LA VOCE DELL'INDICIBILE
I suggerimenti della rêverie degli Artisti
di Sabino Nanni

Baudelaire per il clinico: L’essenza curativa dei “Fiori del male”

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22 gennaio, 2021 - 11:28
di Sabino Nanni
 
                                 
Parte I: Premessa - Spleen et idéal
        Con queste annotazioni sui versi di Baudelaire vorrei illustrare quanto sia importante, per uno psichiatra che cerchi di mettersi nei panni del suo paziente (come pure, in generale, per la persona che vuol capire quel che prova un proprio simile) dedicare una parte del proprio tempo allo studio della poesia. Il Poeta, nel momento in cui scrive i suoi versi, sceglie le parole che evocano nel modo più vivo ciò che sta provando, e che possono comunicarlo a chi lo legge. – Analogamente, il pittore compie la stessa scelta coi colori ed il musicista coi suoni – L’attività del terapeuta e del paziente non è dissimile: quest’ultimo prova a comunicare a chi lo cura quel che avviene nel proprio mondo interno. Può essere che scelga spontaneamente le parole più appropriate; può anche essere che, per i limiti delle sue capacità introspettive, o per quelli di ordine culturale, o per difficoltà emotive, si esprima in modo confuso. A quel punto, il terapeuta interviene suggerendo le parole che, in base a quel che ha intuito, riflettono più fedelmente quel che il paziente sta provando. Spesso si procede per tentativi: quando, finalmente, si sono trovate le parole giuste, il paziente avverte la sensazione d’essere entrato in un contatto intimo con ciò che sta avvenendo nella sua vita interiore. Questo esercizio linguistico “poetico” ha già, di per sé, una funzione terapeutica: il paziente, esprimendosi meglio, riesce anche a definirsi meglio, ed a riflettere su sé stesso con maggiore lucidità; il che significa un passo avanti nell’acquisizione della padronanza di sé. Se il terapeuta, attraverso lo studio della poesia, ha arricchito il suo vocabolario con termini che riflettono un’ampia gamma di sensazioni e di esperienze vissute, la sua capacità d’entrare in un contatto empatico con la persona che sta curando ne risulta notevolmente potenziata. Queste considerazioni valgono soprattutto per chi commette l’errore d’esprimersi col paziente con un linguaggio tecnico psichiatrico. È uno sbaglio, per differenti motivi: non solo, ovviamente, perché tale modo d’esprimersi risulta difficilmente comprensibile ai “non addetti ai lavori”, ma anche perché è un linguaggio che, pur necessario quando si ragiona “a freddo” al di fuori della situazione clinica, risulta, alle orecchie del paziente, lontano dalle sue emozioni e dalla sua esperienza vissuta. Esattamente l’opposto di quel che occorre in un rapporto fecondo fra curante e paziente o, in generale, fra due esseri umani. Considerazioni analoghe valgono anche per i termini tecnici psicoanalitici, che comunicano troppo crudamente (e spesso prematuramente) gli aspetti inconsci della psiche. Il Poeta ci offre metafore più allusive, più lontane (ma non troppo) dall’inconscio, più vicine alla coscienza, e come tali più accettabili e più immediatamente comprensibili da parte del paziente.
        La lettura ad alta voce di poesie, di narrativa o di altri prodotti dell’immaginazione rientra nell’attività didattica condotta dallo psichiatra-analista Thomas Ogden nell’ambito dei suoi gruppi di supervisione e formazione. L’Autore la ritiene essenziale per risvegliare la capacità del terapeuta di “sognare” in seduta, ossia di mettere in moto l’attività immaginativa (l’attività onirica diurna) in risposta alle parole del paziente. Ciò costituisce un “addestramento dell’orecchio” (“ear training”) in quanto comporta l’affinamento della capacità di rendersi conto degli effetti interiori prodotti dal linguaggio. In particolare, ci si rende più sensibili alle comunicazioni subliminali veicolate dai suoni, dalla “voce” che parla nella comunicazione e dalle “voci sovrapposte” (“oversounds”, secondo l’espressione del Poeta Frost). Inoltre si diventa capaci di collegare i più disparati significati intendendoli come comunicazioni ambigue o come metafore. Infine, si diviene in grado di produrre una molteplicità di associazioni d’idee a partire dal ritmo del messaggio verbale, dalle assonanze, dalle consonanze, dalle allitterazioni.
        Aggiungo, qui, una considerazione tratta dalla mia esperienza clinica. Un particolare sbaglio che si è portati a commettere è quello d’assumere un atteggiamento “professorale” correggendo istintivamente gli errori di grammatica del paziente, dando per scontato che essi dipendano esclusivamente dalla sua ignoranza ed escludendone a priori un possibile significato emotivo. Ad esempio, l’uso del presente indicativo (il modo della realtà) al posto del più corretto congiuntivo quando si parla di ipotesi: ciò significa spesso che il paziente sta vivendo la situazione descritta come presente, concreta e reale anziché immaginata.
        Umberto Saba in “Storia e cronistoria del Canzoniere” (pag. 268) sostiene che “in poesia prima si sente e poi, al caso, si comprende… [chi non “sente” i suoi versi] cercherà sempre in Saba quello che non è Saba”. Mutatis mutandis, possiamo applicare lo stesso concetto alla comunicazione del paziente. L’immersione empatica negli aspetti più profondi del suo mondo interno produce nel terapeuta, in un primo momento, una sensazione, su cui è bene soffermarsi, che spesso si traduce in sogni ad occhi aperti. Una parte degli stimoli subliminali alla base di tale sensazione e di tali reverie è rappresentata dalle caratteristiche del linguaggio descritte da Ogden. L’indagine su tali aspetti della comunicazione verbale (utilizzati in modo esemplare dai Poeti) consente di passare dall’intuizione (sempre almeno un poco confusa e incerta) ad una più sicura comprensione di quanto il paziente, senza rendersene pienamente conto, intende dire.  
        Un esempio che Ogden ci propone è quello del paziente che, prima dell’incontro iniziale col terapeuta, passeggiò indeciso per diversi minuti nel corridoio che conduceva alla sala d’aspetto senza decidersi né ad entrare nella stanza, né ad uscire dalla porta d’ingresso. Nonostante gli fossero state fornite tutte le indicazioni del caso, era indeciso su quale delle due porte dovesse aprire per accedere alla stanza in cui doveva attendere. Alla fine della prima seduta, dedicata in gran parte a chiarire quest’episodio, il paziente disse: “Là fuori, mi sentivo così perso”. L’effetto delle parole del paziente sarebbe stato molto diverso se avesse detto: “Mi sentivo parecchio perso quando ero là fuori”. Il modo in cui il paziente comunicava la sua esperienza isolava l’aspetto di sé stesso identificato col “Là fuori” dai sentimenti espressi con “mi sentivo così perso” che venivano collocati nella stanza in cui parlava con Ogden, ossia nella sua analisi. Tutto questo non era stato prodotto intenzionalmente: la struttura e il movimento della sua esperienza emotiva conscia e inconscia aveva forgiato il suo modo d’esprimersi.
        Entriamo, ora, nel merito de “I fiori del male” che citerò e di cui parlerò nel seguito del libro. [Per inciso, d’ora in avanti scriverò le considerazioni del sottoscritto in corsivo. I numeri di pagina a fianco di ciascun titolo si riferiscono all’edizione italiana, con testo a fronte, della Garzanti. Riguardo alla traduzione, mi sono attenuto solo in parte a quella di quest’edizione. Preciso, infine che se non ho menzionato alcune poesie, ciò non dipende dal mio non ritenerle degne di nota, ma, per lo più, dal loro evidente significato emotivo, che non richiede alcun commento.].   
        Mi pare che la migliore premessa alla sua raccolta di poesie ce la offra lo stesso Baudelaire nei versi iniziali in cui si rivolge al lettore. Essi offrono, a chi si abbandona alle proprie spontanee sensazioni, alle immagini che queste evocano, alle associazioni d’idee, numerosi spunti di riflessione di cui riporto qui solo una parte. Lascio al lettore il compito d’iniziare il suo “ear training”, che gli permetterà di completare quanto ho omesso e di correggere quanto ritiene inesatto.

 
Au lecteur – Pag. 4
 
La sottise, l’erreur, le péché, la lésine,
Occupent nos esprits et travaillent nos corps,
Et nous alimentons nos aimables remords,
Comme les mendiants nourrissent leur vermine.
 
Nos péchés sont têtus, nos repentirs sont lâches ;
Nous nous faisons payer grassement nos aveux,
Et nous rentrons gaiement dans le chemin bourbeux,
Croyant par de vils pleurs laver toute nos taches.
 
Sur l’oreiller du mal c’est Satan Trismégiste
Qui berce longuement notre esprit enchanté,
Et le riche métal de notre volonté
Est tout vaporisé par ce savant chimiste.
 
C’est le Diable qui tient les fils qui nous remuent !
Aux objets répugnant nous trouvons des appas ;
Chaque jour vers l’Enfer nous descendons d’un pas,
Sans horreur, à travers des ténèbres qui puent.  
 
(La dissennatezza, l’errore, il peccato, l’avarizia / occupano i nostri spiriti e tormentano i nostri corpi, / e noi nutriamo i nostri amabili rimorsi / come i mendicanti alimentano i loro parassiti. // I nostri peccati sono ostinati, i nostri pentimenti vili; / ci facciamo pagare lautamente le nostre confessioni / e rientriamo allegramente nel sentiero fangoso, / credendo d’aver lavato, con vili lacrime, tutte le nostre macchie. // Sul guanciale del male è Satana Trismegisto / che culla lungamente il nostro spirito stregato, / ed il ricco metallo della nostra volontà / è tutto vaporizzato da questo sapiente chimico. // È il Diavolo che regge i fili che ci muovono! / Agli oggetti ripugnanti troviamo attrattive; / ogni giorno discendiamo di un passo verso l’Inferno, / senza orrore, attraverso tenebre fetide.)
 
        [Il Poeta inizia la sua opera elencando gli aspetti sinistri dell’animo umano che compariranno nel resto del libro. Si tratta di quanto ognuno di noi potrebbe riconoscere in sé stesso, se solo avessimo l’onestà, il coraggio e la maturità che ci consentirebbero di cogliere, senza distorcerlo, ciò che avviene nel nostro mondo interno.
        Lo psichiatra, nel corso della sua attività psicoterapica, deve aver cura del “timing”, ossia di riconoscere empaticamente il “momento giusto” in cui certe realtà interiori spiacevoli possono essere svelate. Deve attendere che il paziente sia sufficientemente maturo da reggere all’impatto con sé stesso; e questo in conseguenza di una più acuta capacità introspettiva, di un adeguato sviluppo di strutture compensative, di una maggiore saldezza della sua vita interiore, di un’accresciuta capacità di trarre sostegno dal terapeuta. L’armonia della vita interiore (che sarebbe sconvolta dalla consapevolezza in una persona ancora immatura), rispettando il “timing” appropriato, viene rafforzata al contatto con quanto, nel mondo interno, era sinora risultato inaccettabile: il paziente si sente più integrato, più “completo”, più in grado, conoscendole, di padroneggiare le proprie pulsioni ego-distoniche. Tutto questo richiede che il rapporto terapeutico (talora attraverso una lunga e difficoltosa evoluzione) abbia prodotto una “esperienza emotiva correttiva” a carattere maturativo, ossia capace di rettificare e completare le precedenti esperienze formative.
        Il Poeta, attraverso la sua Arte, ci “dà in prestito” la sua maturità; ci trasmette la sua armonia interiore, il che si traduce in sentimenti di Bellezza e di Verità. Affinché ciò avvenga, è anche qui necessario che il rapporto fra lettore ed Autore si evolva, il che spesso richiede che si ritorni numerose volte sugli stessi versi. Il lavoro che qui segue è frutto di numerose ri-letture, avvenute (sia pure in modo discontinuo) nel corso di più di mezzo secolo! Ogni volta che ritornava sugli stessi versi, il sottoscritto si accorgeva di acquisire qualcosa di più: le sensazioni che essi suscitavano divenivano più intense, si precisavano; le immagini evocate si facevano più vive; le associazioni d’idee e le riflessioni più ricche.
        Quel che Baudelaire adombra già dai primi versi è il conflitto che anima e tormenta la vita di ogni essere umano, sano o malato: quello fra ciò che è più propriamente umano e quanto è animalesco; fra la “spiritualità” dell’“anima” e la materialità del corpo; fra quanto, pur evolvendosi, ha conservato la purezza originaria e quanto tende a corromperla e sconvolgerla; fra il “Sé nucleare” di Kohut (l’aspetto sopra-ordinato della vita interiore, specifico per ogni individuo, nel quale è inscritto il progetto, unico e irripetibile, cui, riconoscendolo, ciascuno dedicherà la sua vita) e le pulsioni impersonali, ostinate, incapaci di evolversi; pulsioni che si originano (o tornano a prodursi) dalla disintegrazione del Sé e che, a loro volta, tendono a provocarla. Il potere delle pulsioni non può essere sottovalutato e tanto meno negato. Satana (la personificazione della vita pulsionale rimossa), agendo nelle “tenebre” della nostra cecità nei suoi confronti, è in grado di “reggere i fili che ci muovono”, come fossimo burattini nelle sue mani, condizionando ogni aspetto della nostra esistenza. Egli è capace di rendere masochisticamente “amabili” i rimorsi, che vengono continuamente alimentati, senza mai produrre un cambiamento nella nostra condotta; di rendere i nostri pentimenti “vili”, ossia frutto di paura della punizione, e non di sincero ravvedimento; di favorire facili auto-assoluzioni con cui c’illudiamo, con qualche lacrima, d’aver “lavato le nostre macchie”; di dissolvere la nostra forza di volontà; di corrompere la nostra sensibilità, per cui finiamo per trovare attraente quel che, originariamente, era ripugnante.
        Quello che qui Baudelaire c’illustra è un conflitto mai completamente risolto; o, meglio, è una contrapposizione dialettica che si ripropone, in termini nuovi, ogni volta che la si supera attraverso una “sintesi”, e che rappresenta il motore della nostra evoluzione. Spesso si tratta di “sintesi” false e ingannevoli: non è certo un superamento del conflitto l’ipocrisia (più o meno consapevole) del “buonista” che nega l’esistenza, in sé stesso, di malvagità e di gretto egoismo, assumendo un atteggiamento moralistico di “superiorità” nei confronti degli altri. Il suo non è un superamento del conflitto meno falso di quello del perverso che, lasciando “a briglie sciolte” le proprie pulsioni, non si rende conto di essersene reso schiavo, commettendo una grave ingiustizia nei confronti di quanto di più elevato, umano ed autenticamente libero esiste in lui. Fra gli “ostinati peccati” che continuamente corrompono la nostra vita interiore, Baudelaire dà particolare risalto alla noia.        
        Generalmente s’intende, con la parola “noia”, la semplice conseguenza del “non aver nulla da fare”, come se l’origine di questo sentimento fosse esterna a noi; come se dipendesse soltanto dall’ambiente, in cui siamo costretti a vivere, che non ci offre alcunché d’interessante o piacevole. Baudelaire ci offre una visione molto più profonda e interessante di quest’esperienza: considera la noia come un vizio, il più infame e malvagio dei vizi:]
 
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Dans la ménagerie infame de nos vices,
 
Il en est un plus laid, plus méchant, plus immonde !
Quoiqu’il ne pousse ni grands gestes ni grands cris,
Il ferait volontiers de la terre un débris
Et dans un bâillement avalerait le monde ;
 
C’est l’Ennui ! – L’œil chargé d’un pleur involontaire,
Il rêve d’échafauds en fumant son houka.
Tu le connais, lecteur, ce monstre délicat,
Hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère !
 
(Nel serraglio infame dei nostri vizi // ce n’è uno più brutto, più malvagio, più immondo! / Benché non spinga né a grandi gesti, né a grida clamorose, / ridurrebbe volentieri la terra a una rovina / e in uno sbadiglio inghiottirebbe il mondo; // È la Noia! L’occhio gravato da una lacrima involontaria, / sogna patiboli fumando la sua pipa. / Tu lo conosci, lettore, questo mostro delicato. / Ipocrita lettore, mio simile, mio fratello!) 
 
