché esplosive, inducevano un vissuto di separazione ponderata e matura, oppure un bisogno compulsivo di distanziarsi da una fonte di eccessivo calore?
-       La singolare contiguità tra il tema caldo/freddo, riferito alla relazione analitica, e la necessità di Alberto di ingurgitare algidi alimenti.
-       La mia risonanza emotiva rispetto alla richiesta d'aiuto ( lo psichiatra-medico/l'analista/la necessità di dover-poter dire "no"/il mio vissuto rispetto a caldo-freddo ).
-       L'opportunità di restituire, in qualche modo, quanto andava emergendo dal lavoro di riascolto delle ultime sedute.
-       Un certo sentimento di incompletezza che sia io che il supervisore, pur considerandolo sano e analitico, sentivamo che dovesse partorire qualcosa.
-       Ipotesi interpretative del mio sogno ( in cui il supervisore mi fa visita nella casa natale ) riferite ad una sorta di intuìta anticipazione controtransferale  verso lo “spalatore”.
In una psicosi schizofrenica quali sono i parametri per ipotizzare una conclusione del lavoro analitico?
Attorno e davanti a questa domanda, il lavoro di supervisione  conobbe momenti di creatività e altri di sconfortante impasse. La mia memoria, improvvisamente      ( strumentalmente? ) ora vacilla. Non ricordo più  chi osò avanzare, tra me e il supervisore, la prima proposta: recarsi a casa di Alberto e proporgli una ripresa dell'analisi che contemplasse un contratto a termine, la cui durata andava concordata con lui e da utilizzare come revisione delle ultime sedute precedenti la sospensione. Sarebbero state riascoltate le registrazioni delle sedute stesse. Una sorta di supervisione della supervisione di cui aveva appena fruito l'analista. Una verifica e, principalmente, una restituzione che fosse più equidistante sia dal calore che rischiava di bruciare che  dal suo algido alimentarsi.
Appare evidente che la coppia analista-supervisore, con l’analizzando contumace, aveva deciso di introdurre, in un contesto già multi-rappresentativo, un altro elemento: il registro rappresentativo uditivo. Non che esso non fosse stato presente, nel lavoro analitico precedente, ma l’atipia ( rivelatasi poi un valore aggiunto ) consisteva nell’introduzione sul palcoscenico d’analisi di un’apparecchiatura che rimandava la voce registrata della coppia analitica.
Bene, io andai a casa di Alberto. In realtà prima telefonai e avanzai la proposta. La risposta fu entusiastica, come di chi viene liberato dalla prigionia in cui lo tiene uno spirito maligno.
E vi fu l'incontro: angosciante, esaltante, progettuale, a tratti surreale. Sta di fatto che Alberto sancì i termini del contratto : « due mesi, per poi concludere definitivamente! » mi disse perentorio.
Non avevo mai visto quella luce nei suoi occhi intelligenti. E in effetti accadde di tutto in quei due mesi, poiché continuai la supervisione, recando con me quanto andava emergendo, quasi in tempo reale, nelle sedute del contratto a termine:
il supervisore e l'analista supervisionano le sedute “supervisionate” da analista e analizzando, riferite a vecchie sedute, già in precedenza supervisionate da analista e supervisore!
Un po’ contorto, forse, ma a posteriori molto ricco.
Il gesto della visita a casa è senz'altro un atto forte. Uno di quegli interventi che possono, di per sé, sancire una definitiva uscita dalla terminologia stessa di marca analitica; una scelta meta-paradigmatica che addirittura può rischiare ( come proveniente da uno Spirito maligno ) di inficiare tutta la faticosa magia dell'opera fin lì costruita.
Non intendo argomentare in maniera più o meno scientifica attorno ai motivi di tale scelta. E', si comprenderà, uno di quegli eventi di cui si può raccontare, si può mostrare la trama costitutiva di fondo, si possono lasciar intravedere sfumati legami di consequenzialità. Non si possono trasmettere i mesi di riflessione e di sofferenza, le titubanze vissute in solitudine ed i ripensamenti condivisi col supervisore, il gioco sottile che si instaura tra ipotesi dettate dall'etica professionale e quanto appreso in anni di faticose esperienze analitiche e formative.
In definitiva non si può pretendere di condividere fino in fondo quel momento, esaltante e potenzialmente distruttivo, in cui decidi, scegli, e sai nel tuo profondo che tale scelta è dettata da una spinta energetica che non  puoi spiegare.
Ecco, richiamando Jung, quello è forse il momento del sacrificio; ma è anche il momento della coniunctio e della rappresentazione condivisa col paziente del senso della terapia e della capacità dei singoli e della coppia di abbandonare la hybris, facendo un uso creativo   ( direi individualizzante  ) del rapporto analitico.
 
 
Di sogni simmetrici o della sincronicità
 
Come da contratto, il 3 marzo del ‘97 Alberto si presenta in seduta.
Reca sotto il braccio un libro ( emblematico, come sempre ): Il Corpo, di Galimberti ( 18 ).
Mi porge, inoltre, due sogni: « li ho fatti un mese fa ». Sbircio; il primo porta la data del 6 Febbraio: il giorno del mio compleanno…
Noto subito un'altra cosa: tutti gli scritti che aveva portato in precedenza erano caratterizzati dalla forma grafica in corsivo, certamente di marca infantile, tondeggiante, ampia. Adesso si esprimeva in uno stampatello più fitto, come se quanto scritto non dovesse lasciar adito a dubbi interpretativi e dovesse rimanere chiaro e indelebile nella mente di chi avrebbe letto. 
Giusto per abbondare, rispetto al tema di questo volume, voglio evidenziare questa ulteriore cifra rappresentativa nella relazione analitica: lo stampatello, come se Alberto volesse bilanciare il calore del contenuto con i caratteri da burocrate. Il tondo lasciava il posto all’acuto. Frequenti erano le cancellature, in un probabile lavorio di “cancellazione” del conflitto da auto-supervisione.
 
Ora sì che diveniva più chiaro il sogno del supervisore nella casa della mia infanzia. L'ermeneutica, come tutte le cose, necessita di tempo, di sedimentazione, di possibilità ricompositive dei frammenti con cui le cose si propongono nell' hic et nunc. 
E la mia lettura del sogno in termini personali divenne così, di colpo, limitata. Un  rapporto così ricco, una triangolazione così empatica, se si include il supervisore come tertium ( non ) datur, non poteva più limitarsi alle mie parti in dinamica relazione, a un padre reale, ad aspetti tipologici d'introversione e a quant'altro aveva partorito la mia prima lettura. Le riflessioni furono ( e sarebbero ) tante, ma mi limito a enunciarne qualcuna.
Si delineava il senso del contrasto tra parti così fortemente discrepanti che lo “Spalatore” aveva depositato dentro di me e che chiedevano una possibilità di conciliazione. Si chiariva la convergenza tra la visita  del supervisore nella mia casa natale e la mia spinta ( poi divenuta decisione ) a visitare lo “Spalatore” nella sua abitazione ( una mediazione a tinte forti ma irrinunciabile ). Finalmente un “padre”, incarnato da analista e supervisore, decideva di condividere il mondo di Alberto;  e lo faceva cercandolo nella propria casa, quindi nella propria terra, sconvolgendo un ordine noto.
Nei suoi sogni si prospettavano letture interscambiabili  di aspetti vetta, riferiti al nostro percorso analitico,  che premevano alla ricerca di un equilibrato confronto tra rischi di hybris e acquisite consapevolezze dei limiti ineludibili. La verticalità è dimensione archetipica del paterno. Lo strano andamento in orizzontale dell’ascensore probabilmente corrispondeva al suo bisogno di allontanarsi da me, di mettere distanza, o almeno di avvicinarsi con gradualità e circospezione.
Ora il filo diveniva chiaro, filo non visibile da alcun processo di fisiologia oculare, ma saldo come una corda tra le mani di chi si era, nei fatti, unilateralmente e platealmente separato.
Tale collegamento induceva contestualmente e sinergicamente: un sogno nell'analista,  sogni simmetrici nell'analizzando e ipotesi trasgressive della ortodossia nel supervisore. Ma trasgredire, non dimentichiamolo, viene da trans-gredere, passare oltre, e fare terapia con lo psicotico non può che significare oltrepassare i confini noti o abituali, senza per questo abbandonare gli interrogativi sul nostro transfert.

