PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
di Paolo F. Peloso

20 LETTURE CONSIGLIATE DAL 2020… PIU' UNA

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3 ottobre, 2020 - 11:48
di Paolo F. Peloso
NDR: abbiamo inserito link verso Amazon per l'acquisto dei libri segnalati. Rammento che gli acquisti effettuati su Amazon utlizzando i link presenti sulla rivita (anche non di libri segnalati) genera una piccola revenue per la rivista per cui ci permettiamo si sollecitare ai lettori l'uso di Amazon passando per Psychiatry on line Italia. Non cambierà nulla nella vostra transazione.

Ormai da sei anni ho l’abitudine di commentare sulla rubrica Pensieri sparsi della rivista online Psychiatry on line – Italia, i libri pubblicati su temi di salute mentale e dintorni nel corso dell’anno che mi hanno più interessato; mi ha fatto perciò piacere la proposta degli amici organizzatori della Settimana della XV Salute Mentale di Reggio Emilia di parteciparvi il 30 settembre dando anche voce e volto, in questo caso, alla presentazione. Ai 19 libri segnalati in quell’occasione se ne aggiungono 2, e perciò lo spazio che potrò dedicare a ciascuno è limitato. Di qualcuno di essi mi sono già occupato sulla rubrica e vi rimando; su altri non potrò dilungarmi qui quanto meritano, e conto di farlo perciò prossimamente

. In calce a questa versione scritta dell’intervento - nella quale sono stati aggiunti riferimenti a due nuovi libri e sono più articolati alcuni degli altri riferimenti - è a disposizione il video dell’intervento nel corso della settimana della salute mentale


 

Apro con quello che mi pare decisamente un libro importante ed è Storia della fenomenologia clinica. Le origini, gli sviluppi, la scuola italiana, curato da Aurelio Molaro e Giovanni Stanghellini, edito da Utet (pp. 466, 41 ). Tra gli altri autori, alcuni noti nel mondo della salute mentale e altri meno, troviamo Massimiliano Aragona, Massimo Ballerini, Francesca Brencio, Paolo Colavero, Daria Dibitonto, Gilberto Di Petta, Giampaolo Di Piazza, Andrea Fagiolini, Federico Leoni, Maria Mancini, Stefano Micali, Giuseppe Migliorini, Mario Rossi Monti. Mancava, finora, un libro come questo, una trattazione sistematica della corrente fenomenologica della psichiatria. Il secondo dei curatori non ha bisogno di presentazione; Giovanni Stanghellini si è formato alla scuola fiorentina di Arnaldo Ballerini, ed è certamente una delle menti più brillanti che illuminino il nostro panorama psichiatrico, che in questo momento forse non brilla particolarmente. Aurelio Molaro è un filosofo dell’Università Bicocca di Milano, attivo nel campo dell’epistemologia della psichiatria, della psicologia e della psicoanalisi. Il libro affronta autore per autore lo sviluppo della corrente fenomenologica della psichiatria, dai più noti Jaspers, Binswanger, Minkowski ad altri meno conosciuti e studiati, da von Gebsattel, Straus, Schneider, Kretschmer, Wyrsh, Medard Boss, Kuhn, Tellenbach, van den Berg, Laing, Blankenburg, Tatossian, Kimura Bin. Alcuni di questi autori si incontrano tra i riferimenti di Basaglia e di Slavich tra gli anni ’50 e ’60. E poi i contemporanei, Alfred Kraus, Otto Dorr-Zegers, Josef Parnas, Thomas Fuchs e Louiss A. Sass, che è autore della prefazione al volume. L’ultima parte è per la italiana di psicopatologia fenomenologica, da Cargnello a Barison, Callieri, Basaglia, Ballerini e Calvi. Il  panorama è ricco e completo – solo, se posso permettermi, mi sarebbe piaciuto trovare tra gli italiani anche G.E. Morselli al quale comunque non mancano i riferimenti – e i problemi intorno ai quali si interrogano questi illustri protagonisti della corrente fenomenologica della psichiatria, alle cui applicazione clinica ricordo che l’anno scorso ha dedicato un bellissimo volume Lodovico Cappellari (L’esperieenza psicopatologica. Il senso della clinica nella prospettiva della cura, Fioriti),sono quelli fondamentali della psicopatologia: i misteri della vita mentale a partire dall’esperienza schizofrenica per proseguire con quelle depressiva e maniacale e le altre forme che la sofferenza mentale assume. Credo che attraverso questo volume sia possibile conoscere, nelle sue linee fondamentali, un secolo di ricerca psicopatologica centrata sull’esperienza del soggetto. Una corrente sempre minoritaria, che si è ostinatamente battuta, senza riscuotere i riconoscimenti accademici e l’attenzione che avrebbe meritato, contro ogni forma di approccio oggettivante e riduzionistico a quel territorio in gran parte oscuro e inesplorato che è la nostra mente e all’esperienza psicopatologica nella sua tragedia e nella sua complessità.