        [La noia è la sensazione del vuoto prodotto da una forza distruttiva ed autodistruttiva che si agita dentro di noi. Essa tende a sopprimere tutto ciò che è alla base della nostra vitalità interiore e del nostro interesse per il mondo: l’amore (sia quello legato al desiderio sessuale, sia quello sublimato), la tensione verso mete ideali, le ambizioni, la fierezza per le nostre particolari attitudini, i valori in cui crediamo.
        La saggezza popolare ci dice che “l’ozio è il padre dei vizi”. Potremmo meglio precisare questo concetto dicendo che la noia (che si manifesta con pigrizia, da cui l’ozio) viene abitualmente “ingannata” dal ricorso ai vizi. Avendo distrutto ciò che di più vitale, elevato e propriamente umano esiste in noi, per riempire il vuoto non resta che quanto di animalesco, perverso e degradato possiamo trovare in noi stessi e nei nostri simili: il vizio. In particolare, l’incapacità d’amare nel pieno senso della parola s’esprime in una forma miserabile, abbrutita e mortificante di sessualità:]
 
Ainsi qu’un débauché pauvre qui baise et mange
Le sein martyrisé d’une antique catin,
Nous volons au passage un plaisir clandestin
Que nous pressons bien fort comme une vieille orange.
 
(Come un dissoluto povero che bacia famelico / il seno martoriato d’una vecchia puttana, /
noi rubiamo al volo un piacere clandestino / che noi spremiamo con forza, come fosse una vecchia arancia)
 
        [La capacità d’amare con pienezza, “anima e corpo”, è una delle massime espressioni di libertà interiore, di emancipazione da conflitti, inibizioni e pregiudizi. Dobbiamo considerare allo stesso modo la sessualità perversa del dissoluto di cui ci parla Baudelaire? Il Poeta ce la presenta chiaramente come frutto di povertà e vuoto interiori, ossia di quanto produce quella forza distruttiva che si esprime nella noia.
        Uno degli ideali che animò il movimento del 1968 fu quello della “liberazione sessuale”, il cui principale teorico è Wilhelm Reich. Il pensiero di quest’importante Autore, a giudizio di chi scrive, è stato male interpretato. Egli non confuse mai la “libertà” con la “licenza” irresponsabile: parlava di una sessualità sana, legata al sentimento. Esattamente come Baudelaire, infatti, Reich considerava il ricorso alla prostituzione come una forma di “miseria sessuale”. In linea con Freud, inoltre, riteneva che la sessualità perversa fosse una forma di regressione difensiva in individui che, per i loro conflitti e le loro carenze, non possono accedere alla sessualità sana e matura. Se costoro sono interiormente “costretti” a rifugiarsi nella perversione perché la sessualità adulta sana suscita in loro angosce intollerabili, in queste persone non si può parlare di libertà: la perversione è una prigione interiore.
        La tendenza attuale a “sdoganare” le forme più disparate di sessualità perversa – e qui non sto certo mettendo in discussione la tolleranza e il rispetto che si devono ad ogni essere umano, quando questi rispetti la libertà altrui – ci fa capire quanto sia diffuso il problema del vuoto interiore che esse cercano di mascherare; quanto sia estesa ed intensa l’odierna devastazione del mondo interno che si esprime nella noia. Per “ingannare” questo sentimento non esistono soltanto le varie forme degradate di sessualità: esistono innumerevoli altri tipi di piacere primitivo, di cattivo gusto, di gretto materialismo, di falsità.
        La noia, quale forza distruttiva, s’esprime in (e viene alimentata da) forme di comportamento e di modi d’essere molto diffusi: c’è l’aridità del materialista, nemico della vita interiore e di tutto quanto la esprime (l’Arte, la Filosofia introspettiva, la Religione); c’è la rigidità ossessiva del burocrate che pretende d’imporre a sé stesso ed agli altri le sue regole, e le cui procedure, mortalmente noiose, cercano di sopprimere i particolari interessi e le particolari iniziative che caratterizzano ciascun individuo; c’è la falsità dell’ipocrita che, nel momento in cui proclama con enfasi retorica, come se fossero autentici “valori”, quelle che in realtà sono solo mistificazioni e  menzogne (e censura chi lo contraddice), cerca di distruggere ogni forma di valore e di verità. Tutti costoro sono vittime della paura di vivere pienamente e dell’odio verso chi ci riesce. La noia, ossia la morte interiore, li domina, e cercano d’imporla anche ai propri simili.
        Notevole è quanto Baudelaire afferma, a proposito della noia, negli ultimi versi del suo messaggio al lettore, che avevo già  anticipato più sopra:
Tu le connais, lecteur, ce monstre délicat,
Hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère !
(Tu lo conosci, lettore, questo mostro delicato. / Ipocrita lettore, mio simile, mio fratello!)
Sentiamo, qui, la voce di un uomo saggio, che non si è sottratto alla consapevolezza dei conflitti che la vita comporta. Il suo non è l’atteggiamento di presunta superiorità del moralista; è, piuttosto, la confessione di un uomo onesto che, nel momento in cui ammette sinceramente di non essere estraneo all’ipocrisia, come tutti gli esseri umani suoi fratelli, dimostra d’averla superata, ed aiuta anche noi lettori a superarla.]
 
I Spleen et idéal
 
3 – Elévation – Pag. 16 :
 
Au-dessus des étangs, au-dessus des vallées,
Des montagnes, des bois, des nuages, des mers,
Par delà le soleil, par delà les éthers,
Par delà les confins des sphères étoilées,
 
Mon esprit, tu te meus avec agilité,
Et, comme un bon nageur qui se pâme dans l’onde,
Tu sillonnes gaiement l’immensité profonde
Avec une indicible et mâle volupté.
 
Envole-toi bien loin de ces miasmes morbides ;
Va te purifier dans l’air supérieur,
Et bois, comme une pure et divine liqueur,
Le feu clair qui remplit les espaces limpides.
 
Derrière les ennuis et les vastes chagrins
Qui chargent de leur poids l’existence brumeuse,
Heureux celui qui peut d’une aile vigoureuse
S’élancer vers le champs lumineux et sereins ;
 
Celui dont les pensers, comme des alouettes,
Vers les cieux le matin prennent un libre essor,
Qui plane sur la vie, et comprend sans effort
Le langage des fleurs et des choses muettes !
 
(Al di sopra degli stagni, al di sopra delle valli / delle montagne, dei boschi, delle nubi, dei mari, / oltre il sole, oltre l’etere, al di là dei confini delle sfere stellate, // spirito mio, tu ti muovi con agilità, / e come un buon nuotatore che si crogiola sulle onde, / solchi gaiamente la profonda immensità / con maschio, indicibile piacere. // Fuggi lontano da questi miasmi malati, / va’ a purificarti nell’aria superiore, / e bevi come un liquore puro e divino, / il fuoco chiaro che riempie gli spazi limpidi. // Felice chi, lasciandosi alle spalle gli affanni ed i grandi dispiaceri / che opprimono col loro peso l’esistenza nebbiosa / può, con ala vigorosa, / slanciarsi verso i campi luminosi e sereni; // colui i cui pensieri, come allodole, / prendono un libero slancio verso il cielo del mattino; / colui che si libra sulla vita e comprende senza sforzo / il linguaggio dei fiori e delle cose mute.)  
 
[Ciò che caratterizza essenzialmente un Poeta è la sua capacità di librarsi al di sopra delle miserie umane: di una natura, vista esclusivamente nella sua materialità, di cui è andato perduto il suo significato simbolico umano, (aggiungo, per associazione d’idee: al di sopra delle necessità della vita di tutti i giorni, necessità rese banali dall’essere considerate di valore assoluto ed esclusivo; al di sopra della lotta per il potere, resa meschina dall’aver perso un disegno grandioso e, perciò, ridotta a mero desiderio di sopraffare i propri simili); al di sopra, insomma, di tutti i “miasmi pestiferi” che corrompono la nostra vita interiore. Si tratta del recupero di una dimensione grandiosa, superiore, dalla quale il Poeta “plana” sulla vita restituendo alle cose il loro significato profondo, tornando a percepire il “linguaggio” di ciò che, per gli animi insensibili, resta irrimediabilmente “muto”.]
 
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4 – Correspondances – Pag. 18 :
 
La Nature est un temple où des vivants piliers
Laissent parfois sortir des confuses paroles ;
L’homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiers.
 
Comme de longs échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.
 
Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants,
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Et d’autres, corrompus, riches et triomphants,
 
Ayant l’expansion des choses infinies
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Qui chantent les transports de l’esprit et des sens.
 
(La Natura è un tempio dove pilastri viventi / lasciano talvolta sfuggire confuse parole; / l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli / che l’osservano con sguardi familiari. // Come lunghi echi che da lontano si confondono / in una tenebrosa e profonda unità, / vasta come la notte e come la luminosità, / i profumi, i colori e i suoni si rispondono. // Ci sono profumi freschi come carne di bambino / … / e altri corrotti, ricchi e trionfanti, // che posseggono il respiro delle cose infinite / …/ che cantano i trasporti dello spirito e dei sensi.)
 
[È qui descritto l’intimo contatto che il Poeta sa creare con la Natura (già adombrato nella poesia precedente); contatto che egli sa creare attraverso le “confuse parole” che emanano dai vari aspetti del mondo naturale, ossia attraverso l’eco interiore che la percezione di essi gli suscita. Egli sa, così, ripristinare, a partire da oggetti molteplici ed eterogenei, la “tenebrosa e profonda unità” dell’esperienza originaria di contatto con la Madre-natura, ritrovando gli “sguardi familiari” con cui essa gli si rivolge.]
 
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5 – Pag. 18, 20 :
 
J’aime le souvenir de ces époques nues,
Dont Phébus se plaisait à dorer les statues,
Alors l’homme et la femme en leur agilité
Jouissaient sans mensonge et sans anxiété,
Et, le ciel amoureux leur caressant l’échine,
Exerçaient la santé de leur noble machine.
Cybèle alors, fertile en produits généreux
Ne trouvait point ses fils un poids trop onéreux,
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L’homme, élégant, robuste et fort, avait le droit
D’être fier des beautés qui le nommaient leur roi ;
Fruits purs de tout outrage et vierges de gerçures,
Dont la chair lisse et ferme appelait les morsures !
Le Poète aujourd’hui, quand il veut concevoir
Ces natives grandeurs, aux lieux où se font voire
La nudité de l’homme et celle de la femme,
Sent un froid ténébreux envelopper son âme
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O ridicules troncs ! torses dignes de masques !
O pauvres corps tordus, maigres, ventrus ou flasques,
Que le dieu de l’Utile, implacable et serein,
Enfants, emmaillota dans ses langes d’airain !
………………………………………………….
Nous avons, il est vrai, nations corrompues,
Aux peuples anciens des beautés inconnues :
Des visages rongés par les chancres du cœur,
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Mais ces inventions de nos muses tardives
N’empêcheront jamais les races maladives
De rendre à la jeunesse un hommage profond
………………………………………………...
 
(Amo il ricordo di quelle epoche nude, / le cui statue Febo si compiaceva d’indorare. / Allora uomo e donna, nella loro agilità / gioivano senza menzogna e senza ansia; / e il cielo amoroso carezzava loro il dorso, / ed essi mettevano in pratica l’integrità del loro nobile corpo. / Cibele, allora feconda di ricchi prodotti, / non trovava che i suoi figli le fossero troppo di peso / … / L’uomo elegante, vigoroso, forte, aveva il diritto / d’esser fiero delle bellezze che lo proclamavano il loro re; / frutti indenni da qualsiasi oltraggio e privi di screpolature, / la cui carne liscia e ferma chiamava i morsi! / Il Poeta, oggi, quando vuole immaginare / quelle native grandezze là dove si mostrano / la nudità dell’uomo e quella della donna, / sente un freddo tenebroso avvolgere la sua anima / … / O ridicoli tronchi, torsi degni di maschere! / Poveri corpi ritorti magri, ventruti o flaccidi, / che il dio dell’Utile, implacabile e sereno, / strinse, fin dalla nascita, nelle sue fasce bronzee! / … / Abbiamo, è vero, noi nazioni corrotte / bellezze ignote ai popoli antichi: / visi smangiati dalle piaghe del cuore / … / Ma queste invenzioni delle nostre muse tardive / non impediranno mai alle razze malaticce / di rendere alla giovinezza un omaggio profondo / …)
 
[È qui individuato il nucleo d’esperienza soggettiva che il Poeta cerca di raggiungere con la sua Arte: un vissuto di pieno appagamento delle esigenze narcisistiche vitali: la fierezza del proprio corpo, la sensazione di un ambiente benevolo, di una madre-natura per la quale non si è di peso. È l’esperienza della gioventù nei suoi momenti più propizi: una felicità che l’individuo vive come attuale, senza bisogno di doverla ricostruire, come dovrà fare in epoca più tarda; una felicità che l’individuo vive senza nemmeno il bisogno d’esserne pienamente consapevole]
 
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10 – L’ennemi – Pag. 26, 28 :
 
Ma jeunesse ne fut qu’un ténébreux orage,
Traversé çà et là par de brillants soleils ;
Le tonnerre et la pluie ont fait un tel ravage
Qu’il reste en mon jardin bien peu de fruits vermeils.
 
Voilà que j’ai touché l’automne des idées,
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Et qui sait si les fleurs nouvelles que je rêve
Trouveront dans ce sol lavé comme une grève
Le mystique aliment qui ferait leur vigueur ?
 
O douleur ! o douleur ! Le Temps mange la vie,
Et l’obscur Ennemi qui nous ronge le cœur
Du sang que nous perdons croît et se fortifie !
 
(La mia giovinezza non fu altro che una tenebrosa tempesta / attraversata qua e là da soli risplendenti; / il tuono e la pioggia hanno prodotto una tale devastazione / che rimangono, nel mio giardino, ben pochi fiori vermigli. // Ecco, ho ormai raggiunto l’autunno delle idee // … // E chissà se i fiori nuovi che sogno / troveranno, in questo suolo lavato come un greto, / l’alimento mistico da cui attingerebbero forza? // O dolore! O dolore! Il Tempo mangia la vita / e l’oscuro Nemico che ci divora il cuore / col sangue che perdiamo cresce e si fortifica!)
 
[Il divenire vecchi, il costante accumularsi degli effetti devastanti del Tempo, il Nemico, rende sempre più difficilmente raggiungibile quanto resta della grandiosità originaria: il “mistico alimento” della creatività, di tutto ciò che rende realmente viva la nostra esistenza. A quest’immagine di un oggetto primario idealizzato (un Dio) che dà “alimento” alla vitalità dell’essere umano, il Poeta contrappone quella di un rapporto sadico-orale distruttivo, la cui fonte viene individuata (proiettata) sul Tempo, lo “oscuro nemico” che “divora” la vitalità stessa]
 
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11 – Le guignon (La sfortuna) – Pag. 28:
 
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Maint joyau dort enseveli
Dans les ténèbres et l’oubli,
Bien loin des pioches et des sondes ;
 
Mainte fleur épanche à regret
Son parfum doux comme un secret
Dans les solitudes profondes.
 
(… // Parecchi gioielli dormono, sepolti / nelle tenebre e nell’oblio, /lontano da zappe e da sonde; // parecchi fiori effondono a malincuore / il loro profumo, dolce come un segreto / nelle solitudini profonde.)
 
[La “sfortuna” è la mancanza delle condizioni favorevoli che permetterebbero al Poeta d’entrare in contatto con quanto di prezioso esiste nel suo mondo interno. Tutto ciò rimane “seppellito” come tesori mai scoperti o come fiori profumati in zone mai raggiunte da esseri viventi che possano goderne. Le immagini fanno pensare non soltanto a parti del mondo interno, ma anche a quella moltitudine immensa d’esseri umani cui la sorte avversa non ha mai consentito di manifestare il proprio valore]
 
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12 – La vie antérieure – Pag. 30 :
 
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    C’est là que j’ai vécu les voluptés calmes
Au milieu de l’azur, des vagues, des splendeurs
Et des esclaves nus, tout imprégnés d’odeurs,
 
Qui me rafraîchissaient le front avec des palmes,
Et dont l’unique soin était d’approfondir
Le secret douloureux qui me faisait languir.
 
(È là che ho vissuto in calma voluttà, / circondato dall’azzurro, dalle onde, da splendore / e da schiavi nudi che, impregnati di profumi // mi rinfrescavano la fronte agitando palme / e la cui unica cura era approfondire / il segreto doloroso che mi faceva languire.)
 