 

Di un «gioco per schizofrenici»…o dello Spirito nella bottiglia

In occasione della seduta del 13 Marzo del concordato contratto a termine, Alberto pone sulla scrivania il solito libro. Stavolta è Stati dell’Io ( 19 ). E si avvicina alla sabbiera...
C'era una volta - dice la favola - un povero contadino. Egli aveva un solo figlio e voleva farlo studiare. Ma, poiché aveva potuto mandarlo all'università soltanto con una piccola somma, il denaro fu presto consumato, molto prima di giungere al tempo degli esami. Così il figlio tornò a casa e aiutò il padre a lavorare nel bosco. Una volta, mentre gironzolava durante il riposo di mezzodì, egli giunse presso una grande vecchia quercia. Udì là una voce dal suolo, che gridava: - Liberami, liberami! - Scavò e trovò fra le radici dell'albero una bottiglia ben chiusa, da cui evidentemente era venuta la voce. Egli tolse il tappo, e ne usci uno spirito, che diventò subito grande come mezza quercia. Questo spirito gli parlò e disse - Ero rinchiuso per castigo. Sono il potentissimo Mercurio. Chi mi libera, devo rompergli il collo -. Il giovane si turbò e svelto immaginò un'astuzia. - Ognuno - egli disse - può affermare di essere stato in una bottiglia, ma deve prima dimostrarlo -. A prova, lo spirito rientrò nella bottiglia. Svelto, il giovane la chiuse; e lo spirito, ancora prigioniero, gli promise un compenso se lo avesse liberato di nuovo. Allora il giovane lo liberò e ne ricevette un pezzo di stoffa. Allorché fregò con lo straccio l'accetta rotta, questa diventò d'argento ed egli poté venderla  per quattrocento talleri. Così padre e figlio furono liberi da ogni pena. Il giovane poté continuare gli studi e, grazie al suo straccio, diventò poi un medico famoso  ( 20 ).
 