 
Rimaniamo in argomento con il secondo volume che è Ferdinando Barison: l’incontro con l’esperienza schizofrenica. L’unicità di ogni dialogo, con il quale due ricercatori dell’università di Padova, Micaela Abbonizio e Matteo Ballario, raccolgono per Fioriti (pp. 173, 20) 24 saggi,  19 dei quali dello psicopatologo padovano Ferdinando Barison (1906-1995), che fu direttore del manicomio di Brusegana a Padova dal 1947 al 1971,  e 5 attinenti i suoi scritti di Lorenzo Calvi e Giovanni Gozzetti, entrambi recentemente scomparsi. Aprono il volume due saggi introduttivi di Gozzetti e di Eugenio Borgna, e lo chiudono cinque saggi sulla figura e il pensiero di Barison di Lodovico Cappellari, Riccardo Dalle Luche, Maria Armezzani, Leonardo Meneghetti, Francesca Sbraccia. Cito da Borgna: «La psichiatria, come dialogo e come incontro con gli altri-da-noi, come ricerca infinita del senso del dolore e della sofferenza, è stata la ragione d’essere dell’esistenza scientifica e umana di Ferdinando Barison». Il libro non fa sconti al lettore; è difficile, complesso come irriducibilmente complesso è l’argomento che affronta. Ma ha il merito di condurci in un’esplorazione affascinante nel mondo della schizofrenia. Barison – cito dal saggio di Cappellari - «è uno psichiatra vero, immerso nel mondo della sofferenza mentale, che considera non solo come un oggetto di studio, ma anche come una fonte inesauribile di conoscenza di modi di esistere, anche se definiti malati. Barison si muove essenzialmente sull’intuizione». Pensatore dunque asistematico e per molti aspetti originale, Barison affronta nei saggi raccolti molti temi centrali dell’esperienza schizofrenica: dall’ironia, all’interpretazione delirante nella sua relazione con la coscienza di significato nella percezione, lo smarrimento, il manierismo, l’evoluzione in cronicità considerata con curiosità e rispetto, il Praecoxgefuhl, l’espressione artistica, la relazione con il sé. E l’Anders, un concetto a lui caro nel quale Barison coglie il nucleo della schizofrenicità, un qualcosa in più che fa sì che un’esistenza possa essere considerata schizofrenica.  Barison esprime la convinzione che: «ogni schizofrenico ha un suo modo di essere delirante, diverso da ogni altro». Quelli che Barison affronta sono i problemi di sempre della psichiatria. E mi ha colpito, da un lato, ritrovare – mi è parso - nel saggio sull’interpretazione delirante nella sua relazione con la coscienza di significato nella percezione, l’eco di un dibattito antico, che ha visto i medici di fine ‘600 dividersi sull’attribuzione del delirio a un difetto primitivamente dell’imaginatio, cioè della parte della mente deputata al recepimento delle percezioni organizzate dal senso comune, o dell’intellectus, la parte della mente volta a processare criticamente l’informazione che l’imaginatio gli presenta. Ma anche, nello scritto sull’ironia schizofrenica, fenomeni nei quali mi sto imbattendo io stesso oggi,  nel trattamento di un paziente che ho in cura.