[La capacità di lenire in sé stessi il carattere spiacevole di un turbamento interiore favorisce l’introspezione (e ne è favorita), potendo questa raggiungere i massimi livelli di profondità. Il ruolo delle “self-soothing functions” è ben descritto, qui, in termini poetici: l’Autore descrive un angolo del suo animo dove un “self-object environment” interiorizzato, evocativo della vita intrauterina (è una “vita anteriore” e si tratta di un ambiente marino), gli consente di approfondire un “segreto doloroso”, un turbamento della cui natura non ha ancora preso piena coscienza]
 
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16 – Châtiment de l’orgueil – Pag. 34 :
 
En ces temps merveilleux où la Théologie
Fleurit avec le plus de sève et d’énergie,
On raconte qu’un jour un docteur des plus grands,
Après avoir forcé les cœurs indifférents ;
Les avoir remués dans leurs profondeurs noires ;
Après avoir franchi vers les célestes gloires
Des chemins singuliers à lui-même inconnus,
Où les purs Esprits seuls peut-être étaient venus,
Comme un homme monté trop haut, pris de panique,
S’écria, transporté d’un orgueil satanique :
« Jésus, petit Jésus ! Je t’ai poussé bien haut !
Mais, si j’avais voulu t’attaquer au défaut
De l’armure, ta honte égalerait ta gloire,
Et tu ne serais plus qu’un fœtus dérisoire »
 
Immédiatement sa raison s’en alla.
L’éclat de ce soleil d’un crêpe se voila ;
Tout le chaos roula dans cette intelligence,
Temple autrefois vivant, plein d’ordre et d’opulence,
Sous le plafond duquel tant de pompe avait lui.
Le silence et la nuit s’installèrent en lui,
Comme dans un caveau dont la clef est perdue.
Dès lors il fut semblable aux bêtes de la rue,
Et, quand il s’en allait sans rien voir, à travers
Les champs, sans distinguer les étés des hivers,
Sale, inutile et laid comme une chose usée,
Il faisait des enfants la joie et la risée.
 
(In quei tempi meravigliosi in cui la Teologia / fiorì con più linfa e vigore / si racconta che un giorno uno dei più grandi dottori / dopo aver forzato i cuori indifferenti, / averli commossi nelle loro nere profondità, / dopo aver attraversato verso le glorie celesti / strani percorsi a lui stesso ignoti / cui erano giunti, forse, i soli spiriti puri, / come un uomo salito troppo in alto, preso dal panico, / gridò trasportato da un orgoglio satanico: / Gesù, piccolo Gesù, io ti ho spinto troppo in alto! / Ma se avessi voluto attaccarti nei punti più deboli, / della corazza, la tua vergogna uguaglierebbe la tua gloria, / e tu non saresti più che un feto risibile!” // Immediatamente perse la ragione, / lo sfavillio di quel sole si coprì di un velo, / il caos s’impadronì di quell’intelligenza, / tempio una volta pieno di vita, d’ordine e di ricchezza, / sotto i cui soffitti aveva scintillato tanta pompa. / Il silenzio e la notte s’installarono in lui, / come in una cantina di cui s’è persa la chiave. / Da allora egli fu simile alle bestie della strada, e quando andava, senza nulla vedere, attraverso / i campi, senza più distinguere le estati dagli inverni, / sudicio, inutile, brutto come una cosa usata, / era motivo di gioia e di scherno dei ragazzi.)
 
[Il “peccato d’orgoglio” del teologo della poesia consiste nell’aver considerato come oggetto del suo giudizio ed aver ricondotto a presunte dimensioni “realistiche” ciò che è al di là della realtà sensibile e delle possibilità ordinarie della conoscenza: d’aver varcato il confine fra la materialità delle cose, conoscibile senza problemi, e ciò che è “sacro” e non può essere violato neppure dalla ragione (“Or tu chi se’ che vuo’ sedere a scranna / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna?” [Paradiso, canto XIX, vv. 79 - 81]). Si tratta di quella realtà interiore che, per il Cristiano credente, è Gesù (Dio Padre e, nello stesso tempo, essere umano e figlio) e che, per la psicologia del profondo, è un vissuto riconducibile all’oggetto arcaico  idealizzato (il genitore ideale interiorizzato) fuso con il sé del soggetto, e di ogni soggetto, in statu nascendi. Questo nucleo centrale della mente, fonte prima del  valore di tutto ciò che caratterizza l’esistenza umana (innanzi tutto, la conoscenza e la razionalità) è dissacrata e ridotta, nell’opinione di questo teologo, a quello che, in epoca remota, fu il suo substrato biologico e materiale: un “piccolo”, insignificante, e “ridicolo feto”. La ragione, a seguito di tale attacco arrogante, distrugge il proprio fondamento emotivo e provoca il suo stesso crollo.]
 
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17 – La beauté – Pag. 36
 
Je suis belle, o mortels ! comme un rêve de pierre
Et mon sein, où chacun s’est meurtri tour à tour
Est fait pour inspirer au poète un amour
Eternel et muet ainsi que la matière.
 
Je trône dans l’azur comme un sphinx incompris ;
J’unis un cœur de neige à la blancheur des cygnes ;
Je hais le mouvement qui déplace les lignes,
Et jamais je ne pleure et jamais je ne ris.
 
Les poètes, devant mes grandes attitudes,
Que j’ai l’air d’emprunter aux plus fiers monuments,
Consumeront leurs jours en d’austères études ;
 
Car j’ai, pour fasciner ces dociles amants,
De purs miroirs qui font toutes choses plus belles :
Mes yeux, mes larges yeux aux clartés éternelles !
 
(Sono bella, o mortali, come un sogno di pietra, / e il mio seno su cui ciascuno, volta a volta, si è straziato, / è fatto per ispirare al poeta un amore / eterno e muto come la materia. // Troneggio nell’azzurro come sfinge incompresa; / unisco un cuore di neve alla bianchezza dei cigni, / odio il movimento che scompone le linee / e mai piango, e mai rido. // I poeti, di fronte ai miei grandi atteggiamenti / in cui ho l’aria di riprodurre i più fieri monumenti, / consumeranno i loro giorni in studi austeri; // poiché, per affascinare quei docili amanti, / ho degli specchi puri che fanno più bella ogni cosa: / i miei occhi, i miei grandi occhi dalla luminosità eterna) 
 
[Vivere un’esperienza è cosa diversa dal parlarne. L’esperienza della bellezza, come e anche più delle altre, è di per sé ineffabile: può essere evocata, ma non comunicata in altro modo a chi non l’ha mai vissuta. Dal  punto di vista della psicologia del profondo, si può ricondurre al recupero nell’immaginazione del ‘paradiso perduto’, ossia dell’esperienza originaria, fusionale, di assoluta beatitudine tra le braccia materne” ed al seno materno (vedi, più sotto, lo “Hymne à la Beauté”); un’esperienza, anteriore alla nascita della capacità di riflettere e capire, in cui, all’orrore di un’angoscia senza nome, seguì il recupero, per il soggetto, di una perfetta armonia con sé stesso e col mondo. È cosa vana parlarne a chi non ne ha mai goduto, o non riesce a risalirvi. Ogni spiegazione priva di evocazione finisce per essere banalizzante e riduttiva: descrive l’esperienza osservandola dall’esterno. Infatti, nel mondo interno di chi la vive o torna a viverla, la capacità di auto-osservazione e riflessione non esistono ancora. È per questo motivo che i poeti, quando tentano di formulare una teoria della bellezza, consumeranno i loro giorni in studi “austeri” (come tali, per nulla “belli”) cercando, invano, di coglierne l’essenza senza esserne esclusi, ossia senza cessare d’essere Poeti. Come di fronte alla Sfinge misteriosa, chiunque cerchi di penetrare, con le sue sole capacità cognitive, in “seno” alla bellezza, finisce “meurtri” (ferito, straziato) ossia sconfitto.]
 
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21 – Hymne à la beauté – Pag. 40 :
 
Viens-tu du ciel profond ou sors-tu de l’abîme
O Beauté ? ton regard, infernal et divin,
Verse confusément le bienfait et le crime,
Et l’on peut pour cela te comparer au vin.
 
Tu contiens dans ton œil le couchant et l’aurore
Tu répands des parfums comme un soir orageux ;
Tes baisers sont un philtre et ta bouche une amphore
Qui font le héros lâche et l’enfant courageux.
 
Sors-tu du gouffre noir ou descends-tu des astres ?
Le Destin charmé suit tes jupons comme un chien ;
Tu sèmes au hasard la joie et les désastres,
Et tu gouvernes tout et ne répons de rien.
 
………………………………………………………..
 
Que tu viennes du ciel ou de l’enfer, qu’importe,
O Beauté ! monstre énorme, effrayant, ingénu !
Si ton œil, ton souris, ton pied, m’ouvrent la porte
D’un Infini que j’aime et n’ai jamais connu ?
 
De Satan ou de Dieu, qu’importe ? Ange ou Sirène,
Qu’importe, si tu rends – fée aux yeux de velours,
Rythme, parfum, lueur, o mon unique reine ! –
L’univers moins hideux et les instants moins lourds ?
 
 
(Vieni tu dal cielo profondo o sorgi dall’abisso, / o Bellezza? Il tuo sguardo, infernale e divino, / diffonde confusamente beneficio e crimine, / e per questo ti si può paragonare al vino. // Contieni nel tuo occhio il tramonto e l’aurora; / diffondi profumi come una sera di tempesta; / i tuoi baci sono un filtro, la tua bocca un’anfora, / che rendono vile l’eroe e coraggioso il fanciullo. // Sorgi dal nero abisso o discendi dagli astri? / il Destino incantato segue le tue sottane come un cane; / tu semini a caso la gioia e i disastri, / governi su tutto e non rispondi di nulla. / […] Che tu venga dal cielo o dall’inferno che importa, / – o Bellezza! Mostro enorme, pauroso, ingenuo! – / se il tuo occhio, il tuo sorriso, il tuo piede mi aprono la porta / di un Infinito che amo e non ho mai conosciuto? // Da Satana o da Dio, che importa? Angelo o Sirena, / che importa se tu – fata dagli occhi di velluto, / ritmo, profumo, luce, o mia unica regina! – / rendi l’universo meno orribile e gli istanti meno grevi?)
 
[Come si diceva più sopra, l’esperienza della bellezza è riconducibile al recupero, in fantasia, del “paradiso perduto”, ossia dell’esperienza originaria, fusionale, di assoluta beatitudine tra le braccia materne. Essa non può essere disgiunta dal vissuto di un’orribile angoscia senza nome, nei momenti di separazione, cui segue, per l’intervento materno, il recupero di una perfetta armonia con sé stessi e col mondo; è un’esperienza di caos e di morte cui si contrappone il trionfo della vita. Essa, quindi, è capace di produrre, al massimo grado, disintegrazione e integrazione del Sé e dell’intero mondo interno. Al massimo grado di disintegrazione, si sprigionano la pulsione distruttiva e quella autodistruttiva. Ecco perché l’attrazione che suscita la Bellezza può essere paragonabile tanto al richiamo mortifero della Sirena quanto alla promessa di redenzione e vita eterna dell’Angelo; tanto all’invito al crimine quanto a quello alla santità. Per tale motivo, ciò che è bello non può essere oggetto di giudizio morale. Quel che è certo è che l’esperienza della Bellezza segna il trionfo della vita, è l’essenza stessa della vita umana.]
 
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23 – La chevelure – Pag. 44
Pag. 46 :
… Je plongerai ma tête amoureuse d’ivresse
Dans ce noir océan ou l’autre est enfermé ; …
 
(Affonderò il mio viso ebbro e innamorato / in questo nero oceano dove l’altro è racchiuso)
 
[Ritorno ad un “tutto” originario, che racchiude anche “l’altro”]
 
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24 – Pag. 46
Je t’adore à l’égal de la voûte nocturne,
O vase de tristesse, o grande taciturne,
Et t’aime d’autant plus, belle, que tu me fuis,
Et que tu me parais, ornement de mes nuits,
Plus ironiquement accumuler les lieux
Qui séparent mes bras des immensités bleues.
 
Je m’avance à l’attaque, et je grimpe aux assauts,
Comme après un cadavre un chœur de vermisseaux,
Et je chéris, o bête implacable et cruelle !
Jusqu’à cette froideur par où tu m’es plus belle !
 
(T’adoro al pari della volta notturna, / o vaso di tristezza, o grande taciturna. / E tanto più t’amo, bella, quanto più mi fuggi, / e mi sembri, ornamento delle mie notti, / ironicamente accumulare gli spazi / che separano le mie braccia dalle immensità azzurre. // Mi porto avanti all’assalto e m’arrampico per assalire, / come un gruppo di vermiciattoli su di un cadavere, / ed amo teneramente, o fiera implacabile e crudele, / persino la freddezza che ti fa più bella!) 
 
[Il rapporto masochistico che il poeta descrive ha il significato di un tentativo disperato di “raggiungere l’irraggiungibile”, d’instaurare un impossibile “rapporto d’oggetto-sé”, ossia una relazione con un prolungamento di sé stesso. L’amata diviene, così, la personificazione di un ideale narcisistico (autistico) di completo isolamento e perfetta autosufficienza; ideale che il Poeta, paradossalmente, condivide pur essendo, per definizione, inaccessibile. Un significato del tutto simile si può trovare nella Madonna di Tarquinia di Filippo Lippi. Qui l’Artista (che fu un trovatello), nei panni di un brutto bambino trascurato dalla mamma (la donna guarda nel vuoto, non lo vede) cerca disperatamente d’attirare la sua attenzione, afferrandola alla gola.]
 
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29 – Une charogne – Pag. 52, 54, 56 :
 
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Les jambes en l’air, comme une femme lubrique
Brulante et suant les poisons
Ouvrait d’une façon nonchalante et cynique
Son ventre plein d’exhalaisons
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Les formes s’effaçaient et n’étaient plus qu’un rêve,
Une ébauche lente à venir,
Sur la toile oubliée, et que l’artiste achève
Seulement par le souvenir
……………………………………….
Oui ! telle vous serez, o la reine des grâces
Après les derniers sacrements,
Quand vous irez, sous l’herbe et les floraisons grasses,
Moisir parmi les ossements
 
Alors, o ma beauté ! dites à la vermine
Qui vous mangera de baisers,
Que j’ai gardé la forme et l’essence divine
De mes amours décomposés!
 
(… Le gambe all’aria, come una donna impudica, / bruciando e sudando i suoi veleni, / spalancava, con noncuranza e cinismo, / il suo ventre pieno d’esalazioni. (…) Le forme si cancellavano e non erano più che un sogno, / un abbozzo lento ad emergere, / sulla tela dimenticata che l’artista porta a termine / basandosi soltanto sul ricordo. (…) Sì, tale tu sarai, o regina delle grazie, / dopo gli estremi sacramenti, / quando, sotto l’erba e le fioriture grasse, / andrai a marcire fra le ossa. // Allora, o mia bella, dillo ai vermi / che ti mangeranno di baci, / che ho conservato la forma e l’essenza divina / di tutti i miei amori decomposti.)
 
[La sfida estrema per l’Artista: l’impresa di vincere l’invincibile, ossia la morte che nulla risparmia, la dissoluzione cui ogni cosa, anche la più bella, è destinata. Non si tratta solo della perdita dell’esistenza, ma anche del decoro, della dignità: “le gambe all’aria, come una donna oscena”. I riferimenti all’Arte (il pittore) ed al ripristino della perfezione originaria (l’essenza divina) sono molto chiari]
 
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30 – De profundis clamavi – Pag. 56 :
 
J’implore ta pitié, Toi, l’unique que j’aime
Du fond du gouffre obscur où mon cœur est tombé
C’est un univers morne, à l’horizon plombé
Ou nagent dans la nuit l’horreur et le blasphème
 
Un soleil sans chaleur plane au-dessus six mois,
Et les six autres mois la nuit couvre la terre ;
C’est un pays plus nu que la terre polaire
Ni bêtes, ni ruisseaux, ni verdure, ni bois
 
…………………………………………….
Je jalouse le sort des plus vils animaux
Qui peuvent se plonger dans un sommeil stupide
Tant l’écheveau du temps lentement se dévide !
 
(Imploro pietà da te, l’unica che io ami, / dal fondo dell’oscuro abisso in cui è caduto il mio cuore. / È un tetro universo dall’orizzonte plumbeo, / in cui, la notte, aleggiano l’orrore e la bestemmia. // Un sole senza calore si libra sopra per sei mesi, / e gli altri sei mesi la notte copre la terra; / è un paese più spoglio della terra polare; / né bestie, né ruscelli, né verde di boschi! // (…) / Invidio la sorte dei più vili animali, / che possono immergersi in uno stupido sonno, / tanto lentamente si dipana la matassa del tempo!)
 