Quale l’arcano della citazione di questo racconto dei Grimm, ripreso da Jung? La madre-terra, l’emblema dell’ambivalenza, l’ossessione dell’infanzia di Alberto,  nasconde, coarta, poi ri-movimenta, libera…
Ma vediamo nei dettagli.
Quando avevo annunciato la presenza della sabbiera nello studio, Alberto aveva subito cercato di portarmi sul terreno della ragione, invitandomi a dibattere  sulla sua effettiva utilità; aveva poi lasciato cadere la cosa, come fosse una eccentrica trovata del terapeuta e di chi condivideva questo gioco con lui. Di fatto, aveva proclamato l’intenzione distaccata di non partecipare « mai! » a quella che aveva definito « una bizzarria », argomentando che  si trattava di una tecnica per bambini o « per schizofrenici cronici »; e lui non si sentiva né l'uno né l'altro. 
Aveva commentato che « gli schizofrenici cronici presentano una oggettiva difficoltà nell'esprimere col linguaggio della parola le emozioni, a volte persino semplici concetti. Questa tecnica, pur rappresentando un ottimo canale comunicativo… non è per me, dato che io parlo…e poi scrivo tanto… ».
Quel giorno di metà Marzo, però, si concretizza un’ossimorica compulsione-ponderata. Era arrivato in seduta trafelato. Aveva dovuto fare un percorso incredibilmente tortuoso. Avvertiva minacciosi i gruppi di bovari e cavalieri che si allenavano per le campagne, in preparazione della corsa dei carri ( caratteristica giostra primaverile dell’enclave albanese che vive in Molise ). Aveva vagato per tratturi, alla ricerca della «giusta via». Era entrato nello studio ancora trafelato e circospetto.
Il tema iniziale della seduta era  l’apologia della ragione cui lo aveva costantemente sottoposto il suo vecchio maestro delle elementari. Quasi pontificando, Alberto dissertava sulla necessità di equidistanza tra ragione e sentimento. A lungo, però, le sue affermazioni risuonavano distanti, pregne di ragione, appunto. Poi, improvvisamente, esprimendosi in maniera affettiva e presente, aveva condotto se stesso sul terreno dell'empatia, della vicinanza e della necessità  di una salutare distanza. Credo che da quei temi sia partito lo spunto affinché si esprimesse nella scatola azzurra della sabbia. La seduta era stata spesso interrotta da frequentissime risate, cariche di una nuova ironia; sembravano cominciare a cambiar ritmo, a diventare più armoniose, congrue; non più drammatiche fughe verso l'autismo; non più eruzioni catatoniformi.
Intanto, però, notavo che portava la sua mano iterativamente davanti al naso, a mò di mascherina. A un certo punto emerse il tema della necessità di tenere aperta la finestra della propria camera da letto, anche di notte; benché vi si potesse infilare il nero serpente, « l'aria deve poter circolare, altrimenti soffoco… ».
Negli ultimi tempi, nel lavoro d’analisi era stato più volte affrontato il legame tra le varie rappresentazioni interne  del persecutore che egli individuava nel mondo esterno, ma tali legami erano ancora difficilmente accessibili. Aveva affermato di aver sentito la necessità, la sera precedente la seduta, di « mettere nel freezer gli  abiti », in un bisogno di « proteggere l’analista dai bacilli » ( anche da quelli della follia, concludemmo ). 
All’improvviso esclamò: « la mia follia è nata perché  tra avere le idee ed essere ho scelto la ragione ».
Si alza; lui che aveva sempre portato nella stanza d'analisi il corpo in movimento ma ancorato alla poltrona, lo aveva contratto, proposto in spasmi, arrotolato su se stesso, rivestito di miasmi  e di abiti indecenti, a volte sovrapponendo caoticamente camicie su maglie e maglie su gilet, e calze su calze. Lui, dicevo, non si era mai alzato dalla propria poltrona di pelle marrone, non si era mai mostrato per intero all'analista, in una fisicità finalizzata  a gesti che non fossero il saluto e il pagamento.
Quasi si avventa sul Genio di Aladino: « il Genio di Ali Babà », dice accompagnando il gesto con una fragorosa risata. Se lo rigira tra le mani a lungo.  Prende dallo scaffale un grosso contenitore di vetro  per metà occupato da sassolini colorati….vi colloca dentro il Genio. Poi, con aria molto seria, dice: « adesso va messo il tappo ». Afferra deciso un grosso tappo di sughero, lo colloca con fermezza sull’apertura della boccia e pone il tutto perfettamente al centro della sabbiera, con fare delicato.
Come spesso accade, stempera la sacralità del momento con una risata dissacrante, affermando: « Il Genio è Freud…o Jung… o tutti e due ».
Ritorna serio ( fin troppo ).
Poi, tutto d'un fiato, riprende: « Il Genio è uno spirito in cui coesiste la bontà e la cattiveria. E’ doppio….schizofrenico ». Ride fragorosamente. Ricomincia: « Il tappo  ci vuole…c'è radioattività… potrei…scusi, potrebbe contagiarla, e non voglio. Sento di stare a fare una fatica enorme ».
Suda, è molto irrequieto; principalmente tormenta le mani e le guarda con compulsività, come rapito, come a sforzarsi di riconoscerle, a metterne in evidenza la loro appena espressa capacità di svelare, di rappresentare in maniera inequivocabilmente simbolica quanto ragione e parola si affannavano a esprimere da tempo, riuscendo solo a raffazzonare espressioni cosali e gergali.
Poi afferma: « Ma sì…mi sento protetto là dentro, ma anche compresso ».
Intervengo io: « ma oggi è proprio necessario che quello Spirito sia lì dentro? Da cosa si difende? »
E lui: « dal nero serpente…dai camionisti…dalla cassiera ».
Esplode in una risata, stavolta chiaramente liberatoria: « ma no, sta diventando quasi un vezzo… ».
Lo sguardo interrogativo, la fronte corrugata, come perso verso luoghi remoti, afferma sibillino: « Lo Spirito può entrare ed uscire…non c'è tanto pericolo…è una parte…no, è terzo. Anzi, no, è quarto… non mi chieda troppo. Credo c'entri lei e il lavoro  che abbiamo fatto ».
Poi un lungo, interminabile silenzio. Entrambi, bloccati a guardare quella boccia di vetro.
E qui mi accade qualcosa di singolare. Mi pervade una sensazione, che oscilla tra il movimento contro-transferale e nuances contro-identificative: lo spirito, la bottiglia, la sabbiera, la stanza d'analisi, la casa, la città, la terra, l'universo. Li sperimento come miei stati somato-psichici. Non sono più entità separate, bensì figure di una danza dalla perfetta coreografia e dall’armonioso dinamismo che prendono la mia anima ed il mio corpo e li trasportano in una dimensione a me fin lì ignota. Un'energia centrifuga che si espande a partire dal contenuto di quella boccia e fluttua nell’universo, e poi dall’universo ritorna al particolare.
Ancora una volta il sommovimento accadutomi conferma la salda tenuta della rete virtuale che regge il rapporto. Ma non solo, riesce a stimolare nell'analizzando, seppure io non faccia ricorso alla parola, il vissuto di un contenitore capace, affinché vengano espresse le spinte contro-autistiche di entrambi.
La visibilità del fenomeno nella scena di gioco offre nuove metafore alla comprensione del mondo intrapsichico del giocatore e dell’atmosfera affettiva che coinvolge entrambi… l’accento posto sullo sguardo non implica solo un’attenzione rivolta all’esterno, all’azione di gioco attuata dal paziente, ma anche al teatro interno dell’analista stesso, dove si formano immagini in risonanza al suo ascolto ( 21 ).
La mia reazione, infatti, in
uno spazio senza limiti e senza forma ( 22 ).
( peraltro frequente vissuto dello schizofrenico ) media l'inequivocabile certezza che l'energia c'è, il contenitore regge, lo Spirito può uscire.
Forse qui torna ancora il gesto della mia visita a casa, atto inequivocabilmente umile    ( “terra” ). L’analista, il surrogato di Jung per Alberto, esce dall’ampolla-studio e lo visita a casa. Ancora l’analista-Jung sperimenta all’unisono con Alberto la possibilità di uscita dall’ampolla nella sabbiera.
Il suo intervento, puntuale al limite del non credibile, mi evoca oggi l'immagine dei vasi comunicanti. Addirittura Alberto interrompe il mio fluttuare e afferma con tono deciso: « Ma sì, togliamolo quel tappo…sento di poterlo fare…lo spirito deve poter circolare nell’universo ».
Non riesce a dire altro; si catapulta sulla poltrona, stremato.
 
 
 