 
Con il terzo volume, che mi è particolarmente caro, balziamo dalla fenomenologia alla psicoanalisi ed è Rileggendo Freud. 24 lezioni di psicoanalisi, nel quale sono raccolte le lezioni su Freud tenute nel corso degli anni ’90 da Romolo Rossi, docente per molti anni di psichiatria all’Università di Genova, commentate da quattro saggi di Mario Amore, Francesco Bollorino, Maurizio Pompili e Sabino Nanni, che ha curato il volume per le edizioni Alpes (pp. 318, 23 ). Confesso di aver provato, leggendolo, un po’ di nostalgia e di delusione. Per chi, come me, all’inizio dell’Università si trovava nella scomoda posizione di essere già più interessato fin dal primo anno alle vicende di Edipo e di Raskolnikov che all’epistrofeo e all’astragalo, imbucarsi da subito per assistere le famose lezioni di Rossi dava la forza necessaria per proseguire fino all’agognato esame e tirocinio di psichiatria. E ora nella loro lettura avverto inevitabilmente, rispetto a quell’esperienza, lo stesso scarto che si prova tra assistere a una rappresentazione teatrale, e leggerne il testo; ma più di questo la carta non può dare. L’obiettivo di Rossi con queste lezioni – dirette originariamente a studenti e specializzandi,  riprese online negli anni da Bollorino, e ora precipitate sulla carta, com’era nell’ordine delle cose, grazie alla curatela di Nanni – è trasmettere a medici e psichiatri in formazione la consapevolezza dell’esistenza dell’inconscio, del determinismo psichico, delle altre ipotesi  di Freud e del suo stile; e insieme, sulle orme di Freud, del fatto che per la comprensione della vita mentale non è sufficiente la conoscenza della mappazione della corteccia, ma occorre entrare in risonanza con il lavoro introspettivo di poeti e scrittori: Omero, Saffo, Dante, Flaubert, Dostoëvskij. Possiamo definire dunque il volume una sorta di compendio critico, una riscrittura fedele ma non priva di elementi di originalità, dell’opera freudiana? Io direi di sì e come tale credo che sia un’operazione molto interessante. Gli studenti di medicina devono conoscere Freud e gli specializzandi devono essere introdotti alla sua lettura; l’esposizione di Rossi – forse persino qui un po’ appesantita in qualche caso dalle citazioni freudiane – ha l’eleganza e la capacità d’incuriosire necessarie ad attirarli a una lettura che può essere per loro sospetta perché eccentrica rispetto al resto degli studi (e forse l’insistenza di Rossi sul Progetto ha anche - “anche”, non “solo” - lo scopo di rendere loro meno brusco il salto). È un’esigenza, del resto, questa della presenza della psicoanalisi nella formazione del medico e dello psichiatra, che è avvertita anche nei saggi di Amore e da Pompili; e la posizione di Freud stesso in proposito è argomento della lezione 19 del libro. Mi pare che i contributi di Bollorino e di Nanni al volume e la recensione su Psychiatry on line di Rossella Valdré (clicca qui per il link) -  sono tutti e tre suoi allievi - apprezzino, e a mia volta ho apprezzato, questo aspetto. È più intrigante la recensione, sempre su Psychiatry on line, di Gerardo Favaretto (clicca qui per il link), che dalla lontana Padova è più protetto, rispetto a noi quattro, dal fascino di Rossi. E che coglie nel testo anche i segni – per la verità non così evidenti a prima vista perché l’intento didattico unitamente al gusto della parafrasi freudiana, della narrazione elegante e del riferimento letterario comunque prevalgono – di quella che è stata l’evoluzione del suo pensiero sulla psichiatria nel corso degli anni ’90. E le questioni principali che garbatamente Favaretto solleva e varrà la pena di riprendere in una prossima occasione mi paiono entrambe in relazione con la rivalutazione, da parte di Rossi, del giovane Freud del Progetto, e sono la sua adesione all’operazione di semplificazione costituita dai DSM, nella cui traduzione e divulgazione in Italia Rossi si è direttamente impegnato proprio in quel periodo; e l’avere guardato – proprio lui che nel corso della specializzazione ci ha introdotto alla psicopatologia da grande maestro qual è – alle prospettive delle neuroscienze fino a maturare una concezione vieppiù scettica e preoccupata di quelle della psichiatria, intesa come scienza della mente e dell’incontro. Il che pare un po’ stridere, per chi di noi ha frequentato Rossi. con ciò che gli ha sentito infinite volte ripetere, che: “quello dello psichiatra è il mestiere più bello del mondo”. Questioni, dunque, interessanti queste poste dal volume e sollevate dalla recensioni, che occorrerà, credo, riprendere in modo più ampio di quanto qui sia possibile.



 
Dei quattro testi che seguono ho già avuto occasione di scrivere sulla rubrica, e perciò scorrerò più veloce rimandando chi fosse interessato a quanto già scritto.
 
Il primo è la II edizione del volume Franco Basaglia di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio, edito una prima volta nel 2001 da Bruno Mondadori e ora meritatamente riproposto, con prefazione di Borgna, dalla “Collana 180” delle edizioni AlphaBeta Verlag (pp. 333, 16 ). È un testo davvero fondamentale per la conoscenza del pensiero dello psichiatra veneziano, nei suoi rapporti con quello di filosofi e intellettuali come gli esponenti della fenomenologia – Jaspers, Binswanger, Minkowski, Straus ecc. - o come Sartre, Foucault, Fanon; con studiosi della dimensione istituzionale come Barton e Goffman; con le realtà più avanzate della psichiatria   del suo tempo, la comunità terapeutica inglese, la psicoterapia istituzionale francese, la “community psychiatry” degli Stati Uniti. Un libro fondamentale, insomma, dal quale credo che nessuno che operi nella psichiatria della 180 possa prescindere (clicca qui per il link alla recensione).