[Perdita di affetto e di sostegno empatico, che si traducono simbolicamente in freddo, assenza di luce, di vita, in “orrore e bestemmia” (perdita dell’oggetto idealizzato). Gli ultimi versi richiamano le parole rivolte da Achille ad Odisseo nell’Ade: meglio vivere come il più umile degli umili, nella calma per cui il tempo sembra scorrere uniforme e placido, piuttosto che nell’angoscia e nel freddo della mancanza d’amore.]
 
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31 – Le vampire – Pag. 58 :
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Infâme à qui je suis lié
Comme le forçat à la chaine,
 
Comme au jeu le joueur têtu
Comme à la bouteille l’ivrogne
Comme aux vermines la charogne,
Maudite, maudite sois-tu !
 
J’ai prié le glaive rapide
De conquérir ma liberté,
Et j’ai dit au poison perfide
De secourir ma lâcheté.
 
Hélas ! le poison et le glaive
M’ont pris en dédain et m’ont dit :
« Tu n’es pas digne qu’on t’enlève
A ton esclavage maudit,
 
Imbécile ! de son empire
Si nos efforts te délivraient,
Tes baisers resusciteraient
Le cadavre de ton vampire ! »
 
(… Infame a cui sono legato / come il forzato alla catena, // come al gioco il giocatore incallito, /come l’ubriaco alla bottiglia, / come il verme alla carogna, / maledetta, sia tu maledetta! // Ho pregato la spada veloce / di farmi riconquistare la libertà, / ho detto al perfido veleno / di venire in soccorso della mia vigliaccheria. // Ahimè! Il veleno e la spada / m’hanno detto con disprezzo: / “Tu non sei degno di venir sottratto / alla tua maledetta schiavitù. / Imbecille! Se i nostri sforzi / ti liberassero dal suo dominio, / i tuoi baci risusciterebbero / il cadavere del tuo vampiro!”)
 
[Chiara descrizione di un rapporto di dipendenza patologica (“addiction”), fra le cui varianti viene acutamente colto il nesso. Viene anche colto il perché non sia possibile un serio sforzo d’emancipazione: il sé è vissuto come “indegno”, non gli si attribuisce valore e quindi non è meritevole d’essere liberato. C’è, qui, un circolo vizioso tipico di queste situazioni: la dipendenza è motivo di auto-svalutazione e l’auto-svalutazione è motivo del sentirsi “indegno” d’emanciparsi (il Marmeladov di “Delitto e castigo”)]
 
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36 – Le balcon – Pag. 64 :
 
Mère des souvenirs, maîtresse des maîtresses
O toi, tous mes plaisirs ! o toi, tous mes devoirs !
Tu te rappelleras la beauté des caresses,
La douceur du foyer et le charme des soirs,
Mère des souvenirs, maîtresse des maîtresses !
 
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Que ton sein m’était doux ! que ton cœur m’était bon !
Nous avons dit souvent d’impérissables choses
Les soirs illuminés par l’ardeur du charbon.
 
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Je sais l’art d’évoquer les minutes heureuses,
Et revis mon passé blotti dans tes genoux.
Car à quoi bon chercher tes beautés langoureuses
Ailleurs qu’en ton cher corps et qu’en ton cœur si doux ?
Je sais l’art d’évoquer les minutes heureuses !
 
Ces serments, ces parfums, ces baisers infinis,
Renaîtront-ils d’un gouffre interdit à nos sondes,
Comme montent au ciel les soleils rajeunis
Après s’être lavés au fond des mers profondes ?
O serments, o parfums, o baisers infinis !
 
(O madre dei ricordi, amante [padrona] delle amanti, / o tu che sei tutti i miei piaceri, i miei doveri! / Ricorderai la bellezza delle carezze, / la dolcezza del focolare, l’incanto delle sere, / madre dei ricordi, amante [padrona] delle amanti! // (…) Com’era dolce il tuo seno! Com’era buono il tuo cuore! / Abbiamo spesso pronunciato parole imperiture, / le sere illuminate dall’ardore del carbone. // (…) // Conosco l’arte d’evocare i momenti felici / e rividi il mio passato rannicchiato fra i tuoi ginocchi. / Perché mai cercare le tue languide bellezze / al di fuori del tuo caro corpo e del tuo cuore tanto dolce! / Conosco l’arte d’evocare i momenti felici. // Questi giuramenti, questi profumi, questi baci senza fine, / rinasceranno da un abisso interdetto alle nostre sonde / così come risalgono nel cielo i soli ringiovaniti / dopo essersi lavati nel profondo dei mari? / O giuramenti, o profumi, o baci senza fine!)
 
[Viaggio in fondo allo “abisso interdetto alle sonde” dei comuni mortali. Il Poeta vi si ritrova nei momenti migliori, magici, tra le braccia del più antico oggetto d’amore: amante (padrona) di tutte le amanti o padrone, fonte di “ogni piacere e dovere”, madre di tutto e tutto essa stessa. Fonte, soprattutto, del massimo grado di valore attribuibile ad ogni cosa: le parole pronunciate con lei e da lei rappresentano cose “imperiture”. L’esperienza di calore e dolcezza è d’intensità tale che il Poeta, come può aver fatto allora, torna a chiedersi perchè mai deve cercare altrove, al di fuori del corpo e dell’affetto materni, qualcosa di simile bellezza]
 
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40 – Semper eadem – Pag. 72 :
 
« D’où vient, disiez vous, cette tristesse étrange,
Montant comme la mer sur le roc noir et nu ? »
Quand notre cœur a fait une fois sa vendange,
Vivre est un mal ! C’est un secret de tous connu
 
Une douleur très simple et non mystérieuse,
Et, comme votre joie, éclatante pour tous.
Cessez donc de chercher, o belle curieuse !
Et, bien que votre voix soit douce, taisez-vous !
 
Taisez vous, ignorante ! âme toujours ravie !
Bouche au rire enfantin ! Plus encore que la Vie
La Mort nous tient souvent par des liens subtils.
 
Laissez, laissez mon cœur s’enivrer d’un mensonge,
Plonger dans vos beaux yeux comme dans un beau songe,
Et sommeiller longtemps à l’ombre de vos cils !
 
(“Da dove viene” dicevi “questa strana tristezza / che sale come il mare sulla roccia nera e nuda?” / Quando il nostro cuore ha fatto la sua vendemmia, / vivere è un male! È un segreto noto a tutti, // un dolore molto semplice, tutt’altro che misterioso / e, come la tua gioia, evidente per tutti. / Cessa, dunque, d’indagare, mia bella curiosa! / E se pure la tua voce è dolce, taci! // Taci, ignorante, anima perennemente in estasi, / bocca dal riso infantile! Più ancora che la Vita / è la Morte che spesso ci tiene coi suoi legami sottili. // Lascia, lascia il mio cuore inebriarsi d’una menzogna, / sprofondare nei tuoi begli occhi come in un bel sogno, / e sonnecchiare a lungo all’ombra dei tuoi cigli.) 
 
[Le illusioni, i sogni che vediamo riflessi in tutto ciò per cui si vive (la persona che amiamo, gli ideali, l’Arte, le idee che riflettono la Verità) e che c’ispirano un sentimento di perfezione, proprio nel momento in cui ci hanno guidato alle nostre massime realizzazioni (la “vendemmia” della vita) iniziano ad offuscarsi, a sgretolarsi sotto i colpi delle disillusioni della realtà. Si scopre che, una volta esaurita la propria funzione, sopravvivere è ritenuto da tutti inutile, e diventa un male. Si scopre che le nostre realizzazioni stesse non sono come le si immaginava quando si cercava di conseguirle. Dice il protagonista Tom ne “I Buddenbrook: “…quando il bene che si è desiderato giunge, lento e tardivo, è accompagnato da piccinerie, contrarietà, fastidi, carico di tutta la polvere della realtà, che la fantasia non aveva previsto, e che irrita, urta…” (pag. 392). Inizia il declino e, a quel punto la “Morte” (la cruda realtà, tutto ciò che è negazione del sogno e lo distrugge ma che, nel contempo, segna la fine sia delle illusioni, sia delle disillusioni) prende sempre più il sopravvento sulla Vita. Tuttavia l’attrazione del sogno è irresistibile, soprattutto per l’animo del Poeta, ed egli, pur di non rinunciarvi, preferisce rifugiarsi nell’ebbrezza di una seducente menzogna: qualcosa che gli evoca quell’antico abbraccio materno che per primo, mentendogli in modo incantevole, lo conciliò con la Vita.]  
 
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41 – Tout entière – Pag. 72, 74 :
 
Le Démon dans ma chambre haute,
Ce matin est venu me voir,
Et, tâchant à me prendre en faute,
Me dit : « Je voudrais bien savoir,
 
Parmi toutes les belles choses
Dont est fait son enchantement,
Parmi les objets noirs ou roses
Qui composent son corps charmant,
 
Quel est le plus doux » - O mon âme !
Tu répondis à l’Abhorré :
« Puisqu’en Elle tout est dictame,
Rien ne peut être préféré.
 
Lorsque tout me ravit, j’ignore
Si quelque chose me séduit,
Elle éblouit comme l’Aurore
Et console comme la Nuit :
 
Et l’harmonie est trop exquise,
Qui gouverne son beau corps
Pour que l’impuissante analyse
En note les nombreux accords.
 
O métamorphose mystique
De tous mes sens fondus en un !
Son haleine fait la musique,
Comme sa voix fait le parfum ! »
 
(Nella mia camera, in alto, / stamattina il Demonio è venuto a vedermi, / e cercando di cogliermi in fallo, mi ha detto: “Vorrei sapere // fra tutte le belle cose / di cui è fatto il suo incanto, / fra gli oggetti neri e rosa / di cui è composto il suo corpo affascinante, // qual è il più dolce” – O anima mia! / Tu rispondesti all’Aborrito: / “Poiché in lei tutto è balsamo / nulla può essere preferito. // Quando tutto mi rapisce, ignoro / se mi seduce qualcosa. / Ella abbaglia come l’Aurora / e consola come la Notte; // ed è troppo deliziosa l’armonia / che governa tutto il suo bel corpo / perché l’analisi impotente / ne annoti i numerosi accordi. // O metamorfosi mistica / di tutti i miei sensi fusi in uno! / Il suo fiato è musica, / come la sua voce il suo profumo!”)
 
[Il “Demonio”, rappresentazione simbolica della vita pulsionale rimossa, propone al Poeta quel modo di percepire e sentire perverso che comporta la considerazione esclusiva, quale oggetto di desiderio, di una parte del corpo della persona amata (ciò che, in psichiatria è noto come “parzialismo”). Tentazione, questa, vissuta come demoniaca perché lo porterebbe a perdere la percezione globale della sua donna, con il fascino che essa suscita solo se considerata “tutta intera” (anima e corpo), e a degradarla a puro oggetto (parziale) di sensualità. Notevole quel che il Poeta dice riguardo all’impotenza di un’analisi che cerchi d’individuare e classificare i “numerosi accordi” che compongono la “armonia” della persona. Essa può essere colta solo con un singolo atto di percezione, come la “gestalt” di un viso, che non è la semplice somma delle sue parti; come solo il passaggio alla “posizione depressiva” (esperienza di due esseri interi separati) può permettere di percepire. Il passaggio dall’oggetto parziale a quello intero è descritto come “metamorfosi mistica” in quanto implica l’investimento narcisistico idealizzante (“divinizzante”) sull’oggetto intero e separato. Finora gli oggetti parziali potevano essere percepiti come parti di sé ed inclusi nell’area del narcisismo primario (ad esempio, unità bocca-seno: lo “oggetto più dolce”); ora l’investimento narcisistico, congiuntamente a quello oggettuale (Kohut), creano l’oggetto intero separato e idealizzato, che va difeso dal “Demonio”, ossia dalle istanze regressive dominate dalla pulsione di morte.
 
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44 – Réversibilité – Pag. 76, 78 :
 
Ange plein de gaieté, connaissez-vous l’angoisse,
La honte, les remords, les sanglots, les ennuis,
Et les vagues terreurs de ces affreuses nuits
Qui compriment le cœur comme un papier qu’on froisse ?
Ange plein de gaieté, connaissez-vous l’angoisse ?
 
Ange plein de bonté, connaissez-vous la haine,
Les poings crispés dans l’ombre et les larmes de fiel,
Quand la Vengeance bat son infernal rappel,
Et de nos facultés se fait le capitaine ?
Ange plein de bonté, connaissez-vous la haine ?
 
Ange plein de santé, connaissez-vous les Fièvres,
Qui, le long des grands murs de l’hospice blafard,
Comme des exilés, s’en vont d’un pied traînard,
Cherchant le soleil rare et remuant les lèvres ?
Ange plein de santé, connaissez-vous les Fièvres ?
 
Ange plein de beauté, connaissez-vous les rides,
Et la peur de vieillir, et ce hideux tourment
De lire la secrète horreur du dévouement
Dans des yeux où longtemps burent nos yeux avides ?
Ange plein de beauté, connaissez-vous les rides ?
 
Ange plein de bonheur, de joie et de lumières,
David mourant aurait demandé la santé
Aux émanations de ton corps enchanté ;
Mais de toi je n’implore, ange, que tes prières,
Ange plein de bonheur, de joie et de lumières !
 
(Angelo pieno di gaiezza, conosci tu l’angoscia, / la vergogna, i rimorsi, i singhiozzi, i fastidi, / e i vaghi terrori di quelle orribili notti / che comprimono il cuore come una carta che si accartoccia? / Angelo pieno di gaiezza, conosci tu l’angoscia? // Angelo pieno di bontà, conosci tu l’odio, / i pugni stretti nell’ombra e le lacrime di fiele, / quando la Vendetta suona il suo infernale richiamo, / e si fa padrona delle nostre facoltà? / Angelo pieno di bontà, conosci tu l’odio? // Angelo pieno di salute, conosci tu le Febbri, / che lungo i grandi muri dell’ospizio smorto, / come degli esiliati, vanno con piede strascicato, / cercando il sole raro e muovendo le labbra? / Angelo pieno di salute, conosci tu le Febbri? // Angelo pieno di bellezza, conosci tu le rughe, / e la paura d’invecchiare, e il tormento spaventoso / di leggere l’orrore segreto della devozione / negli occhi dove a lungo bevvero i nostri avidi occhi? / Angelo pieno di bellezza, conosci tu le rughe? // Angelo pieno di felicità, di gioia e di luce, / pare che Davide morente abbia chiesto la salute / a quel che emanava dal tuo corpo incantato; / ma da te, angelo, non imploro che preghiere, / Angelo pieno di felicità, di gioia e di luce!)
 
[Agli Angeli (oggetti interni idealizzati, immagini materne) il Poeta chiede di essere presenti anche quando vive o immagina tutte le possibili miserie umane. Ma affinché possano portare conforto, essi non dovrebbero essere estranei a ciò che contrasta la loro immagine di perfezione. Lo possono fare solo attraverso la preghiera, ossia  rinunciando alla perfezione stessa (che viene attribuita soltanto a Dio), ed immedesimandosi empaticamente con l’infelice, il malvagio, il malato, il vecchio cadente: con coloro per cui chiedono pietà. È qui menzionata la vicenda del re David che, vecchio e morente, trova conforto nella vicinanza di una giovane. Lo cita Dostoevskij (“L’adolescente”, pag. 315) per bocca del principe: «…c’est David qui mettait une jeune belle dans son lit pur se chauffer dans la vieillesse»: Era Davide che metteva una bella giovane nel suo letto per scaldare la sua vecchiaia.]
 
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45 – Confession – Pag. 78, 80 :
 
Une fois, une seule, aimable et douce femme,
A mon bras votre bras poli
S’appuya (sur le fond ténébreux de mon âme
Ce souvenir n’est point pâli) ;
 
………………………………………………….
 
Tout à coup, au milieu de l’intimité libre
Éclose à la pâle clarté,
De vous, riche et sonore instrument où ne vibre
Que la radieuse gaité,
 
De vous, claire et joyeuse ainsi qu’une fanfare
Dans le matin étincelant,
Une note plaintive, une note bizarre
S’échappa, tout en chancelant
 
Comme une enfant chétive, horrible, sombre, immonde,
Dont sa famille rougirait,
Et qu’elle aurait longtemps, pour la cacher au monde,
Dans un caveau mise au secret.
 
Pauvre ange, elle chantait, votre note criarde :
« Que rien ici-bas n’est certain,
Et que toujours, avec quelque soin qu’il se farde,
Se trahit l’égoïsme humain ;
 
Que c’est un dur métier que d’être belle femme,
Et que c’est le travail banal
De la danseuse folle et froide qui se pâme
Dans un sourire machinal ;
 
Que bâtir sur les cœurs est une chose sotte ;
Que tout craque, amour et beauté,
Jusqu’à ce que l’Oubli les jette dans sa hotte
Pour les rendre à l’Eternité !
…………………………………………………..
 