Mentre ero intento a scattare le foto alla scena appena costruita nel vassoio, fa un gesto  per mostrarmi l'opera. Il risultato è suggestivo: le mani, la sua e quella dello Spirito, sembrano protese l'una verso l'altra.
L'una è intenta a supportare l'altra, affinché lo Spirito venga fuori, circoli nel cosmo, come poco prima avevo personalmente saggiato.
La rappresentazione nella sabbiera è stata una ghiotta opportunità affinché l'amplificazione accorresse, sollecita, a supportare l'analista. Il nume tutelare, nello specifico, è proprio Jung. Mi  fa capire che è tutto lì dentro, in quella scena dinamica, doppia, aperta all'evoluzione. Alberto è lì dentro, con la sua storia; è lì il rapporto con l'analista e il rapporto tra questi ed il supervisore; è lì la sintesi della tragedia e della lirica della sua esistenza.
Jung ci dice:
…il dio dai mille mutamenti e raggiri non è morto, né col tramonto dell'età antica né dopo. Ma è sopravvissuto, stranamente travestito, per molti secoli fino all'età moderna e con le sue arti ingannevoli e i suoi doni salutari ha tenuto in sospeso lo spirito dell'uomo. Anzi, si racconta ancora ai bambini la favola dei Grimm dello Spirito nella bottiglia; e in essa, eternamente viva come sono le favole, son conservati anche la quintessenza e il senso più profondo del mistero ermetico, come giunse fino ai nostri tardi giorni ( 23 ).
Provo a giocare con una sorta di esegesi del particolare, anche se noi analisti del Laboratorio Analitico delle Immagini siamo attenti a non svilire le scene proposte dall’analizzando con una sorta di interpretazione segnica, da dizionario dei simboli, un fraintendimento della profonda concezione junghiana del Simbolo, appunto. Ma l’occasione è troppo invitante, e i particolari che prendo in considerazione sono semplicemente snodi di una fitta rete di relazioni e rappresentazioni, epifanie a più livelli.                                                                                                                                  Di sassolini colorati su cui poggia lo Spirito. Contenuti vivi dell'inconscio, elementi-terra che reggono lo Spirito stesso, ma necessitano di un ulteriore spazio contenitivo     ( oltre la sabbia della sabbiera, quindi, il vetro della boccia ). Lo Spirito affonda i propri piedi in quei sassolini, ben saldo, radicato.
E' ancora Jung a parlare:
Le radici si affondano nel mondo dell'inanimato, nel regno minerale. Tradotto in termini psicologici, questo significherebbe che il Selbst è radicato nel corpo ( = terra ) e precisamente negli elementi chimici di quest'ultimo  ( 24 ).
Rammento, allora, un’affermazione  di Alberto: « Io manco alla seduta per impossibilità psicosomatica ». 
Ancora Jung:
Secondo la nostra favola il male naturale è confinato nelle “radici”, cioè nella terra, nel corpo  ( 25 ).
Come non richiamare  questa radice corporea a proposito del senso di persecuzione, a partire da quella maledetta profanazione dell’occhio da parte di una scheggia?
Di un vaso. Alberto, inconsapevolmente, si è posto il problema di come attirare lo Spirito all'interno di un contenitore che fosse capace di accoglierlo. Questa è un’immagine e una ricca metafora dell'analisi e delle sue esperienze, esaltanti e al contempo disarmanti.  Il problema se lo posero i vecchi alchimisti:
Il vaso di Ermete è divino, nascosto e proviene dalla Saggezza del padrone del Mondo, e coloro che lo ignorano, non sanno il regime di verità… ( 26 )
Ma Alberto, certosino, ossessivo amanuense, ha cercato e trovato un vaso idoneo.
La boccia è di vetro trasparente: consente di tenere ma anche di essere scrutata nel proprio contenuto e di scrutare, a chi vi è inserito. Gli permette quell'interazione dello sguardo che è premessa al dinamismo che attiverà con l'asportazione del tappo.
La boccia è corpo solido, ma è anche sottile e fragile come una membrana. Il vetro è materia particolare, sembrerebbe proprio una traduzione “animistica” della schizofrenia: è il rapporto possibile, un contatto-non contatto.
Il lavoro d'analisi, ed in special modo ciò che stava accadendo in quel periodo di breve ripresa, aveva rappresentato un lento processo di assottigliamento  dell'usbergo di cui Alberto si  rivestiva, pur nella consapevolezza della necessità di preservare uno spessore da lui, e solo da lui, ritenuto inamovibile.
Anche la collocazione della boccia nello spazio della sabbiera ha una sua significanza: occupa il centro, e ciò che mostra è centrale ed espressione del tentativo di centrazione psichica. E' collocazione di marca archetipica, di forma mandalica, di vettorialità tridimensionale. Un forte  rimando a un Sé allucinato come potenzialmente strutturabile e mostrabile.
Di cecità e visione
Jung afferma:
L'eroe della favola è in sommo grado inconscio di se stesso. Egli appartiene ai “dormienti” o ai “ciechi” o a quelli con “occhi bendati”, come li troviamo nelle illustrazioni di certi trattati d'alchimia. Sono i  “non risvegliati”, ancora inconsci di se stessi, cioè quelli che non hanno ancora integrato la loro futura più vasta personalità, la loro “totalità”; o, secondo il linguaggio mistico, son quelli ancora “non illuminati”. ( 27 ).
Lo Spirito di Alberto e la non consapevolezza dell’analista appartengono al mondo dei dormienti, dei non vedenti: la boccia è chiusa, tappata; il contatto con l'esterno è impedito; c'è pericolo. Alberto, rammento, fa un lapsus: « Il tappo ci vuole…c'è radioattività…potrei…scusi, potrebbe contagiarla, e non voglio ».
Nel campo c’è ancora la parte distruttiva ed egli intende proteggere l'analista.
Tornano alla mente due elementi.
Il primo: il dato storico della parziale cecità ( la scheggia nell'occhio, partita dalla terra, che coincide con lo scompenso psicotico e quindi con la contestuale alterata percezione della realtà ). La radice archetipica è corporea e fa germogliare deliri persecutori: oltre al nero serpente, il direttore dell'ufficio, il medico fiscale, la polizia, il camionista.
Il secondo: il naso tappato è, alternativamente e contemporaneamente, un  gesto finalizzato a proteggere se stesso da contaminazioni e l'analista dai suoi “germi”, quelli della follia.
Qui prende forma una grande lezione di cui mi ha fatto dono Alberto, quando afferma: « Se non mi fossi ammalato avrei vissuto, in parte, da cieco ». Il grande paradosso della follia.
Dell' eroe liberatore e delle voci.  Ma chi è l'eroe della favola? L'analista.  Ma anche lo stesso Alberto. Forse, in definitiva, la coppia, la coniunctio, che dal vas dello studio analitico sposta la propria attenzione sulla sabbiera, fruisce dell'apporto immaginale per vedere.
Jung:
Presumibilmente un mago, cioè un alchimista, ha catturato e rinchiuso lo spirito. Come principio vitale…si potrebbe anche designare come principium individuationis. (Quest'ultimo) si svilupperebbe liberamente in circostanze naturali: ma da una violenza esterna intenzionale viene privato della sua libertà, imprigionato ad arte e confinato come uno spirito  maligno ( 28 ).
Lo Spirito è stato relegato da un mago, un maligno: il persecutore. Ha impedito ad Alberto, di fatto, il libero svilupparsi del suo processo di individuazione.
E poi le voci: della madre: « cane »; del padre: « Spalatore »; del maestro: « tu! tu!…la ragione »; della cassiera ammiccante: « cosa vorrà? »  ( 29 – 30 ).
Ancora Jung:
Un albero di oji chiamò un ascaro, che tentò disperatamente di evadere dalla caserma e di correre presso l'albero. Interrogato, egli dichiarò che tutti quelli che portavano il nome dell'albero udivano di quando in quando la sua voce. In questo caso la voce è indubbiamente identica con l'albero. Considerando questi fenomeni psichici, si può supporre che originariamente albero e demone siano una sola e  medesima cosa e che la loro divisione rappresenti un fenomeno secondario, che corrisponde a un grado superiore di civiltà, cioè di coscienza. Il fenomeno primitivo è natura divinizzata, un tremendum, e moralmente indifferente; ma il fenomeno secondario fa una distinzione, scinde quel che è naturale, e con ciò appunto si mostra come una coscienza più altamente differenziata. Inoltre si aggiunge, forse come fenomeno terziario e quindi come un grado di coscienza anche più alto, una qualificazione morale, che afferma essere la voce quella di uno  spirito malvagio, proscritto. Questo terzo grado è manifestamente caratterizzato dalla credenza in un dio superiore, buono che, pur non avendo annientato completamente il suo antagonista, lo ha reso innocuo per qualche tempo, imprigionandolo. Poiché l'attuale livello della coscienza non può ammettere che ci siano demoni dell'albero, siamo costretti ad affermare che il primitivo sia allucinato, e cioè oda il suo inconscio, proiettato nell'albero…; la distinzione di “bene” e “male” improvvisamente non è più antiquata, ma sommamente attuale e necessaria; e il colmo sta in ciò: se mai non riuscissimo a constatare il cattivo spirito nell'ambito dell'esperienza psichica soggettiva, persino gli alberi od altri oggetti idonei tornerebbero seriamente in questione ( 31 ).
 

Di un addio (che in realtà non si rivelerà tale)

 
La clinica reclama ancora spazio. Il periodo finale del più volte citato contratto a termine riserva ancora sorprese e spunti di riflessione.
In effetti, all’avvicinarsi della conclusione del concordato bimestre di lavoro analitico, ancora una volta Alberto rende pleonastica una illustrazione meticolosa di quanto va accadendo, depositando nel campo il senso ed il contenuto di un’evoluzione.
L'ultimo sogno d'analisi e l'ultima seduta di quella tranche d’analisi riescono a dire con una chiarezza disarmante.
 