 
Tratto insieme due iniziative editoriali che hanno entrambe al centro con Agostino Pirella, che di Franco Basaglia è stato tra i più stretti collaboratori. Si tratta del numero 385 della prestigiosa rivista Aut Aut dal titolo Agostino Pirella. Il sapere di uno psichiatra che ospita oltre a tre testi molto interessanti e attuali di Pirella articoli, tra gli altri, di Mario Colucci, Pierangelo Di Vittorio, Marica Setàro, Vittorio Lingiardi (pp. 181, 20 ). L’altro volume sono gli atti del convegno Agostino Pirella. L’esperienza di Arezzo a 40 anni dalla Legge 180 curati da Cesare Bondioli, che di Pirella fu stretto collaboratore, per il Centro Franco Basaglia di Arezzo e per Psichiatria Democratica (pp. 195). Oltre a un altro testo interessante di Pirella, raccoglie tra gli altri contributi di Alessandro Ricci, Paolo Nascimbeni, John Foot, Giampaolo Guelfi, Italo Galastri, Caterina Pesce, Emilio Lupo, Johann Pfefferer-Wolf (clicca qui per il link alla doppia recensione).



 
E proseguo con Il fiume della vita. Una storia interiore di Eugenio Borgna, che ritorna con questo volume a Feltrinelli (pp. 191, 16 ). In esso Borgna ripercorre la propria vita, dall’infanzia, all’adolescenza, alla vita professionale nella quale distingue tre periodi: quello manicomiale, quello ospedaliero e poi quello della libera professione, alla quale si è dedicato dopo il collocamento a riposo. Ma soprattutto si sofferma mi pare, sull’esperienza che sta vivendo oggi, la vecchiaia, della quale parla con tono sereno e la saggezza e curiosità che sempre lo accompagnano, e approfondisce aspetti che ad essa spesso si legano: l’atto del ricordare e, a volte, il suo venir meno nella condizione fragile della malattia di Alzheimer e la malinconia, che tiene distinta dalla depressione, ed è il sentimento che accompagna la perdita delle persone e della cose che sono care. È, come spesso per Borgna, un libro scritto col cuore e per il cuore, e un percorso lungo il quale lo accompagnano poeti, letterati, artisti nella cui esperienza della condizione umana Borgna cerca spesso ispirazione e suggerimenti (clicca qui per il link alla recensione).



 
Fin qui dunque per la psichiatria e la sua storia recente. Passerò ora, occupandomi di altri 7 volumi, alla storia della psichiatria; questa sezione è inevitabilmente sacrificata nella nostra conversazione, e si potrebbe perciò ritornarci sulla rubrica nelle prossime settimane.
 
Apro con La doppia morte di Girolamo Rizzo. Diario “clinico” di una follia vissuta di Francesco Bollorino e Gilberto di Petta, edito da Alpes (pp. 112, 11 ). Si tratta della pubblicazione del diario di un maestro elementare affetto da schizofrenia paranoide che, dopo quattro anni di malattia descritta dall’interno con grande precisione e intensità emotiva, arriva ad uccidere un prete a lui sconosciuto e incontrato per caso. In seguito al fatto viene ricoverato in manicomio dove oltre vent’anni dopo è a sua volta ucciso da un altro ricoverato. Bollorino e Di Petta commentano il diario, e seguono tre saggi di Rita Corsa dedicato al tema delle macchine influenzanti, di Pierpaolo Martucci sugli aspetti criminologici della vicenda e del sottoscritto sul reciproco rapporto tra Rizzo e la sua (e mia) città, ricostruito attraverso il confronto speculare tra il suo diario e i resoconti dei quotidiani dell’epoca. Ma, dopo la sua pubblicazione, il diario ha continuato a esercitare una straordinaria capacità di evocare pensiero, e così a questi primi commenti ne sono seguiti altri pubblicati su Psychiatry on line, di Massimo Lanzaro, Luigi Benevelli, Sergio Mellina, Giovanni Martinotti, Francesco Paolella, Giuseppe Zanda, Ivan Villa, Francesca Podavini, Sarantis Thanopulos, Massimo Tronti, Luciano Del Pistoia. Qualcuno ha escelto la forma intrigante di poter incontrare il nostro maestro e dialogare con lui, qualcuno ha evocato il caso del giudice Schreber, qualcuno il racconto Il risciò fantasma di Kipling, qualcuno l’umanissima e clinicamente perfetta rappresentazione dell’esordio della psicosi ne Il sosia di Dostoëvskij, qualcuno si è impegnato in importanti riflessioni di ordine storico, psicopatologico e clinico e alcuni di questi contributi costituiscono senz’altro per ricchezza e originalità appendici ulteriori al volume..