(Una volta, una sola, dolce e amabile donna, / al mio braccio il tuo braccio levigato / s’appoggiò (sul fondo tenebroso del mio animo / questo ricordo non è impallidito); // […] D’un tratto, nel pieno della libera intimità / sbocciata al pallido chiarore, / da te, ricco e sonoro strumento in cui non vibra / che radiosa gaiezza, // da te, chiara e allegra come una fanfara / nel mattino scintillante, / una nota lamentosa, una nota bizzarra / sfuggì vacillando // come una bimba gracile, orribile, cupa, immonda, / di cui la sua famiglia arrossirebbe, / e che, per nasconderla al mondo, per lungo tempo / avrebbe segregato in una cantina. // Povero angelo, così diceva la tua nota stridula: / “Non c’è proprio, quaggiù, nulla di certo, / e per quanto con cura s’imbelletti, / sempre si tradisce l’egoismo umano. // Quanto è duro essere una bella donna, / quanto banale la fatica / della danzatrice fredda e folle che si pavoneggia / in un sorriso stereotipato! / Costruire sui cuori è una cosa sciocca: / tutto scricchiola, amore e bellezza, / fino a che l’Oblio li butti nella sua gerla / per renderli all’eternità / …)
 
[Un semplice gesto di confidenza dell’amica, l’appoggiare il proprio braccio a quello del Poeta, produce in questi una forte emozione: si tratta di una donna veramente affascinante. Tuttavia. da un singolo dettaglio “musicale” (una nota “stridula” avvertita in una voce di solito armoniosa), Baudelaire coglie un aspetto essenziale del mondo interno di questa seduttrice: un realismo disincantato (consapevolezza dell’egoistica cupidigia, travestita da galanteria, dei corteggiatori, della precarietà del fascino femminile) convive con la dolorosa sensazione (che la realtà non riesce a smentire) di continuare ad essere, nel fondo del proprio animo, una bambina “gracile, orribile, cupa, immonda”, non amata dai genitori. Una bambina che, così come un tempo era stata “nascosta al mondo” dai familiari, continua ad essere celata, da lei stessa, dietro la maschera della donna affascinante.]  
 
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46 – L’aube spirituelle – Pag. 82 :
 
Quand chez les débauchés l’aube blanche et vermeille
Entre en société de l’Idéal rongeur
Par l’opération d’un mystère vengeur
Dans la brute assoupie un ange se réveille.
 
Des Cieux Spirituels l’inaccessible azur,
Pour l’homme terrassé qui rêve encore et souffre,
S’ouvre et s’enfonce avec l’attirance d’un gouffre.
Ainsi, chère Déesse, Être lucide et pur,
 
Sur les débris fumeux des stupides orgies
Ton souvenir plus clair, plus rose, plus charmant,
A mes yeux agrandis voltige incessamment.
 
Le soleil a noirci la flamme des bougies ;
Ainsi, toujours vainqueur, ton fantôme est pareil,
Ame resplendissante, à l’immortel soleil !
 
(Quando per i dissoluti l’alba bianca e vermiglia / si associa all’Ideale che rode, / per opera di un mistero vendicatore, / nel bruto assopito si risveglia un angelo. // Dai Cieli Spirituali l’azzurro irraggiungibile, / per l’uomo abbattuto che ancora sogna e soffre, / s’apre e sprofonda con l’attrattiva dell’abisso. / Così, amata Dea, Essere luminoso e puro, // sulle macerie fumanti di stupide orge, / il più chiaro, roseo, incantevole ricordo di te / volteggia incessantemente davanti ai miei occhi dilatati. // Il sole ha oscurato la fiamma delle candele; / così, sempre vittorioso, il tuo fantasma è simile, / anima risplendente, al sole immortale!)
  
 [Stato d’animo del “bruto” nel quale sopravvive ancora un “angelo”, ossia un residuo di un paradiso perduto, di una dimensione “spirituale”, idealizzata di sé e dell’oggetto d’amore. Si tratta di un ideale superstite “che rode”, che rende l’uomo capace ancora di sognare, ma che fa soffrire. E questo perché il resto della sua vita emotiva, a seguito di un processo di degradazione e disintegrazione, si è abbrutito nell’appagamento pulsionale e nello “assopimento” che esso produce]
 
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49 – Le poison – Pag. 86:
 
Le vin sait revêtir le plus sordide bouge
D’un luxe miraculeux,
Et fait surgir plus d’un portique fabuleux
Dans l’or de sa vapeur rouge,
Comme un soleil couchant dans un ciel nébuleux.
 
L’opium agrandit ce qui n’a pas de bornes,
Allonge l’illimité,
Approfondit le temps, creuse la volupté,
Et de plaisirs noirs et mornes
Remplit l’âme au delà de sa capacité.
 
Tous cela ne vaut pas le poison qui découle
De tes yeux, de tes yeux verts,
Lacs où mon âme tremble et se voit à l’envers…
Mes songes viennent en foule
Pour se désaltérer à ces gouffres amers.
 
Tout cela ne vaut pas le terrible prodige
De ta salive qui mord,
Qui plonge dans l’oubli mon âme sans remord,
Et, charriant le vertige,
La roule défaillante aux rives de la mort !
 
(Il vino sa rivestire il più sordido tugurio / di un lusso miracoloso, / e fa sorgere più di un portico favoloso / nell’oro del suo rosso vapore, / come un sole al tramonto in un cielo annuvolato. // L’oppio ingrandisce ciò che già non ha limite, / dilata l’illimitato, / approfondisce il tempo, scava nella voluttà, / e di piaceri neri e cupi / riempie l’anima al di là della sua capacità. // Tutto ciò non vale il veleno che scaturisce / dai tuoi occhi, dai tuoi occhi verdi, / laghi in cui la mia anima trema e si vede rovesciata… / I miei sogni accorrono in folla / per dissetarsi in quegli abissi amari. // Tutto questo non vale il terribile prodigio / della tua saliva che morde, / che sprofonda la mia anima nell’oblio, senza rimorso, / e trasportando la vertigine, / la rotola, priva di forze, fino alle rive della morte!)
 
 
[Con l’oggetto d’addiction, il soggetto si fonde in una sorta di simbiosi anomala: ne viene captato, fagocitato, annientato. Il vino sa offrire uno spettacolo di magnificenza (trasformando un sordido tugurio in uno splendido palazzo, o in un meraviglioso panorama) come dono già pronto, che non richiede, dal soggetto, alcuno sforzo creativo. Analogamente, l’oppio offre l’appagamento dell’aspirazione all’infinito, all’illimitato, attraverso un’esperienza che non richiede alcun lavoro dell’immaginazione, e che travalica gli stessi limiti di questa facoltà. Tuttavia il Poeta, in quanto tale, non può fermarsi alla descrizione delle sensazioni offerte dalle sostanze psicotrope: sente il bisogno di utilizzare le sue capacità introspettive e creative per soddisfare la nostalgia di un antico rapporto tuttora desiderato, benché perverso. Partendo dal vino e dall’oppio, infatti, il Poeta risale all’originario oggetto di dipendenza patologica (di cui l’amata è il sostituto attuale); in esso l’anima (la vita soggettiva individuale) sprofonda in un oblio “senza rimorso”, ossia distrugge il divieto paterno e, con esso, l’ultimo baluardo difensivo contro una fusione incestuosa annientante e mortifera]
 
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51 – Le chat – I – Pag. 88 :
 
Dans ma cervelle se promène,
Ainsi qu’en son appartement,
Un beau chat, fort, doux et charmant.
Quand il miaule, on l’entend à peine,
 
Tant son timbre est tendre et discret ;
Mais que sa voix s’apaise ou gronde,
Elle est toujours riche et profonde.
C’est là son charme et son secret.
 
Cette voix, qui perle et qui filtre
Dans mon fond le plus ténébreux,
Me remplit comme un vers nombreux
Et me réjouit comme un philtre.
 
Elle endort les plus cruels maux
Et contient toutes les extases ;
Pour dire les plus longues phrases,
Elle n’a pas besoin de mots.
 
Non, il n’est pas d’archet qui morde
Sur mon cœur, parfait instrument,
Et fasse plus royalement
Chanter sa plus vibrante corde,
 
Que ta voix, chat mystérieux,
Chat séraphique, chat étrange
En qui tout est, comme en un ange,
Aussi subtil qu’harmonieux !
 
(Nel mio cervello passeggia, / come fosse nel suo personale appartamento, / un bel gatto, forte, dolce e affascinante. / Quando miagola, lo si sente appena, // tanto il suo timbro è tenero e discreto; / ma sia che la sua voce s’acquieti, sia che s’incupisca, / essa è sempre ricca e profonda. / È in questo il suo incanto e il suo segreto. // Questa voce, che stilla e s’insinua / nel mio intimo più tenebroso / mi riempie come un verso armonioso /e mi rallegra come un filtro. // Essa assopisce i mali più crudeli / ed ha in sé tutte le estasi; / per dire le più lunghe frasi / non ha bisogno di parole. // No, non c’è archetto che morda / sul mio cuore, strumento perfetto, / e faccia più regalmente / cantare la sua corda più vibrante, / della tua voce, gatto misterioso, / gatto serafico, gatto strano, / in cui tutto è, come in un angelo, / tanto sottile quanto armonioso!)
 
[Il “gatto interiore” del Poeta è la rappresentazione di quanto persiste, nel suo mondo interno, del “narcisismo primario” (il futuro Sé grandioso ancora fuso con l’oggetto arcaico idealizzato): il “motore immoto” di ogni forma di vitalità e creatività. Si tratta della configurazione narcisistica più primitiva, coincidente con l’originario modo d’essere e di rapportarsi col mondo: musicale (pre-verbale) nelle sue espressioni e “animalesco”; ma si tratta di un’animalità nobile, “regale” e “serafica”, ossia imperturbabile in quanto, come i Serafini, legata in modo inscindibile ad un ardente e costante rapporto d’amore con Dio, ossia con l’oggetto arcaico idealizzato.]
 
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54 – L’irréparable – Pag. 96, 98, 100
 
Pouvons-nous étouffer le vieux, le long Remords,
Qui vit, s’agite et se tortille,
Et se nourrit de nous comme le ver des morts,
Comme du chêne la chenille ?
Pouvons-nous étouffer l’implacable Remords ?
 
…………………………………………………..
 
L’Espérance qui brille aux carreaux de l’Auberge
Est soufflée, est morte à jamais !
Sans lune et sans rayons, trouver où l’on héberge
Les martyrs d’un chemin mauvais !
Le Diable a tout éteint aux carreaux de l’auberge !
 
Adorable sorcière, aimes-tu les damnés ?
Dis, connais-tu l’irrémissible ?
Connais-tu le Remords, aux traits empoisonnés,
A qui notre cœur sert de cible ?
Adorable sorcière, aimes-tu les damnés ?
 
L’Irréparable ronge avec sa dent maudite
Notre âme, piteux monument
Et souvent il attaque, ainsi que le termite
Par la base le bâtiment.
L’Irréparable ronge avec sa dent maudite ! 
 
J’ai vu parfois, au fond d’un théâtre banal
Qu’enflammait l’orchestre sonore,
Une fée allumer dans un ciel infernal
Une miraculeuse aurore ;
J’ai vu parfois, au fond d’un théâtre banal
 
Un être, qui n’était que lumière, or et gaze,
Terrasser l’énorme Satan ;
Mais mon cœur, que jamais ne visite l’extase,
Est un théâtre où l’on attend
Toujours, toujours en vain, l’Etre aux ailes de gaze ! 
 
(Possiamo soffocare il vecchio, il lungo Rimorso, / che vive, s’agita e si contorce, / e si nutre di noi come il verme dei morti, / come il bruco della quercia? / Possiamo soffocare l’implacabile Rimorso? //…// La Speranza che brilla alle vetrate dell’Albergo / è spazzata via, morta per sempre! / Senza luna e senza raggi, trovare dove si dia asilo / ai martiri di una strada sbagliata! / Il Diavolo ha spento tutto alle vetrate dell’Albergo! // Adorabile strega, ami tu i dannati? / Dimmi, conosci tu l’irremissibile? / Conosci tu il Rimorso dalle frecce avvelenate / cui il nostro cuore serve da bersaglio? / Adorabile strega, ami tu i dannati? // L’irreparabile rode col suo dente maledetto / la nostra anima: un penoso monumento, / e sovente ne attacca, come fa la termite, / l’edificio alla sua base. / L’irreparabile rode col suo dente maledetto! // Ho visto talvolta, in fondo ad un teatro da quattro soldi / che l’orchestra sonora infiammava, / una fata accendere in un cielo infernale / un’aurora miracolosa; / ho visto talvolta, in fondo ad un teatro da quattro soldi // un essere fatto di luce, oro e velo / abbattere l’enorme Satana; / ma il mio cuore, mai visitato dall’estasi, / è un teatro in cui s’attende sempre / invano, sempre invano, l’Essere dalle ali di velo!)
 
[È qui descritto il doloroso sentimento della disintegrazione del Sé: la “anima”, ridotta dal rimorso a “penoso monumento”, ossia qualcosa che, pur portando le tracce di una passata grandezza, è tuttavia morta. Gli attacchi ad un oggetto arcaico capace di sostenere ed accogliere (lo “Albergo”) hanno prodotto la sua scomparsa nel mondo interno e la sua sostituzione con un’istanza auto-punitiva a carattere arcaico, che non concede alcuna possibilità riparativa (“l’Irreparabile rode, col suo dente maledetto, la nostra anima”: la ritorsione, da parte dell’oggetto interno, degli attacchi sadico-orali a lui rivolti), né alcuna speranza (è “spazzata via, morta per sempre”); tutto ciò si riflette, naturalmente, sulla capacità di auto-contenimento ed auto-valorizzazione. Si riflette, inoltre, sulla capacità di (tornare a) fondersi con la grandiosità di un oggetto idealizzato (la “estasi”) capace di vincere Satana, ossia la pulsionalità incontrollata e distruttiva. Ancora una volta, il Poeta ci offre l’esempio di come “riparare l’irreparabile”; o meglio, più che riparare, rendere fruibile questa stessa esperienza come fonte di arricchimento interiore, tramite la sua traduzione in parole e tramite la Poesia.]
 
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55 – Causerie (conversazione) – Pag. 100 :
 
Vous êtes un beau ciel d’automne, clair et rose !
Mais la tristesse en moi monte comme la mer,
Et laisse, en refluant, sur ma lèvre morose
Le souvenir cuisant de son limon amer.
 
Ta main se glisse en vain sur mon sein qui se pâme ;
Ce qu’elle cherche, amie, est un lieu saccagé
Par la griffe et la dent féroce de la femme.
Ne cherchez plus mon cœur ; les bêtes l’ont mangé.
 
Mon cœur est un palais flétri par la cohue ;
On s’y soule, on s’y tue, on s’y prend aux cheveux !
Un parfum nage autour de votre gorge nue !
 
O Beauté, dur fléau des âmes, tu le veux !
Avec tes yeux de feu, brillants comme des fêtes,
Calcine ces lambeaux qu’ont épargnés les bêtes !
 
(Tu sei un bel cielo d’autunno, chiaro e rosa! / Ma la tristezza monta in me come il mare / e lascia, rifluendo, sul mio labbro corrucciato, / il ricordo cocente del suo fango amaro. // La tua mano scivola invano sul mio petto come paralizzato; / Ciò che cerca, amica, è un luogo devastato / dall’artiglio e dal dente feroce della donna. / Non cercare più il mio cuore, le belve l’han mangiato. // Il mio cuore è un palazzo devastato dalla baraonda / ci si ubriaca, ci si ammazza, ci si prende per i capelli! / Un profumo aleggia intorno al tuo petto nudo!... // O Bellezza, duro flagello delle anime, tu lo vuoi! / coi tuoi occhi di fuoco, brillanti come feste, / brucia i brandelli che le belve han risparmiato!)
 
[Il Poeta vive il proprio mondo interno come infestato da ogni forma di corruzione, quale effetto di rapporti invadenti e devastanti. Viene, al contrario, conservata pura l’immagine dell’amata. Essa, tuttavia, è distante; ed il contrasto, dolorosamente avvertito, fra tale pura Bellezza e lui stesso fa sì che il Poeta desideri annullarsi in lei, sopprimendo quanto, nel suo mondo interno, è sopravvissuto alla devastazione. C’è da aggiungere che la poesia di per sé, per essere stata scritta, testimonia che in realtà qualcosa di prezioso, e appartenente solo a lui, è rimasto nell’animo del Poeta: le sue capacità creative.]
 