 
 
 
Nel sogno è condensata tutta la rabbia, l'ambivalenza, la poliedricità del serpente.
 
( Il serpente ) è il simbolo più frequentemente usato per rappresentare il mondo oscuro, ctonio, degli istinti. Come spesso accade, può essere sostituito da un equivalente animale a sangue freddo: drago, coccodrillo o pesce ( 32 ).
 
Traspare la dura battaglia fin qui combattuta, così come la dissoluzione dell'onnipotenza  che è andata sostituita dall'umile rapporto interiore con difese accettabili, condivise, ineludibili.
Alberto, infatti, riposti pennelli e tavolozza da Trikster, appollaiato sulla seggiola, esclama con occhi vivacissimi: « Dottore, ma questa hybris non ha per caso a che fare con quelle volte che io mi credevo un padreterno? ».
Nell'ultima seduta c'è tutta la sofferenza dell'addio ( che poi non si rivelerà tale, nemmeno stavolta ) e la sua inevitabilità ( 33 ); il contatto con l'affettività autentica,  che definirei finalmente termoregolata.
C’è l'iconoclastia del primato della ragione.

Infine: di una schizofrenia e dei suoi teatri

Non ho esposto una storia clinica in maniera lineare ed esaustiva. Ho descritto, ancora una volta ed ancora una volta circoscrivendo,  riflessioni evinte dalla pratica, forse offrendo a chi legge spunti per ricerche future. 
Il nucleo potrebbe essere così sintetizzato: il rinvenimento con l’analizzando di una giusta distanza, tra il calore che rischia di bruciare e il freddo che cristallizza.
Spero di aver reso palpabile la lacerante sofferenza dello “Spalatore” e mia, di fronte a una relazione così calda, i suoi tentativi di fuga, il mio percorso di forme possibili di rappresentabilità, pur nel lavorio interiore per tollerare la stagnazione dell’irrappresentabile.
Anche qui la lettura psicopatologica ritorna in tutta la sua pregnanza.
 
Ciò che cambia è quello a cui l’incomprensibile si riferisce: per il paziente tutta la realtà, sia interna che esterna, per noi il suo modo di essere al mondo. Il terreno su cui si può costituire l’intesa, una intesa antropologico-ermeneutica basilare che privilegia canali extraverbali, è dunque proprio quello della incomprensibilità, o meglio, con terminologia che reputo decisamente più idonea e meno fonte di equivoci, della irrappresentabilità…. Il terapeuta dovrebbe tentare di (ri)costruire incessantemente i pezzi di questa dialettica mancante: non ridurre ingenuamente l’irrappresentabile a rappresentabile         ( 34 ).
 
E ancora Martini:
Nel controtransfert, sappiamo come il terapeuta debba riuscire a tollerare non solo la violenta proiezione di materiali e fantasie a carattere psicotico… ma anche, soprattutto, “la paralisi e l’ibernazione dell’apparato psichico”. Se, infatti, la fantasia psicotica può consentire di ravvivare la temperatura e l’atmosfera dell’incontro, le “iniezioni di vuoto” trasmesse dal paziente possono tradursi in un’atmosfera di noia glaciale o peggio di non pensabilità.
Nella mia prospettiva, la psicoterapia dello schizofrenico si gioca proprio nella possibilità di un passaggio continuo dal livello della irrappresentabilità, ove i processi ristrutturanti sono espressi dal contenimento, dalla revĕrie, dalla comunicazione sensoriale e dalla fusionalità, ad un altro livello in cui le rappresentazioni prendono forma attraverso una paziente, prudente e progressiva attivazione delle capacità simboliche ( 35 ).
 
Nel percorso di Alberto, egli procede dalla Wahnstimmung iniziale, alla strutturazione della psicosi, al delirio; poi lentamente era emerso il significato difensivo del riso, il tema della omosessualità ( come dato psichico ), la necessità di cercare un tutore interno che ne limitasse il calore, l'affettività dai contenuti contestuali di germe-radioattività e di elemento fecondante, la realtà che avvelena, il corpo morcelé  come contenitore dello stridente contrasto tra ragione e affettività.
L'assunto junghiano del processo alchemico mi rimanda l’immagine finale di un contenitore capace e caldo, anzi della giusta temperatura, come mi ha insegnato lo stesso Alberto. In quel contenitore egli ha iniziato a riconoscersi come individuo capace di contemplare il relazionarsi transitivo, dopo avermi provocato in mille modi per mandarmi in confusione. Devo dire che in questo caso non ho attinto tanto ai miei percorsi formativi, quanto sono stato semplicemente me stesso, addirittura esaltando le mie attitudini ludiche ed ironiche ( anche auto-ironiche, ovviamente; e ovviamente anche difensive ). Ho giocato. Mi sono lasciato trasportare dal gioco anche quando lo “Spalatore” mi spingeva verso la confusione. Poi, constatato il mio esserci, egli finiva per sentirsi rassicurato ( forse anche un po’ canaglia ) e si ricomponeva, ricomponendomi.
Il percorso esistenziale e analitico di Alberto sembra essersi svolto nel milieu  della contrapposizione vita/morte: nel persecutore, nel nero serpente, nel riso esorcizzante, nel tentativo di suicidio, nelle angosce ipocondriache, nel rapporto con i mastodontici camion, nell'eloquio forbito, nello stridere del contrasto tra ragione e sentimento. E il serpente, in questo marasma, sembra  assumere il ruolo di apportatore di angoscia ma anche di mediatore del contatto con l'Altro.
Nella Genesi il contrasto tra vita e morte è traducibile con il conflitto tra la congiunzione e la disgiunzione. E la creatura, negando l'assolutezza di un ordine divino, consente il passaggio dalla vita alla morte. Il luogo metaforico è quello della tentazione: un albero centrale, come nella favola dei Grimm,  attorno a cui si attorciglia il serpente-tentatore, il mediatore, quindi.
Il nero serpente di Alberto fungeva, in un apparente paradosso, da deterrente rispetto alla congiunzione     ( vita/morte, analisi/non analisi ) ma anche da stimolo ed, infine, da Psicopompo, determinando ciò che è centrale in analisi, ciò che regolamenta i tempi interni rispetto all'analisi, ciò che è vivo ma non troppo caldo. A sangue freddo, appunto.
Jung:
con il serpente, infatti, il rapporto psichico che può essere instaurato per così dire con tutti gli animali a sangue caldo, cessa. Che il serpente, contro ogni altra  aspettativa, rappresenti un equivalente dell'Anthropos, è confermato dal fatto, particolarmente significativo per il Medioevo, che esso è da un lato una nota allegoria di Cristo, dall'altro appare fornito del dono della saggezza e della più alta spiritualità ( 36 ).
Ancora Jung:
Poiché già l'Ombra è di per sé inconscia nella maggior parte degli uomini, il serpente corrisponde all'elemento integralmente inconscio, incapace di coscienza, che però, in quanto inconscio collettivo e istinto, sembra possedere una sua peculiare saggezza e un sapere spesso avvertito come soprannaturale. E' questo il “tesoro” custodito dal serpente ( o dal drago ), questa la ragione per cui il serpente  denota da un lato il male e l'oscurità, dall'altro la saggezza ( 37 ).
E poi, il Gioco della Sabbia. Ha assunto una centralità nel processo e ha espresso le grandi potenzialità di comunicazione col potere dell'immagine. In questo senso il gioco è fortemente simbolico, nell'accezione più autenticamente junghiana di Simbolo probletico, anticipatorio, e di metodo che offre alla coppia analitica l’opportunità di aggiungere ai registri comunicativi ordinari  una comunicazione per immagini, le quali vengono proposte dall’analizzando come oggetti reali nel vassoio d’alluminio.
Il Gioco della Sabbia, così come applicato da noi analisti del Laboratorio Analitico delle Immagini ( 38 – 39 – 40 - 41 ), persegue l’obiettivo esplicitato di amplificare ulteriormente i luoghi d’esperienza condivisibili nel setting analitico, offrendo un palcoscenico che restituisca vitalità e visibilità all’evento psichico.
L’analista, attraverso l’uso del gioco nella sabbiera, può posizionarsi in uno spazio intermedio, abbandonandosi a registri rappresentativi concreti e variegati. Gli stimoli gli provengono anche da gesti, oggetti, scelte di cose, contiguità spaziali, distanziamenti, opposizione tra cose. In definitiva, interpreta l’attenzione fluttuante a più livelli, attraverso una palcoscenizzazione delle dinamiche interne dell’analizzando, nonché dei sommovimenti transferali-controtransferali, sempre attento alla semeiotica della relazione analitica, al contempo complessa e semplice.
 