 
Proseguo con Un manicomio dismesso. Frammenti di vita, storie e relazioni di cura di Maria Antonella Galanti e Mario Paolini, edito da ETS (pp. 266, 25 ). Nella prefazione, Favaretto ricostruisce la storia del Sant’Artemio di Treviso e la colloca in quella della psichiatria italiana nella prima metà del ‘900. Il testo, nato dalla collaborazione tra due ricercatori che avevano cominciato autonomamente lo studio del polveroso archivio (così era accaduto a Emilio Maura e a me per Genova all’inizio degli anni ’90) recupera storie di vita interrotte dall’internamento, vicende di uomini e di donne approfondendo temi specifici, la relazione di cura, i medici e gli infermieri, la guerra, la follia femminile e la sua repressione.



 
E poi ancora con Raccontare la follia. Le carte dell'ospedale psichiatrico San Giacomo di Tomba di Verona curato da Marina Garbellotti, Emanuela Gamberoni, Silvia Carraro per le edizioni Cierre (pp. 273, 14 ). In questo caso sono numerosi gli autori; e oltre alle curatrici, si va da Vinzia Fiorino che ha scritto un'importante storia del frenocomio di Volterra (Le officine della follia, ETS, 2011), a Renato Fianco – già autore di un volume sul San Giacomo nel 1992 (L'asilo della maggior sventura) – Maria Vittoria Adami, Marco Bolzonella, Cristina Lonardi e Francesco Amaddeo. Tra i temi trattati le fonti manicomiali, e in particolare l’archivio del San Giacomo, i dozzinanti, le madri infanticide, le due guerre mondiali, i racconti autobiografici e le corrispondenze, l’impatto della legge 180 a Verona e il destino dell’area del manicomio. Si tratta, in questo caso e nel precedente, di due tasselli in più che vanno ad arricchire la ormai cospicua ricostruzione della vicenda manicomiale nelle diverse realtà italiane. Il testo segue un'altro dell'anno scorso, curato da Silvia Carraro ed edito anch'esso da Cierre: L'archivio degli ospedali psichiatrici veronesi di San Giacomo di tomba e di Marzana (1880-1980). Elenco di consistenza.



 
Altri tre volumi si collocano nel filone, ormai ricco anch’esso, relativo alla Grande Guerra nel suo rapporto con il mondo mentale, aperto per l’Italia da Antonio Gibelli ormai trent’anni fa ma arricchito di numerosi contributi in occasione di questo centenario.
 
Il primo è Il conflitto e i traumi. Psichiatria e Prima guerra mondiale curato dal sottoscritto con Chiara Bombardieri ed edito dalla AUSL di Reggio Emilia (pp. 307, PDF gratuito). Il volume è diviso in tre parti, la prima dedicata alle vicende belliche dei manicomi di Reggio Emilia, Verona, Treviso, Capodichino, e di una vicenda solo tangenzialmente legata alla guerra che ebbe corso in quello di Cremona, la seconda all’evoluzione che conobbe in quel periodo una serie eterogeneo di questioni che vanno  dall’ergoterapia, all’eugenetica, alla relazione tra trauma e coraggio, al trattamento previdenziale dei folli di guerra, alla relazione tra psichiatria e psicologia. Una terza sezione, poi, è dedicata alla relazione tra cinema, psichiatria, trauma bellico. Tra gli autori segnalo Paolella, Licciardi, Favaretto, Romano, Scartabellati, Söhner, Cerro, Redzic, Pavan Dalla Torre, Ceccarelli, Nobili Vitelleschi, Angelucci. Su questa rubrica è già disponibile una presentazione più ampia, dalla quale è  possibile collegarsi per scaricare gratuitamente il PDF del volume (clicca qui per il link alla recensione).
 
Il secondo è Una guerra di nervi. Soldati e medici nel manicomio di Racconigi (1909-1919) di Fabio Milazzo, edito da Pacini (pp. 286, 18 ). Il testo ricco e accurato di Milazzo parte con considerazioni di ordine generale sul dibattito relativo al trauma bellico e all’organizzazione militare italiana, per poi focalizzarsi su quanto avviene nel manicomio di Racconigi diretto da Cesare Rossi e nella provincia di Cuneo. Indaga il rapporto tra psichiatri e autorità militari, fatto certo spesso di complicità e convergenze, ma anche di occasionali dissensi (penso ai casi di Belmondo a Padova, Zanon Dal Bo’ a Treviso, Colucci a Capodichino). Convergenze che, io credo, non dipesero tanto da una subalternità della psichiatria - la quale era in quel momento al punto più alto del prestigio che ha conosciuto in Italia nelle università, nei tribunali, sulla stampa -  quanto forse da reale sentimento patriottico in alcuni (specie dopo Caporetto), e ovviamente opportunismo in altri. Abbiamo parlato, a proposito del volume precedente, di come la guerra e i suoi effetti sul mondo mentale sono stati affrontati in quattro manicomi, e questo è un quinto che sarebbe interessante confrontare con i precedenti e con la serie ormai lunga di quelli studiati. Vale infatti anche per gli psichiatri ciò che Milazzo, io credo giustamente, sostiene anche a proposito dei soldati: che occorre diffidare dei tentativi di ricondurre emozioni e comportamenti a letture unificanti; lo studio del singolo archivio è necessario e svela come il rapporto con la guerra e con il trauma possa avere per ciascuno un diverso significato, spesso più riconducibile al mondo privato che a sentimenti generali di adesione o di rifiuto.