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56 – Chant d’automne (II) – Pag. 102:
 
J’aime de vos longs yeux la lumière verdâtre,
Douce beauté, mais tout aujourd’hui m’est amer,
Et rien, ni votre amour, ni le boudoir, ni l’âtre,
Ne me vaut le soleil rayonnant sur la mer.
 
Et pourtant aimez-moi, tendre cœur ! soyez mère,
Même pour un ingrat, même pour un méchant ;
Amante ou sœur, soyez la douceur éphémère
D’un glorieux automne ou d’un soleil couchant.
 
Courte tâche ! La tombe attend ; elle est avide !
Ah ! laissez-moi, mon front posé sur vos genoux,
Goûter, en regrettant l’été blanc et torride,
De l’arrière-saison le rayon jaune et doux !
 
(Amo la luce verdastra dei tuoi grandi occhi, / dolce bellezza, ma tutto oggi mi è amaro, / e nulla, né il tuo amore, né il tuo boudoir, né il caminetto, / valgono quanto il sole splendente sul mare. // Ma, tuttavia, amami, tenero cuore, siimi madre / anche se sono un ingrato, anche se sono un malvagio; / amante o sorella, che tu sia per me la dolcezza effimera / d’un autunno glorioso o d’un sole declinante. // Breve compito! La tomba attende, avida! / Ah! Lascia che, la fronte posata sulle tue ginocchia, / io gusti, rimpiangendo l’estate bianca e torrida, / il raggio giallo e dolce della tarda stagione!)     
 
[Nell’autunno della vita l’amore per una donna del presente – un rapporto fatto d’intimità, sensualità e tenerezza (il boudoir, il caminetto) – cessa di sostenere un precario equilibrio fondato sulla negazione delle antiche colpe. Esse, in vecchiaia, ritornano e richiedono di essere alleviate da un affetto materno che, rivolto all’intero soggetto, non ne ignori né escluda alcun aspetto. Ciò consente d’integrare nella vita interiore quanto, nel soggetto, è più sgradevole (l’ingratitudine, la malvagità), ossia di sentirsi tutt’uno, senza eccessivi tormenti.]
 
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57 – A une Madone – Ex voto dans le goût espagnol Pag. 102, 104, 106 :
 
Je veux bâtir pour toi, Madone, ma maîtresse,
Un autel souterrain au fond de ma détresse,
Et creuser dans le coin le plus noir de mon cœur,
Loin du désir mondain et du regard moqueur,
Une niche, d’azur et d’or tout émaillée,
Où tu te dresseras, Statue émerveillée.
……………………………………………….
Et dans ma Jalousie, ô mortelle Madone,
Je saurai te tailler un Manteau, de façon
Barbare, roide et lourd, et doublé de soupçon,
Qui, comme une guérite, enfermera tes charmes ;
Non de Perles brodé, mais de toutes mes Larmes !
Ta robe, ce sera mon Désir, frémissant,
Onduleux, mon Désir qui monte et qui descend,
Aux pointes se balance, aux vallons se repose,
Et revêt d’un baiser tout ton corps blanc et rose
…………………………………………………
Si je ne puis, malgré tout mon art diligent,
Pour Marchepied tailler une Lune d’argent,
Je mettrai le Serpent qui me mord les entrailles
Sous tes talons, afin que tu foules et railles,
Reine victorieuse et féconde en rachats,
Ce monstre tout gonflé de haine et de crachats.
………………………………………………….
Enfin, pour compléter ton rôle de Marie,
Et pour mêler l’amour avec la barbarie,
Volupté noire ! Des sept Péchés capitaux,
Bourreau plein de remords, je ferai sept Couteaux
Bien affilés, et, comme un jongleur insensible,
Prenant le plus profond de ton amour pour cible,
Je les planterai tous dans ton Cœur pantelant,
Dans ton Cœur sanglotant, dans ton Cœur ruisselant !
 
(Voglio innalzare per te, Madonna, mia padrona ed amante, / un altare sotterraneo, al fondo del mio sconforto, / e scavare nell’angolo più nero del mio cuore, / lontano dal desiderio mondano e dallo sguardo schernitore, / una nicchia smaltata d’oro e d’azzurro / dove tu t’ergerai, statua incantata. / […] / e nella mia gelosia, o mortale Madonna, / saprò tagliarti un mantello / di foggia barbarica, rigido e pesante, foderato di sospetto / che, come una garitta, racchiuda le tue grazie; / non ricamato di perle, ma di tutte le mie lacrime! / La tua veste sarà il mio desiderio fremente, / ondulante, il mio desiderio che sale e scende, / si culla sulle cime, nelle valli si riposa, / e riveste d’un bacio il tuo corpo bianco e rosa. / […] / Se non posso, malgrado tutta la mia arte diligente / farti per sgabello una luna d’argento, / porrò il Serpente che mi morde i visceri / sotto i tuoi talloni, affinché tu lo calpesti e lo schernisca, / Regina vittoriosa e feconda di redenzioni, / questo mostro tutto gonfio d’odio e di sputi / […] / Infine, per rendere completo il tuo ruolo di Maria, / e per mischiare l’amore con la barbarie, / nera voluttà, dei sette peccati capitali, / boia pieno di rimorsi, io farò sette coltelli / ben affilati e, come un giocoliere insensibile, / prendendo per bersaglio il tuo più profondo amore, / li pianterò nel tuo cuore ansimante, / nel tuo cuore singhiozzante, nel tuo cuore grondante!)  
 
[Necessità di ritrovare, quale consolazione estrema nel “fondo della disperazione”, un altare eretto alla Madre ideale, “maîtresse” ossia amante e padrona. Un’immagine che deve restare al riparo da tutto ciò che può turbarne l’incanto: il “desiderio mondano” (che distoglie da essa) e lo “sguardo schernitore” (che la dissacra ed umilia). Deve restare al riparo anche dalla gelosia e dal sospetto di tradimento, che ne distruggerebbero la purezza: il Poeta tenta di farlo, ricoprendo con un “rude mantello” le sue forme; tuttavia esso ne lascia trasparire le fattezze e, con esse, si desta il desiderio sensuale. Tenta di difendere la purezza della Madre ponendo sotto i suoi piedi il serpente: la vita pulsionale, l’avidità che “morde”, i visceri, i desideri incestuosi. Ma, alla fine, riemerge la parte “barbarica” dell’amore: esso non sarebbe completo senza le pulsioni, inesorabili e insensibili, di cui la Madre stessa è la sorgente prima. La Madre è fonte di esperienze di purezza sublime quanto di sensualità impura; nessuna delle due può essere esclusa.]
 
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58 – Chanson D’après-midi – Pag. 106, 108:
 
………………………………………………
Je t’adore, ô ma frivole,
Ma terrible passion !
Avec la dévotion
Du prêtre pour son idole
………………………………………………
 
Ah ! les philtres les plus forts
Ne valent pas ta paresse,
Et tu connais la caresse
Qui fait revivre les morts !
 
……………………………………………….
 
Quelquefois, pour apaiser
Ta rage mystérieuse,
Tu prodigues, sérieuse,
La morsure et le baiser ;
 
Tu me déchires, ma brune,
Avec un rire moqueur,
Et puis tu mets sur mon cœur
Ton œil doux comme la lune.
 
Sous tes souliers de satin,
Sous tes charmants pieds de soie,
Moi, je mets ma grande joie,
Mon génie et mon destin,
 
Mon âme par toi guérie,
Par toi, lumière et couleur !
Explosion de chaleur
Dans ma noire Sibérie !
 
([…] T’adoro, o mia frivola, / mia terribile passione! / con tutta la devozione / del sacerdote per il suo idolo. // […] // Ah, i filtri più forti / non valgono la tua pigrizia, / e tu conosci la carezza / che fa rivivere i morti! / […] / Talvolta, per placare / la tua ira misteriosa, / tu prodighi, con serietà, / il morso e il bacio; // tu mi strazi, o mia bruna, / col tuo riso canzonatore, / e poi posi sul mio cuore / un occhio dolce come la luna. // Sotto le tue scarpine di raso, / sotto i tuoi affascinanti piedi di seta, / io depongo la mia grande gioia, / il mio genio, il mio destino, // la mia anima da te guarita, / da te, luce e colore! / Esplosione di calore / nella mia nera Siberia!)
 
[L’anima del Poeta, nella sua “nera Siberia” (nella sua “selva oscura” fredda, priva di vita), trova la sua “guarigione” (la sua luce, il suo colore, il suo calore) proiettandosi nella sua donna, essere capriccioso e sublime, cui tutto è concesso. Ritrova in lei, e sottomettendosi masochisticamente a lei, l’onnipotenza del proprio “Sé grandioso” originario, il contatto col quale restituisce vitalità alla sua esistenza soggettiva, ripristina il legame con le sue radici, da cui essa trae la linfa vitale delle emozioni: la “guarigione”]
 
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59 – Sisina – Pag. 108 :
 
Imaginez Diane en galant équipage,
Parcourant les forêts ou battant les halliers,
Cheveux et gorge au vent, s’enivrant de tapage,
Superbe et défiant les meilleurs cavaliers !
 
Avez-vous vu Théroigne, amante du carnage,
Excitant à l’assaut un peuple sans souliers,
La joue et l’œil en feu, jouant son personnage,
Et montant, sabre au poing, les royaux escaliers ?
 
Telle la Sisina ! Mais la douce guerrière
A l’âme charitable autant que meurtrière ;
Son courage, affolé de poudre et de tambours,
 
Devant les suppliants sait mettre bas les armes,
Et son cœur, ravagé par la flamme, a toujours,
Pour qui s’en montre digne, un réservoir de larmes.
 
(Immaginate Diana con un galante corteo / che percorre le foreste e batte le macchie / capelli e seno al vento, ebbra di chiasso, / superba, sfidando i migliori cavalieri! // Avete visto Théroigne, amante delle carneficine, / che incita all’assalto un popolo senza scarpe, / guancia ed occhio di fuoco, interpretando la sua parte, / e salendo, sciabola in pugno, le scalinate regali? // Tale è Sisina! Ma la dolce guerriera / ha l’animo tanto caritatevole quanto assassino; / il suo coraggio, sconvolto dalla polvere e dai tamburi, // davanti ai supplici sa deporre le armi, / e il suo cuore, devastato dalla fiamma, ha sempre, / per chi se ne mostra degno, una riserva di lacrime.)
 
[La donna, più trasgressiva dell’uomo, meno legata a rigidi schemi o preconcetti morali, è, per questo, tanto più in grado di comportarsi in modo micidiale, feroce, verso i nemici, quanto di offrire comprensione e conforto materni per i deboli, gli indifesi, i vinti. Più che ai principi astratti, riserva il suo affetto ai propri simili, quando ne ritiene degni.]
 
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62 – Moesta et errabunda – Pag. 112, 114 :
 
Dis-moi, ton cœur parfois s’envole-t-il, Agathe,
Loin du noir océan de l’immonde cité,
Vers un autre océan où la splendeur éclate,
Bleu, clair, profond, ainsi que la virginité ?
Dis-moi, ton cœur parfois s’envole-t-il, Agathe ?
 
La mer, la vaste mer, console nos labeurs !
Quel démon a doté la mer, rauque chanteuse
Qu’accompagne l’immense orgue des vents grondeurs,
De cette fonction sublime de berceuse ?
La mer, la vaste mer, console nos labeurs !
 
Emporte-moi, wagon ! enlève-moi, frégate !
Loin ! loin ! ici la boue est faite de nos pleurs !
Est-il vrai que parfois le triste cœur d’Agathe
Dise : Loin des remords, des crimes, des douleurs,
Emporte-moi, wagon ! enlève-moi, frégate ?
 
Comme vous êtes loin, paradis parfumé,
Où sous un clair azur tout n’est qu’amour et joie,
Où tout ce que l’on aime est digne d’être aimé,
Où dans la volupté pure le cœur se noie !
Comme vous êtes loin, paradis parfumé !
 
Mais le vert paradis des amours enfantines,
Les courses, les chansons, les baisers, les bouquets,
…………………………………………..
 
L’innocent paradis, plein de plaisirs furtifs,
Est-il déjà plus loin que l’Inde et que la Chine ?
Put-on le rappeler avec des cris plaintifs,
Et l’animer encor d’une voix argentine,
L’innocent paradis plain de plaisirs furtifs ?
 
(Dimmi, talvolta il tuo cuore fugge via, Agata, / lontano dal nero oceano dell’immonda città, / verso un altro oceano, dove lo splendore prorompe, / azzurro, chiaro, profondo come la verginità? / Dimmi, talvolta il tuo cuore fugge via, Agata? // Il mare, il vasto mare consola le nostre fatiche! / Quale demonio ha dotato la distesa del mare, rauca cantante / che accompagna l’organo immenso dei venti rombanti, / di questa sublime capacità di cullarci? / Il mare, il vasto mare consola le nostre fatiche! // Portami via, o vagone, e tu rapiscimi, nave! / Lontano! Lontano! Qui il fango è fatto delle nostre lacrime! / È vero che talvolta il triste cuore di Agata / dice: “lontano dai rimorsi, dai delitti, dai dolori, / mi porti via, o vagone, mi rapisci, o nave?” // Come sei lontano, paradiso profumato, / dove sotto un chiaro azzurro tutto è amore e gioia, / dove tutto quel che si ama è degno d’essere amato, / dove il cuore si sprofonda nella pura voluttà! / Come sei lontano, paradiso profumato! // Ma il verde paradiso degli amori infantili, / le corse, le canzoni, i baci, i mazzetti (…) / l’innocente paradiso di piaceri furtivi, / è già più lontano dell’India e della Cina? / Si può evocarlo con grida lamentose, / ed animarlo ancora con una voce argentina, / l’innocente paradiso pieno di piaceri furtivi?)
 
[Il Poeta tenta di raggiungere una zona antica del suo animo dove le cose non sono ancora corrotte dai “rimorsi, crimini, dolori” che caratterizzano la vita adulta; un luogo dove la voluttà è “pura”, non contrastata da conflitti (anche se esiste la possibilità di “piaceri furtivi”); dove, pure, non esiste tradimento o disillusione: “tutto ciò che si ama è degno d’essere amato”. Egli lo fa appoggiandosi al valore evocativo del mare, immagine materna dove egli ritrova l’esperienza d’essere “cullato”, ristorato. Essendo, come Poeta, dotato della capacità d’avvertire acutamente il significato interiore delle cose, egli vi riesce in gran parte. Si può dire che, nel suo caso “coelum et animum mutant qui trans mare currunt”. Ma si tratta di un significato simbolico, di un valore puramente evocativo; il dubbio, pertanto resta circa l’effettiva possibilità di ritrovare quest’atmosfera infantile, dove le cose possono essere come magicamente ottenute tramite “gridi lamentosi” e la situazione come animata dalla “voce argentina” dell’infanzia.]
 
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63 – Le revenant (lo spettro che ritorna) – Pag. 114, 116
 
Comme les anges à l’œil fauve,
Je reviendrai dans ton alcôve
Et vers toi glisserai sans bruit
Avec les ombres de la nuit ; 
 
Et je te donnerai, ma brune,
Des baisers froids comme la lune
Et des caresses de serpent
Autour d’une fosse rampant.
 
Quand viendra le matin livide,
Tu trouveras ma place vide,
Où jusqu’au soir il fera froid.
 
Comme d’autres par la tendresse,
Sur ta vie et sur ta jeunesse,
Moi, je veux régner par l’effroi !
 
(Come gli angeli dall’occhio feroce, / ritornerò alla tua alcova / e scivolerò verso di te senza rumore / con le ombre della notte; // e ti darò, mia bruna, / dei baci freddi come la luna / e le carezze del serpente / che striscia intorno alla fossa. // Quando verrà il livido mattino, / tu troverai il mio posto vuoto, / dove fino a sera ci sarà freddo. // Come altri con la tenerezza, / sulla tua vita e la tua giovinezza / voglio regnare col terrore!)
 
[Il Poeta, qui, descrive una fantasia (a carattere ingenuo e infantile) di vendetta, secondo la legge del taglione, sulla freddezza dell’amata. Tuttavia non c’è soltanto la vendetta: c’è anche la sensazione che, tramite la sua freddezza e il terrore dell’abbandono che essa suscita il lei, egli riuscirà a legare a sé la donna. È qui adombrata una verità psicologica profonda: ad attuare la ritorsione è uno spettro vendicativo “che ritorna”. Possiamo supporre che si tratti del fantasma di chi originariamente, con la sua gelida indifferenza, diede origine in epoca remota alla freddezza della donna: una figura arcaica che, come reazione al terrore che le aveva suscitato, produsse in lei una “identificazione con l’aggressore”. Il terrore la terrà legata per sempre, molto più della tenerezza, a questo personaggio del passato e ai suoi sostituti.]
 