Una persona è un sistema psichico che, quando agisce su un'altra persona, entra in interazione con un altro sistema psichico… Perciò, se voglio curare la psiche di un individuo devo, volente o nolente, rinunciare a ogni saccenteria, a ogni autorità, a ogni desiderio di esercitare la mia influenza. Devo necessariamente seguire un procedimento dialettico consistente in una comparazione di nostri reciproci dati.
Ma questo confronto sarà possibile soltanto se darò all’altro la possibilità di presentare il più perfettamente possibile il suo materiale, senza limitarlo con i miei presupposti. Il suo sistema entrerà così in relazione con il mio e agirà su di  esso  ( 42 ).
Il Gioco della Sabbia può fungere, allora,  anche da sollecitazione per impasses che a volte riguardano l’analista, determinando quella transitiva reattività bi-personale che fa dell’analisi e del suo spazio il contenitore di alchimie personologiche. Penso, ad esempio,  ad una possibilità di uscita consensuale dallo spazio, a volte vuoto, della seduta-parola; o al mio fluttuare in seduta, in occasione della costruzione della scena del Genio, come trasportato proprio  dallo Spirito posto nella boccia. Lì si poneva il tema della chiusura, attraverso la compressione del tappo o, viceversa, l’immanenza della sortita nell’universo, alla ricerca di  forme di vita  compatibili.
Un’attenzione peculiare va posta all’insight ( appunto bi-personale ) mediato dal gioco, che è qui prima di tutto una sorta di insight pre-verbale. Dal punto di vista fenomenico: un gesto inatteso, una percezione visiva concreta, un affetto che irrompe improvvisamente nel campo analitico e coinvolge profondamente, in maniera somato-psichica, analista e paziente.
 
L’immagine nella sabbia struttura e dà forma alla eccedenza residuale, allo scarto che c’è tra la completa corrispondenza tra parola e cosa, a quell’impossibile da dire che insegna l’umiltà al linguaggio che crede nella completa dicibilità dell’esperienza, linguaggio-etichetta, che pure rappresenta un aspetto funzionale e non trascurabile del nostro rapporto con il mondo ( 43 ).
L’esperienza clinica mi insegna che esiste un insight  progressivo,  in cui non è possibile individuare un elemento o un evento di improvvisa consapevolezza, ben collocabili spazio-temporalmente; la consapevolezza è piuttosto apprezzabile in una esclusiva visione diacronica, quindi di tipo processuale. Ed esiste un insight epifanico, frequente nelle psicosi, dove l’illuminazione improvvisa squarcia, come un lampo, anni di buio e di accartocciamento autistico. E’ il corrispondente della esplosione iniziale della psicopatologia, una emersione improvvisa, come da eruzione vulcanica, che Giuseppe Martini definisce l’ “apofania” di un episodio schizofrenico ( 44 ). Un equivalente, insomma, della Wahnstimmung, intesa come rappresentazione a livello somato-psichico di nuclei complessuali devastanti, intollerabili, riconosciuti improvvisamente nella loro ambivalenza di estraneità e appartenenza.
Nelle schizofrenie il noto, benché gonfio d’angoscia,  rassicura in quanto apportatore di una sofferenza appunto conosciuta, seppur inenarrabile. In terapia dovremmo riuscire a trasmettere una interrogatività, ad attivare curiosità verso l’allusione a una possibilità di epifania potenzialmente osservabile e condivisibile nella coesione della relazione, finalmente presente e rassicurante. Ciò che l’analizzando ha costruito nella sabbiera ci pone davanti a un doppio registro: da una parte l’immagine che egli ha appena reso concretamente visibile; dall’altra ciò che ci indica implicitamente, ed è visibile solo se la relazione è solida e l’immagine stessa è interfacciata con tutte le altre gestalt della terapia. Solo allora  lasciamo spazio nell’analizzando all’irruzione di una interrogatività che trascende la monotonia del « cosa è successo? »  per dinamizzarsi nella evolutività del « come e perché è successo proprio a me? ».  
Una opportunità di co-conoscenza o, per dirla con Lidia Tarantini, una co-nascenza:
 
Nella sabbiera il rapporto tra soggetto e mondo, interno e esterno, anziché venire spiegato, viene visto in una sorta di continua scoperta e di stupore di fronte a ciò che appare e in cui forse si riattiva l’originario rapporto tra il corpo proprio, vissuto e irriflesso all’origine, e il suo legame, ambiguo e inesauribile con l’altro da sé, rapporto che è più che una conoscenza, una co-nascenza  ( 45 ).
 
L'attenzione al corpo, nel caso di Alberto, è risultata fondamentale. Le sue valenze catatoniche incarnavano un’altra forma estrema di rappresentazione. Egli  ostentava un corpo a volte immobile, a volte iperattivo ( contorto, schiaffeggiato, stereotipato ), altre volte nauseabondo. Son dovuto entrare e uscire da quel corpo. In una prima fase osservarlo, poi immedesimarmi in esso, poi ancora assumerne a pieni polmoni i fetidi miasmi dei periodi di crisi più profonda: le mani sudaticce, gli scarponi d'estate, residui alimentari dappertutto, come pittura per un clown.
Penso che egli abbia dapprima cinicamente goduto di mie espressioni perplesse e della evidente difficoltà ad avvicinarmi; poi che abbia gioito del mio appressarmi e abbia cominciato a camminare con me.
Insomma, è risultato evidente che la relazione non poteva non passare attraverso il corpo; dai suoi numerosi scritti, cui posso qui solo alludere,  emerge chiaro come riesca, nel tempo, a cogliere in maniera impressionante la indifferibilità dell’hòlos, almeno concettualmente e come sofferto anelito.
La sabbiera è stata, di fatto, un “altro luogo”,  il luogo-corpo della transizione, che gli ha consentito di transitare dalla spazializzazione reificante allo spazio vissuto. Attraverso l’immagine che si è fatta si sono ri-movimentate le esperienze catastrofiche, in un milieu di continuità spazio-temporale affettiva.
Quel corpo ( anzi, quei corpi, se doverosamente si include l’analista ) è stato ri-animato, attraverso la teatralizzazione di un corpo-ectoplasma, il Genio, che kairologicamente ha potuto mostrarsi.
Il corpo era finalmente  là, ben in vista, ben rappresentato, mentre la psiche poteva continuare a frequentare degli  “altrove”, iterativi e rassicuranti al contempo.
 