 
Se il volume precedente è apprezzabile per il rigore e la passione della ricerca d’archivio, cambiano radicalmente lo stile, che diventa piacevolmente narrativo, e il punto di partenza, che è quello delle storie di vita, per il terzo volume, La follia nella grande guerra. Storie dai manicomi italiani di Guido Alliney, edito dalle edizioni LEG di Gorizia (pp. 107, 14 ). Si tratta di soldati che la violenza della guerra traumatizza e incontrano una psichiatria e un manicomio che non sempre sono in grado di aiutarli né di comprenderne il panico, la costernazione, l’immensa sofferenza. Il testo è arricchito di scorci sui manicomi che via via i soldati incontrano, Treviso, Verona, Reggio Emilia, Ancona, Venezia. Mi ha fatto decisamente piacere reincontrare la figura ormai familiare di Luigi Zanon dal Bo’, il direttore del manicomio di Treviso al centro degli studi di Favaretto, che – allievo di Ernesto Belmondo a Padova – fu certamente nel corso della guerra e al termine di essa tra gli psichiatri italiani uno di quelli più capaci di coglierne e smascherarne gli aspetti traumatici e la stupida ferocia. Ma soprattutto reincontrare Osmana, la moglie ventenne che, alla notizia della morte al fronte del marito, colta da disperazione uccise il loro bambino tentando poi il suicidio e andando incontro a un lungo periodo di shock. È una vicenda impressionante tra tante terribili che lo studio della guerra ci restituisce e, visto che ci troviamo virtualmente a Reggio Emilia, voglio ricordare le parole con le quali la psichiatra Maria del Rio, nel pubblicarlo originariamente nel 1916 tra dodici casi di donne impazzite per cause belliche indirette osservate al San Lazzaro,  commentava: «Il soldato che partecipa alle odierne battaglie, assiste a spettacoli raccapriccianti, a ecatombi di compagni  e sente e vede il pericolo mille volte attorno a sé (….). Per la donna invece la guerra rappresenta solo un’immensa fonte di dolore, un succedersi di ansie, un motivo di rinunce amare». Apprendiamo da Alliney (e ci dà infondo sollievo) che Osmana, la cui esistenza è stata funestata in età giovanile da questa duplice tragedia, è stata dimessa dal manicomio già nel 1917 e nel corso della sua vita di oltre novant’anni ha ritrovato una seconda volta l’amore (clicca qui per la recensione di Gerardo Favaretto al volume su Psychiatry on line).
 
Un cenno a parte merita ancora Adolf Hitler. Analisi di una mente criminale. Psicologia e psicopatologia del nazismo di Riccardo Dalle Luche e Luca Petrini edito da Mimesis (pp. 374, 20 ). In questo documentatissimo volume gli autori riportano le opinioni degli studiosi che dagli anni ’30 a oggi hanno affrontato, a partire da diversi punti di vista, l’enigma della psicologia, ed eventualmente della psicopatologia, di Hitler e dei principali gerarchi del nazismo. Il percorso attraverso il quale Dalle Luche e Petrini ci conducono è affascinante, e oltre a metterci in contatto con molti particolari poco noti della biografia del dittatore, ci illustrano anche il grande numero di ipotesi più o meno suffragate dai fatti che negli anni sono state formulate per spiegare il suo comportamento, il carisma della sua figura e il grande consenso del quale ha goduto. Nella postfazione che mi hanno proposto di scrivere al volume, ho colto l’occasione per manifestare la grande ammirazione  per il lavoro certosino e gigantesco di ricerca da loro effettuato, e anche per mettere in guardia dalle insidie che comporta  l’applicazione degli strumenti della psicopatologia a campi nei quali le scelte possono essere anche ricondotte a fattori di ordine politico, economico o militare. Anche in questo caso, presentazioni più ampie da parte di Dalle Luche (clicca qui per il link) e mia (clicca qui per il link) sono disponibili su Psychiatry on line.