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65 – Tristesse de la lune – Pag. 116, 118
 
Ce soir la lune rêve avec plus de paresse ;
Ainsi qu’une beauté, sur de nombreux coussins,
Qui d’une main distraite et légère caresse
Avant de s’endormir le contour de ses seins
………………………………………………
Et promène ses yeux sur les visions blanches
Qui montent dans l’azur comme des floraisons
 
Quand parfois sur ce globe, en sa langueur oisive,
Elle laisse filer une larme furtive
Un poète pieux, ennemi du sommeil,
 
Dans le creux de sa main prend cette larme pâle
Aux reflets irisés comme un fragment d’opale,
Et la met dans son cœur loin des yeux du soleil.
 
(Questa sera la luna sogna con più languore; / come una bellezza che su molti cuscini / con mano distratta e leggera carezza, / prima d’addormentarsi, il contorno dei suoi seni / […] / ed i suoi occhi vagano sulle visioni bianche / che salgono nell’azzurro come una fioritura. // Quando, nel suo languore ozioso, sul nostro globo / lascia correre una lacrima furtiva, / un poeta pietoso, nemico del sonno, // accoglie nel cavo della mano questa lacrima pallida, / dai riflessi iridati come un frammento d’opale, / e la pone nel suo cuore, lontano dagli occhi del sole.)
 
[Si coglie, qui, un’atmosfera languida, tenera, un po’ melanconica (la cui espressione musicale potrebbe essere “Al chiaro di luna” di Beethoven) creata dall’immagine della luna accostata a quella di una donna che, prima di assopirsi, s’accarezza i seni, al suo atteggiamento sognante (“bianche” visioni), al suo completo abbandono. È il Poeta che sogna proiettandosi in quest’immagine. Tuttavia egli è “nemico del sonno”, cioè non s’accontenta di vivere quest’esperienza in una pura dimensione onirica: vuole conservarne una traccia (la “pallida lacrima” lasciata cadere dalla luna) e tenerla nel suo cuore lontana dagli “occhi del sole”, ossia dalla vita diurna e dalla veglia che potrebbero dissolverla. Quel che trattiene è un frammento di bellezza, “iridato come un opale” ritrovato passando attraverso un’esperienza di dolore: la “lacrima”.]
  
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67 – Les hiboux (I gufi) – Pag. 118, 120
 
Sous les ifs noirs qui les abritent,
Les hiboux se tiennent rangés,
Ainsi que des dieux étrangers,
Dardant leur œil rouge. Ils méditent.
 
Sans remuer ils se tiendront
Jusqu’à l’heure mélancolique
Où, poussant le soleil oblique,
Les ténèbres s’établiront.
 
Leur attitude au sage enseigne
Qu’il faut en ce monde qu’il craigne
Le tumulte et le mouvement ;
 
L’homme ivre d’une ombre qui passe
Porte toujours le châtiment
D’avoir voulu changer de place.
 
(Sotto i neri tassi che li ospitano / i gufi stanno schierati / come Dei stranieri, / e dardeggiano il loro occhio rosso. Meditano. // Staranno senza muoversi / fino all’ora malinconica / in cui, spingendo via il sole obliquo, / s’instaureranno le tenebre. // Il loro atteggiamento insegna al saggio / che a questo mondo è bene temere / il tumulto e il movimento; // L’uomo inebriato da un’ombra passeggera / porta sempre con sé il castigo / del suo aver voluto cambiare luogo.)  
 
[La perenne immobilità dei gufi è, per il Poeta, la metafora della saggezza di chi non si lascia illudere da false prospettive di cambiamento e sa conservare la sua posizione (ciò che è fondamentale nella sua vita interiore) fino all’ “ora melanconica delle tenebre”, quando sarà inevitabile abbandonarla. Ciò che spinge al cambiamento, ad un’apparente crescita, si rivela spesso come un’“ombra”, un’illusione; ed allora la separazione e la insensate e inconsistenti.]  
 
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70 – Sépulture – Pag. 122
 
[Epicuro sosteneva che quello della morte è un falso problema; a suo avviso si tratta di una realtà con cui nessuno di noi dovrà mai confrontarsi: “quando ci sono io, non c’è la morte, e quando c’è la morte non ci sarò io”. Ciò vale, indubbiamente, per la morte biologica. Tuttavia, l’incubo della fine della nostra esistenza è presente anche quando “ci siamo”: la morte è parte dell’esperienza della vita, è il lato più oscuro e sinistro del nostro vivere. È, infatti, la testimonianza indiscutibile della precarietà di tutto quel che ci riguarda, del nostro stesso essere: tutto è destinato a finire. Alla luce di questa consapevolezza, tutto il resto assume un nuovo significato; ed è ad essa che alludiamo quando parliamo di “morte”; non della fine della nostra esistenza corporea che, come sosteneva Epicuro, non ci riguarda.
Nessuno dei vivi, ovviamente, ha mai esperimentato di persona cosa c’è oltre la fine; ciò, quindi, può essere solo oggetto di ipotesi, o di fantasie, o di fede. Ognuno si forgia la sua idea di “morte” in base ai suoi desideri e alle sue paure. Il grave depresso con idee di suicidio immagina la morte come fine dei tormenti della sua esistenza. Sulla base delle oscure tracce mnestiche della vita intra-uterina, la concepisce come recupero della condizione di quiete e beatitudine che caratterizzava la sua esistenza prima di nascere. Se tale fantasia prende il sopravvento sull’esame di realtà, diviene estremamente pericolosa. Altri, al contrario, si creano un’idea tormentosa di quel che c’è oltre la morte, e ne sono ossessionati. Un’illustrazione di questo punto di vista ci è offerta da Baudelaire nella sua poesia “Sépulture”:]
 
Si par une nuit lourde et sombre
Un bon chrétien, par charité,
Derrière quelque vieux décombre
Enterre votre corps vanté.
 
A l’heure où le chastes étoiles
Ferment leurs yeux appesantis,
L’araignée y fera ses toiles,
Et la vipère ses petits ;
 
Vous entendez toute l’année
Sur votre tête condamnée
Les cris lamentables des loups
 
Et des sorcières faméliques,
Les ébats des vieillards lubriques
Et les complots des noirs filous.
 
(Se, in una notte greve e cupa / un buon cristiano, per carità, / dietro qualche vecchio rudere / seppellisce il tuo corpo ora così decantato, // all’ora in cui le caste stelle / chiudono i loro occhi appesantiti, / il ragno vi farà le sue tele / e la vipera i suoi piccoli; // tu senti tutto l’anno / sul tuo capo condannato / gli urli lamentosi dei lupi // e delle streghe fameliche, / i trastulli dei vecchi lubrichi / ed i complotti dei neri imbroglioni.)
 
[La morte è immaginata, in questi versi, come il riemergere di una vita “notturna”, in cui prendono forma tutte quelle immagini persecutorie che compaiono ai primordi della nostra esistenza; immagini che (finché c’è) la vita adulta e vigile mette in ombra. È qui descritta una forma di fragilità, o di decadimento senile, portati all’estremo; questi, a loro volta, sono immaginati come regressione all’epoca in cui il bambino, nei momenti in cui si si sentiva abbandonato, si ritrovava privo di risorse, impotente, indifeso, in balìa di un mondo ostile. I verbi che descrivono questa scena sono al presente indicativo: ciò è significativo di un’esperienza vissuta come concreta, reale, e non in una dimensione fantasiosa; un’esperienza in cui non c’è più un passato o un futuro: tutto è immobile, tutto è senza tempo.
I due esempi che ho presentato (la morte desiderata dal candidato al suicidio e quella fortemente temuta da chi ne è ossessionato) illustrano che quando una persona parla di “morte”, in realtà sta alludendo ad aspetti intollerabili della sua vita; e, se la vogliamo aiutare, è di questi che ci dobbiamo occupare, non della morte biologica. Il depresso ha bisogno d’essere aiutato a superare il lutto per una condizione “beata” che non tornerà mai più; compito che non può essere disgiunto dalla riscoperta dei motivi per cui vale la pena di vivere. L’ossessionato dall’idea della morte ha bisogno d’essere aiutato a rafforzare l’esame di realtà; ossia a capire in che misura può essere giustificato il suo timore di un ritorno ad una condizione infantile di fragilità ed abbandono. Ha anche bisogno d’essere aiutato a capire se, al di sotto della paura, c’è anche il desiderio di porre fine alle sue sofferenze con la morte. In entrambi i casi, è necessario che il bambino che c’è in ciascuno di noi sia compreso nei suoi desideri e nelle sue paure; ed è non meno necessario che questo bambino non prenda il sopravvento sull’adulto che, pure, c’è in ciascuno di noi.
 
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72 – Le mort joyeux – Pag. 124
 
Dans une terre grasse et pleine d’escargots
Je veux creuser moi-même une fosse profonde,
Où je puisse à loisir étaler mes vieux os
Et dormir dans l’oubli comme un requin dans l’onde.
 
Je hais les testaments et je hais les tombeaux ;
Plutôt que d’implorer une larme du monde,
Vivant, j’aimerais mieux inviter les corbeaux
A saigner tous les bouts de ma carcasse immonde.
………………………………………………………
 
(In una terra grassa e piena di lumache / voglio scavarmi io stesso una fossa profonda / dove io possa adagiare comodamente le mie vecchie ossa / e dormire nell’oblio come uno squalo nell’onda. // Odio i testamenti e odio le tombe; / piuttosto che implorare dalla gente una lacrima, / preferirei, vivo, invitare i corvi / a dissanguare ogni brandello della mia immonda carcassa […])
 
[Straordinaria dimostrazione di fierezza, che non si piega, neppure di fronte all’estrema minaccia, a supplicare pietà. L’individuo cui il Poeta dà voce non vuole lasciare di sé, ai posteri, nulla che possa essere implicitamente un invito a provare nostalgia per lui, a piangere sulla sua scomparsa: né testamento, né tomba. L’integrità della vita soggettiva è preservata, rinunciando (anzi, attaccando attivamente) quella corporea, in una sfida estrema alla morte.
 
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73 – Le tonneau de la Haine – Pag. 126
 
La Haine est le tonneau des pâles Danaïdes ;
La Vengeance éperdue aux bras rouges et forts
A beau précipiter dans ses ténèbres vides
De grands seaux pleins du sang et des larmes des morts,
 
Le Démon fait des trous secrets à ces abîmes,
Par où fuiraient mille ans de sueurs et d’efforts,
Quand même elle saurait ranimer ses victimes,
Et pour les pressurer ressusciter leurs corps.   
 
La Haine est un ivrogne au fond d’une taverne,
Qui sent toujours la soif naître de la liqueur
Et se multiplier comme l’hydre de Lerne.
 
Mais les buveurs heureux connaissent leur vainqueur,
Et la Haine est vouée à ce sort lamentable
De ne pouvoir jamais s’endormir sous la table.
 
(L’odio è la botte delle pallide Danaidi; / la Vendetta sconvolta, dalle braccia rosse e forti / invano getta in fondo alle sue vuote tenebre / grandi secchi pieni di sangue e lacrime dei morti, // il Demonio fa buchi segreti a questi abissi / dai quali sfuggirebbero mille anni di sudori e sforzi, / quand’anche essa sapesse rianimare le sue vittime / e, per torchiarle ancora, resuscitare i loro corpi. // L’Odio è un ubriaco in fondo a una taverna, / che sente sempre la sete rinascere dal bere / e moltiplicarsi come l’idra di Lerna. // Ma i bevitori felici sanno chi è il loro vincitore, / e l’Odio è condannato a questa sorte lamentevole: / di non potersi mai addormentare sotto la tavola.)
 
[Le Danaidi, vergini misandre (ma profondamente legate, in una forma perversa di fedeltà, al padre Danao), si resero colpevoli di uxoricidio, assassinando la prima notte di nozze i loro sposi, pur di non concedersi a uomini per loro estranei. Negli inferi furono condannate per l’eternità a cercare di riempire con acqua un vaso bucato. Il Poeta interpreta quest’immagine come metafora di un odio inestinguibile, che non può mai trovare piena soddisfazione. Le Danaidi sono vincolate al padre, in modo esclusivo, da un tenace legame incestuoso. Come in tutti i legami di questo genere, il loro desiderio più profondo è tornare ad abitare il ventre materno. Con questo identificano il proprio ventre, e l’incesto servirebbe a riempire la sua cavità con un contenuto, di origine paterna, identificato con loro stesse. Ma tutto questo incontra, nella realtà, un ostacolo invalicabile: esse sono figlie, e non spose; la madre è una persona distinta da loro, ed il loro ventre creerà un essere diverso da loro stesse. Ciò scatena, verso le figure genitoriali (e soprattutto verso il padre frustrante) l’avidità e l’odio inestinguibili, di natura profonda, arcaica, che caratterizzano la “rabbia narcisistica” (Kohut); odio che spostano dal padre all’uomo estraneo. Si tratta di una passione insaziabile: il suo obbiettivo finale è il ripristino di un universo narcisistico privo di “macchie”, (ossia di limitazioni) ed assolutamente controllabile; e ciò, ovviamente, è impossibile a realizzarsi. Questa passione è posta in relazione con la sete insaziabile dell’alcolista il quale, tuttavia, conosce il limite giunto al quale dovrà fermarsi: è il coma etilico, il limite fisiologico alla tolleranza dell’alcol. Arrivato oltre il confine dell’auto-annientamento totale, l’odio inestinguibile non potrà più trovare in questo un alleato, e continuerà a persistere, immutato, per l’eternità: le Danaidi non potranno mai trovare la pace dell’ubriacone che, in preda al coma, “dorme sotto la tavola”.
 
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74 – La cloche fêlée – Pag. 126, 128
 
Il est amer et doux, pendant les nuits d’hiver,
D’écouter, près du feu qui palpite et qui fume,
Les souvenirs lointains lentement s’élever
Au bruit des carillons qui chantent dans la brume.
 
Bienheureuse la cloche au gosier vigoureux
Qui, malgré sa vieillesse, alerte et bien portante,
Jette fidèlement son cri religieux,
Ainsi qu’un vieux soldat qui veille sous la tente !
 
Moi, mon âme est fêlée, et lorsqu’en ses ennuis 
Elle veut de ses chants peupler l’air froid des nuits,
Il arrive souvent que sa voix affaiblie
 
Semble le râle épais d’un blessé qu’on oublie
Au bord d’un lac de sang, sous un grand tas de morts,
Et qui meurt, sans bouger, dans d’immenses efforts.
 
(È amaro e dolce, nelle notti d’inverno, / ascoltare, accanto al fuoco che palpita e fuma, / levarsi lentamente i ricordi lontani / al suono delle campane che cantano nella nebbia. // Felice la campana dalla gola vigorosa / che, malgrado la sua vecchiaia, arzilla ed in salute / lancia fedelmente il suo grido religioso / come un vecchio soldato che veglia sotto la tenda! // Quanto a me, la mia anima è incrinata e quando, nelle sue pene / vuole popolare l’aria fredda delle notti, / accade spesso che la sua voce indebolita // sembri il rantolo pesante di un ferito dimenticato / al bordo di un lago di sangue, sotto un gran cumulo di morti, / che muore senza muoversi, tra immensi sforzi)
 
[Vissuto di morte interiore che si manifesta come impossibilità d’esprimersi e comunicare. Mancano interlocutori, come spesso accade al moribondo, ma, prima ancora, mancano gli stessi oggetti interni: è perso il contatto con l’oggetto arcaico idealizzato, da cui emanano l’ideale religioso del credente, o quello patriottico del vecchio soldato; il soggetto, perciò, si sente completamente abbandonato. Come in Pavese: “I tuoi occhi [della morte] saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio / scenderemo nel gorgo muti”
 
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75 – Spleen – Pag. 128
 
Pluviôse, irrité contre la ville entière,
De son urne à grands flots verse un froid ténébreux
Aux pâles habitants du voisin cimetière
Et la mortalité sur les faubourgs brumeux.
 
Mon chat sur le carreau cherchant une litière
Agite sans repos son corps maigre et galeux ;
L’âme d’un vieux poète erre dans la gouttière
Avec la triste voix d’un fantôme frileux.  
 