Questa particolare esperienza del tempo-corpo nella sabbia, rende il tempo reversibile e circolare, perché è nel futuro che si dispiegheranno le potenzialità dell’azione costruttiva presente, il quale presente si realizzerà pienamente nel momento in cui diventerà passato, nella compiutezza del gesto, mentre il corpo esprime la sintesi e il luogo di incontro dei tre momenti. Il corpo proprio che agisce nella sabbia porta alla visibilità il formarsi di una “temporalità incarnata”. Di qui lo stupore e l’inquietante estraneità degli oggetti scelti, significanti personificati che in quel momento ritrovano una significatività nuova, quasi aurorale, pur restando noti e familiari  ( 46 ).
 
Sarebbe operazione ingenuamente letterale il voler identificare, sic et simpliciter, la teatralizzazione nella sabbiera con la rappresentazione psichica per eccellenza. Ma, riferendomi all’esperienza dell’oggetto-attore di questo mio scritto, è evidente che in quella produzione nel vassoio è praticamente tutto.
Lo Spirito trasmuta la propria iterazione onnipotente in una possibilità di contatto con il mondo. Se ci riferiamo alla favola di Aladino, il Genio è l'emblema stesso del paradosso. Finché è nella lampada conserva una propria possibilità onnipotente; ma intanto è prigioniero e, quindi, impotente. Una volta realizzatasi, con la liberazione, l'immanenza onnipotente, ogni energia viene esaurita nel classico tre desideri, per cui diventa impotente. E forse la psicosi è tutta in questo tragico e paradossale gioco: non si vive per il terrore della morte, e così si è prigionieri di una morte costante; si procrastina il vivere in un'attesa onnipotente ed irrealizzabile del tempo giusto per poterlo fare; ai timidi tentativi di contatto col vivere, inteso come relazione significativa col mondo, corrisponde spesso un maniacale spreco di  tre desideri, cioè delle potenzialità di autentica interazione. Quale espressione immaginale più appropriata dell'autismo, quindi, se non quella dello Spirito nella bottiglia ( o nella lampada ) ?
Alberto ha potuto fare uscire lo Spirito dalla bottiglia condividendo l'operazione con l'analista, nume tutelare-eroe. E il premio, il tesoro della favola dei Grimm, è lì, nello stesso vissuto di potersi concedere di far fuoriuscire lo Spirito, e con esso i germi, la radioattività, il pericolo.
Un'ambiguità  apparentemente banale mi appare illuminante: germe significa bacillo ma anche seme. Rappresenta un pericolo ma può contenere un'immanenza fecondante. E' vita, in definitiva è congiunzione. I libri e gli abiti non necessitano più del freezer, prima di essere portati in seduta. La semplice grandiosità del processo è lì: lo Spirito, come nella favola, una volta uscito potrebbe assumere un atteggiamento spocchioso e pericoloso, potrebbe non stare ai patti, tradire chi lo libera, esprimere disordinatamente la propria rabbiosa aggressività, esaltata dalla conquistata libertà. Ha anche il potere per farlo. Eppure lo “Spalatore” crede ad una potenzialità positiva; crede che con l'esperienza fatta in analisi possa lasciare intravedere un'energia latente.
L'analista, lo Psicopompo, gli può consentire di giocarsi la partita con lo Spirito, quasi ad armi pari e percepire come attuabile l'Opera.
E l'azzardo lo premia: come nella favola, egli  si laurea, nel senso che acquisisce una forte consapevolezza del proprio stato psichico e comincia a guardare un po’ più dall'esterno ai propri sintomi. Insomma diventa medico… di se stesso. Ciò rappresenta, in ultima analisi, l'espressione più autentica della therapeutica junghiana.
Un percorso di inglobamento, sintetizzato, a mio avviso, in quel riferimento allo spirito che sarebbe « terzo, anzi no, quarto », come afferma, criptico, Alberto.
Si propongono alla mente tante possibilità. Il quarto  come completezza, centrazione psichica, espressione immaginale del Sé, non definibile verbalmente, continuità nel tempo attestata dalla conquistata rigorosa frequentazione delle sedute. Certamente ipotesi affascinanti e percorribili.
Emerge dalla foschia del furore ermeneutico un vissuto inequivocabile. Penso, così, ad un suo inconscio riferimento al quarto elemento ora percepibile nel processo di auto-definizione di sé come essere relazionabile: il supervisore, “Mentore del Mentore”, presenza intuita ed allucinata, investita contumace. 
Saggio, con fare solenne, la consistenza del vas. Avverto, ora, finalmente, una certa solidità, che rassicura il primo ( l'analizzando ), il secondo ( l'analista ), il terzo ( la sabbiera e lo spirito in essa contenuto ), il quarto ( il supervisore ).
Dall’esperienza con Alberto credo sia emerso chiaramente quanto i differenti livelli rappresentazionali siano stati capaci di offrire nuove metafore, nonché nuove opportunità di elicitazione  dell’atmosfera affettiva bi-personale che, per funzionare in analisi, deve caratterizzarne il campo, in una costante amplificazione condivisa di senso.
La scena costruita nella sabbiera aveva consentito, come ho più volte mostrato, di far dialogare la mimesi, il gesto, con la diegesi, la parola: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” ( 47 ).
Ha potuto prender forma nel campo, così, quella funzione trasformativa ( trascendente ) degli spettri cui dava corpo Alberto. La sua  drammatica attitudine a concretizzare fatti psichici andava sgretolandosi, con l’acquisita possibilità di nominarli.
Così serpente - inganno – mediazione diventano termini e contenuti che possono disvelarsi nella loro continuità-contiguità. Il serpente ( il tentatore e l'ingannatore ) per Alberto assume caratteristiche certe. Inganna con la favella, con il bel parlare ( o il bello scrivere ), oltre che con il suo contiguo polisemico, il riso.
 
…un riso che ora ti fa sentire  schernito o odiato, ora ti fa venire voglia di piangere, ora ti fa intravedere per un attimo le lande vuote e desolate della disperazione umana, e, soprattutto, ti comunica un groviglio di sentimenti che nessuna parola al mondo potrebbe esprimere, perché, le parole, che per la loro natura sono qualcosa di definito e differenziato, sono quanto di più dissimile vi possa essere da questa massa informe ( 48 ).
 