 
Proseguo con un testo che tratta un problema molto attuale: Shodo. Coronavirus. Appunti di viaggio di Luca Gavazza, pubblicato come numero monografico della rivista Il Vaso di Pandora. Dialoghi in psichiatria e scienze umane (XXVIII, 2, 2020; pp. 78, 10 ) con prefazione di Giovanni Giusto e postfazione di Andrea Narracci. L’autore è uno psicologo operante in ambito istituzionale in Liguria e descrive la sua esperienza in prima persona di un’infezione da coronavirus che, nonostante un fisico atletico e un’età niente affatto avanzata, gli ha colpito seriamente i polmoni e lo ha messo in una certa fase decisamente in pericolo. Nella sua ricostruzione, in quel periodo che sembrava interminabile nel quale in tanti ci interessavamo di lui stupiti che la cosa ci mettesse tanto tempo a risolversi, la mente si sforzava di rimanere disperatamente ancorata alle cose di sempre, che possono dare forza -  l’affetto per la famiglia, la psicologia e gli strumenti del lavoro, la passione per la cultura orientale – mentre il corpo si sentiva progressivamente spossessato e trascinato in un percorso del quale l’esito gli appare, a un certo punto, incerto. Un corpo prigioniero inizialmente dell’infezione che appare inarrestabile e poi conteso tra il virus e la macchina della cura con la sua invasività e il suo rumore assordante. Alla fine è andata bene, ma Gavazza riesce a trasmettere con grande semplicità ed efficacia comunicativa il carattere drammatico dell’esperienza che ha passato e alla quale siamo ancora, purtroppo, tutti esposti. E se abbiamo bisogno di essere convinti che, anche a costo di qualche sacrificio, questo virus è decisamente meglio non prenderlo, questa è senz’altro una testimonianza.
 
È stata mia abitudine gli anni scorsi forzare, in questo bilancio bibliografico, i limiti del mondo della salute mentale intesa in senso stretto per soffermarmi sul tema della migrazione e del confine, che è la questione centrale, credo, della storia che viviamo. Sono morti in circa 200, pare, solo in questo mese; e ricorrono oggi, 3 ottobre, 7 anni dal tragico naufragio in cui persero la vita al largo di Lampedusa 368 persone. Quindi lo farò anche in questa occasione a partire da Un mondo da guadagnare. Per una teoria politica del presente, scritto da Sandro Mezzadra, docente di filosofia politica all’Università di Bologna e collaboratore di varie Università straniere, edito da  Meltemi (pp. 344, 22 ). Il libro raccoglie una serie di saggi recenti relativi a tre temi: la politica, le migrazioni, le vicende relative ai territori postcoloniali. Come operatori della salute mentale, mi pare che almeno la seconda e terza parte ci riguardino, se non altro perché della vicenda postcoloniale e di quella migratoria, tra loro strettamente connesse, incontriamo, nel lavoro clinico, le conseguenze sul mondo mentale. Non solo, credo, in coloro che vivono queste condizioni dal punto di vista di chi porta ancora sulla pelle e negli sguardi le conseguenze e le persistenze delle colonie e si trova oggi ad affrontare percorsi migratori resi drammatici dalla rigidità del confine. Ma anche in ciò che riguarda la percezione dell’esperienza soggettiva dell’umano da parte nostra, come europei e italiani che viviamo, sia pure da posizione privilegiata, una situazione di palese iniquità e ci troviamo a doverne rimuovere le immagini feroci. Mi soffermo, in particolare, sul saggio nel quale lo sguardo di Du Bois, il teorico della linea del colore del quale Mezzadra ha curato qualche anno fa la raccolta italiana degli scritti, è incrociato con quello di Fanon, lo psichiatra franco-martinicano all’origine dell’etnopsichiatria critica moderna. Un incrocio di sguardi che ha a che fare, scrive Mezzadra, con “la questione dell’umano” e dal quale allora mi pare che anche le scienze della mente non possano prescindere.



 
La lezione di Basaglia ci insegna infatti che l’operatore psichiatrico, che ha a che fare con l’umano, non può vivere il proprio lavoro in modo avulso dalle condizioni, anche economiche e politiche, nelle quali ha luogo l’incontro con l’altro sofferente; e la contestualizzazione storica dell'opera e della vita di Freud è proprio uno dei pregi delle lezioni di Rossi, delle quali si è detto. Così mi pare importante parlare del testo di Mezzadra che è un tentativo di sistematizzazione teorica, dal punto di vista del marxismo contemporaneo, delle questioni dell’eredità coloniale e del migrare, come pure terminare questa necessariamente rapida carrellata con tre libri, che riportano esperienze concrete, a volte drammatiche, nel campo delle migrazioni e del soccorso. Il primo è Salvarsi insieme, scritto da Alessandra Sciurba ed edito da Ponte alle Grazie (pp. 176, 15 ), nel quale l’autrice, che è presidente dell’Associazione “Mediterranea saving humans” racconta la vicenda rocambolesca del veliero Alex che, messo in mare dall’associazione come nave di supporto alla Mare Jonio, si è trovato a dover effettuare direttamente, in un momento in cui la nave principale si trovava (come di fatto si trova anche oggi) bloccata dalle autorità, un salvataggio per il quale non era stato pensato né era adeguatamente attrezzato.




Il secondo è Il fuorilegge scritto da Mimmo Lucano ed edito da Feltrinelli (pp. 192, 15 ), nel quale il coraggioso sindaco di Riace racconta il sistema di accoglienza diffuso creato per ripopolare il suo borgo e dare un contributo concreto, destinato inevitabilmente a fare scandalo nell’Italia della xenofobia e dei respingimenti, all’affrontamento della questione migratoria attraverso l’accoglienza e l’integrazione di soggetti, corpi, sguardi, ai quali veniva offerto un approdo e l’occasione di una ripartenza.




Il terzo è Dove finisce l’Italia. Viaggio sulla linea sottile dei nostri confini, scritto dal giornalista Niccolò Zancan e pubblicato anch’esso da Feltrinelli (pp. 160, 15 ). Dall’Italia nord-orientale alla Sicilia, Zancan esplora il significato insieme esistenziale e politico del confine, questa linea che avvertiamo sempre più anacronistica e inadeguata a marcare in modo che può essere letale la separazione tra  diversi livelli di dignità umana, intesa come diritto di trovare risposta ai bisogni, ai desideri e persino, incredibilmente, ad essere soccorsi nel momento nel quale si annega. Ricordo, in questo caso, due articoli recenti della rubrica, uno relativo all’isola di Lampedusa (clicca qui per il Link), l’altro a quella di Lesbo (clicca qui per il link).



 
Non ho accennato durante l’esposizione orale a Reggio Emilia a questo testo in quanto sapevo che ne era prevista la presentazione subito dopo il mio intervento, ma qui vorrei fare un breve accenno a Gli intravisti. Storie dagli ospedali psichiatrici giudiziari di Jacopo Santambrogio. Edito da Mimesis (pp. 290, 20 ), ha due prefazioni, di Eugenio Borgna e di Massimo Clerici, la prima più attenta agli aspetti umani dell’esperienza dell’OPG e la seconda agli aspetti organizzativi relativi al loro superamento. Ricordo quando, con Massimo, abbiamo coordinato insieme a Perugia la discussione tra i soci della SIP degli statement alla “consensus conference” sul superamento degli OPG e della separatezza della psichiatria penitenziaria; era il marzo del 2008 e oggi gli OPG sono chiusi, la maggior parte delle persone rinchiuse o che lo sarebbero state in seguito sono in carico nel normale circuito di cura e solo una minoranza è ospite delle REMS; la psichiatria penitenziaria è transitata ai DSM. Non che con ciò essa sia automaticamente integrata col resto del circuito e le questioni siano risolte, né che il rapporto tra magistrati e servizi sia facile, certo; ma un passo importante è stato fatto. L’autore lo documenta entrando nel  2013 in tre dei sei agonizzanti OPG, Barcellona Pozzo di Gotto, Montelupo Fiorentino e Reggio Emilia e per ciascuno di essi descrive sommariamente la storia, corredata dalle efficaci ed eloquenti fotografie di Caterina Clerici e dalle interviste ad alcuni internati commentate dell’autore. Sono esse il cuore palpitante del libro, capaci di mostrare il carattere etrogeneo della popolazione che afferiva agli OPG e in qualche caso – mi hanno molto colpito ad esempio le parole di Davide sulla relazione tra personalità, schizofrenia e paranoia o su quella tra paranoia e pericolosità - di fare davvero riflettere.



 
Sono dunque 20 le letture che proporrei in questi primi ¾ del 2020… ma una ventunesima segnalazione, che merita senz’altro di non essere omessa, è possibile con l’uscita, nei pochi giorni tra l’esposizione orale di questo testo e la pubblicazione di una versione più ampia per iscritto, del libro, La forza delle idee. Silvano Arieti (1914-1981) di Roberta Passione, edito da Mimesis (32 )Sappiamo che in esso l’autrice - che è ricercatrice in Storia della scienza presso l’Università Bicocca e si è già validamente cimentata in precedenti volumi con le biografie di Ugo Cerletti e Gaetano Perusini, il che ci fa ben sperare anche in questo caso - ripercorre la vita di quest’altro protagonista della psichiatria del Novecento, offrendo uno spaccato della psichiatria internazionale del suo tempo. Emigrato dall’Italia a causa delle leggi razziali poco dopo essersi laureato a Pisa, dove è nato, e stabilitosi a New York, Arieti fu professore di Clinica psichiatrica e presidente della Società Psicoanalitica Americana; pubblicò nel 1955 Interpretazione della schizofrenia e curò, tra il 1959 e il 1966, il Manuale di psichiatria, edito in Italia da Boringhieri.



 
 
 
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