Alberto che usa e abusa della parola, quindi. Fecondo, ciarliero, acrobata dell'iperbole, sempre cadenzata dalla risata. Capta benevolentia. Del resto, il linguaggio retorico è serpentino: « lo stile è il diavolo », come dice Valéry ( 47 ). E Alberto ha un'iterazione: l'arguzia della ragione, che egli porta nel mondo come violento innesto paterno in un’Anima pronunciata, e lo rende commediante consumato.
In fondo è un mentitore, un occultatore coatto, come il Mefistofele di Madàch, « lo spirito che sempre nega » ( 49 ). Un mentitore-seduttore-gabbatore: Don Giovanni, Marchese De Sade o…emulo di Masoch?
Alberto mente e seduce. Con la parola, con gli scritti, così come con il riso.
Ma la risata, calata finalmente in una relazione significativa, finisce per tradirlo e fargli rappresentare parti più autentiche. Da gabbatore a gabbato, quindi; quel riso, il primo riso, infine mi è più chiaro.
Alberto dirà alla fine di quella tranche di analisi: « Posso dire che il persecutore a volte mi fa sorridere…interrogo il mio inconscio ed una qualche spiegazione la ottengo, tanto da non dovermi più chiudere in casa così spesso. La finestra è aperta: l'aria, lo spirito positivo, deve poter entrare, sempre, anche d'inverno; il nero ragnetto oggi è solo uno scuro ragnetto… e serpenti neri non ne vedo in giro.
Io sento, percepisco chiaramente la mia esistenza oscillante, instabile; ora esaltata, ora fin quasi annullata da un vento, come da uno spirito, appunto, che a tratti mi spinge in alto ed esalta la mia solitudine come fosse beatitudine ed a tratti mi trascina in un abisso. E devo tappare ancora il naso; e devo, devo assolutamente saggiare come una piccola morte. A volte addirittura sperimento contemporaneamente queste due sensazioni e ho appreso a tollerare che convivono in me pezzi  in dissociazione. Spesso mi irrito, perché in fondo l'autismo mi consentiva quella cinica distanza dalle mie parti in dissonanza, offrendomi un approdo rassicurante ed a volte esaltante. L’autismo, in fondo, fa guardare il mondo dall'alto in basso.
Ma il vero miracolo consiste nell'essere riuscito a sperimentare possibile il contatto con l'altro, con lui apprendere ad amare il mio dolore e prendere le distanze dalla protervia della ragione ».
Per lui era stato naturale sentirsi contemporaneamente qua e là. E il senso finiva sempre per essere custodito in un altrove prossimo e contemporaneamente remoto, sfiorabile dalla ragione e distanziato dalle proprie inquinate capacità di emozionarsi.
Un fluttuare in una zona vuota, prima del percorso analitico, di rappresentazione in rappresentazione, come su di un vascello sgangherato, in navigazione a vista e rigorosamente solitaria.
Un “ectoplasma”, come egli stesso si era definito,  raggomitolato nella tautologia del reale e nell’opacità dell’ovvio.
 
Bibliografia
 
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21. P. Aite, Paesaggi della Psiche, Il Gioco della Sabbia nell’analisi junghiana, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 96.
22. T. H. Odgen (1989), Il limite primigenio dell’esperienza, Astrolabio, Roma, 1992.
23. C. G. Jung (1957), op. cit., p. 229 e seg.
24. Ibidem.
25. Ibidem.
26. A. Aromatico (1996), op. cit., pag. 41.
27. C. G. Jung, (1957),  op. cit., p. 229 e seg.
28. Ibidem, p. 229 e seg.
29. A. Malinconico (2006), op. cit., pp. 57 - 76.
30. A. Malinconico (2007), op. cit., pp. 171 - 199.
31. C. G. Jung, (1957), op. cit., p. 229 e seg.
32. C. G. Jung, (1957), ibidem.
33. A. Malinconico (2006), op. cit., pp. 57 - 76.
34. G. Martini,« Incontrarsi senza comprendersi», in Rivista di Psicologia Analitica, (a cura di) A. Malinconico, nuova serie n. 22, Magi, Roma, 2006, pp. 42 - 51.
35. Ibidem, pp. 54 - 55.
36. C .G. Jung (1955), «Fenomenologia dello spirito nella fiaba», Opere, vol IX, Boringhieri, Torino, 1984, p. 221.
37. Ibidem, p. 222.
38. A. Malinconico, «Giochi antichi e parole nuove per uomini senza ricordi», in Giochi antichi parole nuove, (a cura di) F. Castellana, A. Malinconico, Vivarium, Milano, 2002, p. 223 - 252.
39. A. Malinconico, «Gioco della sabbia e gruppo di schizofrenici (riflessioni intorno ad epistemologia e prassi)», (in) A. Malinconico, M. Peciccia, Al di là della parola, vie nuove per la terapia analitica delle psicosi, Magi, Roma, 2006.
40. P. Aite (2002), op. cit.
41. A. Donfrancesco, M. A. Venier, Il Gesto che racconta, Setting analitico e gioco della Sabbia, Magi, Roma, 2007.
42. C. G. Jung (1935), «Principi di psicoterapia pratica» Opere, vol XVI, Boringhieri, Torino, p. 79.
43. L. Tarantini, Lo sguardo che ascolta, Magi, Roma, 2006, p. 103.
44. G. Martini (2006), op. cit., p. 45.
45. L. Tarantini (2006), op. cit., p. 101.
46. Ibidem, p. 102.
47. U. Eco, Il nome della Rosa, Bompiani, Milano, 1981, p. 503.
48. H. F. Searles, Scritti sulla schizofrenia, Boringhieri, Torino, 1974, p. 381.
49. P. Valéry, «Disegno di un serpente», Poesie, Feltrinelli, Milano, 1969.
50. I. Madàch, (1861), La tragedia dell’uomo, UTET, Torino, 1965.

 

Note biografiche di Angelo Malinconico
Psichiatra, Criminologo, Psicologo Analista con funzione didattica dell’Associazione Italiana Psicologia Analitica e della International Association Analytical Psychology. Didatta, inoltre, delle Scuole di Psicoterapia Atanor, IPAP, Istituto Gaetano Benedetti. Membro ordinario del Laboratorio Analitico delle Immagini. Past-president dell’Associazione Italiana Residenze per la Salute Mentale. Direttore dei Servizi per la Salute Mentale in Basso Molise. Formatore e supervisore di operatori della salute mentale. Redattore e componente la direzione della Rivista di Psicologia Analitica. Autore di circa 100 articoli e di numerosi volumi, tra cui i più recenti:
ü Per Mimesis: Tempo e Sincronicità. Tessere il tempo (con S. Tagliagambe), 2018.
ü Per Vivarium, Milano: Psicologia Analitica e mito dell’Immagine. Dialogando con Paolo Aite, 2017.
ü  Per Rivista di Psicologia Analitica Editore (a cura) Vie regie per l’inconscio, n. 91, 2015.
ü Per FrancoAngeli, Milano (a cura, con Alessandro Prezioso): Comunità Terapeutiche per la salute mentale; intersezioni, 2015.
ü Per Moretti e Vitali, Bergamo (con S. Tagliagambe): Jung e il Libro Rosso: Il Sé e il sacrificio dell’Io, 2014.
ü Per le Edizioni Magi, Roma (con N. Malorni): Psiche mafiosa. Immagini da un carcere, 2013.
ü Per Cortina Editore: Pauli e Jung, un confronto su materia e psiche, (con S. Tagliagambe), 2011.
 
*Da: Rivista di Psicologia Analitica, Umwelt, il divenire della rappresentazione, a cura di Stefano Carta, N. 78/2008.
 
 
 

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