Le bourdon se lamente, et la bûche enfumée
Accompagne en fausset la pendule enrhumée.
Cependant qu’en un jeu plein de sales parfums,
 
Héritage fatal d’une vieille hydropique,
Le beau valet de cœur et la dame de pique
Causent sinistrement de leurs amours défunts.
 
(Pluvioso, irritato contro l’intera città, / versa dalla sua urna a grandi fiotti un freddo tenebroso / sui pallidi abitanti del vicino cimitero / e la mortalità sui quartieri nebbioso. // Il mio gatto sul pavimento, alla ricerca di un giaciglio / agita instancabilmente il suo corpo magro e rognoso; / l’anima di un vecchio poeta erra nella grondaia / con la voce triste di un fantasma freddoloso. // La campana si lagna e il ceppo che fa fumo / accompagna in falsetto la pendola raffreddata, / intanto che, in un mazzo di carte pieno di olezzi sudici, // lascito fatale di una vecchia idropica, / il bel fante di cuori e la regina di picche / discutono sinistramente sui loro amori defunti.)   
 
[L’esperienza dello “spleen” (malumore fatto d’irritazione, insofferenza, inquietudine e tristezza: quel che in psichiatria si chiama umore disforico) è rappresentata qui, in modo “impressionistico”, da una serie di immagini che evocano devastazione, degradazione, squallore. Particolarmente significativa è l’ultima immagine, quella del “fante di cuori” e della “regina di picche”, dove l’antica traccia di un tenero rapporto madre-figlio (quel che un tempo fu fonte di vita) viene completamente degradata: dal mazzo di carte cui appartengono, eredità di una vecchia affetta da una malattia ripugnante, emanano “luridi olezzi”; essi discutono in modo “sinistro” dei loro amori “defunti”. Tutto viene ridotto a qualcosa di squallido, inquietante, morto. In ultima analisi, la disforia viene ricondotta alla regressione alla fase in cui l’antico oggetto d’amore, appena interiorizzato, subisce un processo di decomposizione: dentro il bozzolo, il bruco si sta disintegrando, e dai suoi resti non si è ancora formata una farfalla, ossia un’identificazione integra.
 
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76 – Spleen – Pag. 128, 130
 
J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans.
 
Un gros meuble à tiroirs encombré de bilans,
De vers, de billets doux, de procès, de romances,
Avec de lourds cheveux roulés dans des quittances,
Cache moins de secrets que mon triste cerveau.
C’est une pyramide, un immense caveau,
Qui contient plus de morts que la fosse commune.
Je suis un cimetière abhorré de la lune,
Où comme des remords se traînent de long vers
Qui s’acharnent toujours sur mes morts les plus chers.
Je suis un vieux boudoir plein de roses fanées
Où gît tout un fouillis de modes surannées,
Où les pastels plaintifs et les pâles Boucher,
Seuls, respirent l’odeur d’un flacon débouché. 
 
Rien n’égale en longueur les boiteuses journées,
Quand sous les lourds flocons des neigeuses années
L’ennui, fruit de la morne incuriosité,
Prend les proportions de l’immortalité.
Désormais tu n’es plus, ô matière vivante !
Qu’un granit entouré d’une vague épouvante,
Assoupi dans le fond d’un Saharah brumeux ;
Oublié sur la carte, et dont l’humeur farouche
Ne chante qu’aux rayons du soleil qui se couche.
 
(Ho più ricordi che se avessi mille anni. // Un grosso mobile a cassetti ingombro di bilanci, / di versi, di biglietti galanti, di atti processuali, di romanze, / con grevi capelli ravvolti nelle quietanze, / nasconde meno segreti del mio triste cervello. / È una piramide, un’immensa tomba, / che contiene più morti della fossa comune. / Io sono un cimitero aborrito dalla luna, / in cui, come rimorsi, si trascinano lunghi vermi / che s’accaniscono continuamente sui miei morti più cari. / Sono un vecchio camerino pieno di rose appassite, / dove giace un’accozzaglia di mode antiquate, / dove miseri pastelli lamentosi e pallidi Boucher, / soli respirano il profumo di una fiala stappata. // Nulla eguaglia la lentezza di quei giorni zoppicanti, / quando, sotto i pesanti fiocchi delle annate nevose / la noia, frutto della tetra perdita di curiosità, / prende le proporzioni dell’immortalità. / Ormai tu non sei più, o materia vivente, / che un granito circondato da un vago spavento, / assopito sul fondo di un Sahara nebbioso; / una vecchia sfinge ignorata dal mondo noncurante, / dimenticata dalle mappe, ed il cui umore selvaggio / non sa cantare che ai raggi del sole che tramonta.)
 
 
[Lo spleen è qui legato a disordine interiore che si manifesta come confusione e noia. La vita soggettiva è come svuotata, come conseguenza della perdita, o del disinvestimento, o della “decomposizione” degli oggetti interni, soprattutto di quello arcaico idealizzato, che modella la meta ideale dell’esistenza di ciascuno. Ciò produce assenza d’interesse e di curiosità per il mondo esterno, venendo così a mancare ciò che orienta ed ordina quello interno. La noia, che trasforma il tempo soggettivo in una pena senza fine (“ferma” il tempo, ossia il movimento della vita), è effetto, ma anche e soprattutto causa, della più completa solitudine ed impossibilità di comunicare.]
 
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77 – Spleen – Pag. 130
 
Je suis comme le roi d’un pays pluvieux,
Riche, mais impuissant, jeune et pourtant très vieux,
Qui, de ses précepteurs méprisant les courbettes,
S’ennuie avec ses chiens comme avec d’autres bêtes.
Rien ne peut l’égayer, ni gibier, ni faucon,
Du bouffon favori la grotesque ballade
Ne distrait plus le front de ce cruel malade ;
Son lit fleurdelisé se transforme en tombeau,
Et les dames d’atour, pour qui tout prince est beau,
Ne savent plus trouver d’impudique toilette
Pour tirer un souris de ce jeune squelette.
Le savant qui lui fait de l’or n’a jamais pu
De son être extirper l’élément corrompu,
Et dans ces bains de sang qui des Romans nous viennent,
Et dont sur leurs vieux jours les puissants se souviennent
Il n’a su réchauffer ce cadavre hébété
Où coule au lieu de sang l’eau verte du Léthé.
 
(Sono come il re di un paese piovoso, / ricco ma impotente, giovane eppure vecchissimo, / che disprezzando i salamelecchi dei suoi precettori, / s’annoia coi suoi cani come con altri animali. / Nulla può allietarlo, né la selvaggina, né il falcone, / né il popolo agonizzante sotto il suo balcone. / La ballata grottesca del buffone favorito / non distrae più la fronte di questo crudele malato; / il suo letto di fiordalisi si trasforma in sepolcro, / e le dame del seguito, per le quali ogni principe è bello, / non sanno più trovare quale impudico abbigliamento / sia capace di cavare un sorriso da quel giovane scheletro. / Il sapiente che gli crea cose d’oro non ha mai potuto / estirpare l’elemento corrotto dal suo essere; / ed in quei bagni di sangue che ci vengono dai Romani / di cui i potenti, nei loro ultimi anni si sovvengono, / egli non ha saputo ridar calore a quel cadavere ebete / in cui, anziché sangue, scorre l’acqua verde del Lete.)
 
[Il vuoto d’interesse e di curiosità per il mondo esterno, proprio dello spleen che il Poeta avverte, è qui ricondotto ad un sé narcisistico patologico “ricco, ma impotente”, ossia grandioso ma incapace di estendere e arricchire la propria grandiosità tramite investimenti affettivi sul mondo esterno. Nulla sfiora questo “povero re”, perché nulla, intorno a lui, è autentico: i “salamelecchi” dei suoi precettori non sono premi a suoi effettivi meriti; le provocazioni sessuali delle sue cortigiane non hanno nulla a che vedere con un suo aspetto realmente attraente. Non potendo trarre da ciò che lo circonda un alimento alla propria vitalità, egli diviene del tutto incapace di rivolgersi al mondo esterno per trovarlo: diviene vecchio pur essendo giovane, cadavere inerte, pur essendo ancora vivo.]
 
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78 – Spleen – Pag. 132
 
Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle
Sur l’esprit gémissant en proie aux longs ennuis,
Et que de l’horizon embrassant tout le cercle
Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits
 
Quand la terre est changée en un cachot humide,
Où l’Espérance, comme une chauve-souris,
S’en va battant les murs de son aile timide
Et se cognant la tête à des plafonds pourris ;
 
Quand la pluie étalant ses immenses traînées
D’une vaste prison imite les barreaux
Et qu’un peuple muet d’infâmes araignées
Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,
 
Des cloches tout à coup sautent avec furie
Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,
Ainsi que des esprits errants et sans patrie
Qui se mettent à geindre opiniâtrement. 
 
Et de longs corbillards, sans tambours ni musique,
Défilent lentement dans mon âme ; l’Espoir,
Vaincu, pleure, et l’Angoisse atroce, despotique,
Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.
 
(Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio / sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni / ed abbracciando l’intero cerchio dell’orizzonte / spande una luce nera più triste delle notti; // quando la terra è trasformata in umida segreta / dove la Speranza, come un pipistrello, / sbatte contro i muri con la sua ala timida / picchiando la testa su soffitti marcescenti; // quando la pioggia, distendendo le sue immense strisce, / imita le sbarre di una grande prigione / e un popolo muto di ragni infami / tende le sue reti nel fondo dei nostri cervelli, // delle campane improvvisamente sobbalzano con furia / e lanciano verso il cielo un urlo spaventoso, / come spiriti vaganti erranti e senza patria / che si mettono a gemere ostinati. // E lunghi cortei funebri, senza tamburi né musica, / sfilano lentamente nella mia anima; la Speranza, / vinta, piange; e l’atroce Angoscia, dispotica, / pianta sul mio cranio chinato il suo nero vessillo.)
 
[Il mondo ha perso la sua capacità di accogliere e salvaguardare l’integrità e la serenità del soggetto (è sparito il suo “holding”). Esso è avvertito come una prigione malsana, in cui è assente qualsiasi traccia di vita, e da cui si può uscire solo divenendo uno “spirito errante, senza patria, che geme ostinatamente”, ossia un essere privo di vitalità ed escluso da qualsiasi luogo ospitale: il neonato che, espulso dal ventre materno, non trova braccia che lo accolgano.]
 
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79 – Obsession – Pag. 132, 134
 
Grand bois, vous m’effrayez comme des cathédrales ;
Vous hurlez comme l’orgue ; et dans nos cœurs maudits,
Chambres d’éternel deuil où vibrent de vieux râles,
Répondent les échos de vos De profundis.
 
Je te hais, Océan ! tes bonds e tes tumultes,
Mon esprit les retrouve en lui ; ce rire amer
De l’homme vaincu, plein de sanglots et d’insultes,
Je l’entends dans le rire énorme de la mer.
 
Comme tu me plairais, ô nuit ! sans ces étoiles
Dont la lumière parle un langage connu !
Car je cherche le vide, et le noir, et le nu !
 
Mais les ténèbres sont elles-mêmes des toiles
Où vivent, jaillissant de mon œil par milliers,
Des êtres disparus aux regards familiers.
 
(Grandi boschi, voi m’impaurite come foste cattedrali; / voi urlate come l’organo; e nei nostri cuori maledetti, / camere d’eterni lutto dove vibrano antichi rantoli, / risponde l’eco dei vostri De Profundis. // Io ti odio, Oceano! I tuoi balzi e i tuoi tumulti / il mio spirito li ritrova in sé; quel riso amaro / dell’uomo vinto, pieno di singhiozzi e d’insulti / io lo sento nella risata enorme del mare. // Come mi piaceresti, o notte, senza quelle stelle / la cui luce parla con un linguaggio conosciuto! / Poiché io cerco il vuoto, il nero, il nudo! // Ma le tenebre sono esse stesse delle tele / dove vivono, scaturendo a migliaia dal mio occhio, / degli esseri spariti agli sguardi familiari.)   
 
[Il soggetto che parla in questa poesia è ossessionato (assediato) da immagini tormentose, perturbanti: “esseri spariti agli sguardi familiari”. Egli le ritrova in una Natura non più madre, ma matrigna ostile: nei boschi, simili a cattedrali che, anziché custodire l’esistenza umana nella sua dimensione eterna, racchiudono la morte; e in un mare, non più fonte di vita, in cui avverte l’eco degli estremi sussulti e del riso amaro dell’uomo sopraffatto da una forza immensamente più grande di lui; una forza che egli può solo maledire. Il Poeta cerca pace in un cielo notturno senza stelle, nelle tenebre; ma anch’esse si popolano delle stesse immagini, “scaturite dai suoi occhi”]
 
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80 – Le goût du néant – Pag. 134
 
Morne esprit, autrefois amoureux de la lutte,
L’Espoir, dont l’éperon attisait ton ardeur,
Ne veut plus t’enfourcher ! couche-toi sans pudeur,
Vieux cheval dont le pied à chaque obstacle butte.
 
Résigne-toi, mon cœur ; dors ton sommeil de brute.
 
Esprit vaincu, fourbu ! pour toi, vieux maraudeur,
L’amour n’a plus de goût, non plus que la dispute ;
Adieu donc, chants de cuivre et soupirs de la flûte !
Plaisirs, ne tentez plus un cœur sombre et boudeur !
 
Le Printemps adorable a perdu son odeur !
 
Et le Temps m’engloutit minute par minute,
Comme la neige immense un corps pris de roideur ;
Je contemple d’en haut le globe en sa rondeur
Et je n’y cherche plus l’abri d’une cahute.
 
Avalanche, veux-tu m’emporter dans ta chute ?
 
(Tetro spirito mio, un tempo amante della lotta, / la Speranza, il cui sperone attizzava il tuo ardore, / non vuole più cavalcarti! Giaci, quindi, senza pudore / vecchio cavallo il cui zoccolo ad ogni ostacolo incespica! // Rassegnati, cuor mio; dormi il tuo sonno di bruto. // Spirito vinto e stremato! Per te, vecchio razziatore, / l’amore ha perduto il suo gusto, quanto la disputa; / addio, dunque, canti di ottone e sospiri di flauto! / Piaceri, non tentate più un cuore cupo e imbronciato! // L’adorabile Primavera ha perduto il suo profumo! // Ed il Tempo m’inghiotte minuto per minuto / come fa la neve immensa su di un corpo preso da rigidità; / io contemplo dall’alto il globo in tutta la sua rotondità / e non vi cerco più l’asilo di una capanna. / Valanga, vuoi tu portarmi via nella tua caduta?)
 
[Esperienza soggettiva di completo scoraggiamento tipica, ad esempio, della crisi esistenziale della mezza età: viene meno la speranza, animatrice dell’amore, e della combattività che occorre per appagarlo; vale a dire: viene meno l’illusione, proiettata nel futuro, di un completo “rétablissement narcissique” che implica il recupero dell’oggetto primo d’amore. Il Poeta si accorge che quanto finora lo aveva coinvolto nella vita (l’amore, le dispute, i piaceri, la primavera con il suo significato di rinascita): tutto ciò era legato alla speranza illusoria di un completo ripristino dell’età dell’oro; venendo meno questa, tutto ha perso il suo fascino. Il sommarsi di esperienze di disillusione, la mutata percezione del tempo, non più vissuto come illimitato, nonché il sistema di valori narcisistico del “tutto e subito o nulla”, uccidono quel che sinora era stato il principale stimolo ad impegnarsi nella vita. Il mondo non offre più al Poeta alcun rifugio da una realtà (quella del declino della vecchiaia) che lo sta travolgendo; ed egli, pur di non subire passivamente tale crollo, lo invoca.]
 
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82 – Horreur sympathique – Pag. 136
 
De ce ciel bizarre et livide,
Tourmenté comme ton destin,
Quels pensers dans ton âme vide
Descendent ? réponds, libertin.
 
Insatiablement avide
De l’obscur et de l’incertain,
Je ne geindrai pas comme Ovide
Chassé du paradis latin.
 
Cieux déchirés comme des grèves,
En vous se mire mon orgueil ;
Vos vastes nuages en deuil
 
Sont les corbillards de mes rêves,
Et vos lueurs sont le reflet
De l’Enfer où mon cœur se plaît.
 
(Da questo cielo bizzarro e livido, / tormentato come il tuo destino, / quali pensieri nella tua anima vuota / discendono? Rispondi, libertino. // Insaziabile, avido / dell’oscuro e dell’incerto, non gemerò come Ovidio / cacciato dal paradiso latino. // Cieli lacerati come greti, / il mio orgoglio si specchia in voi; / le vostre grandi e oscure nubi in lutto // sono i carri funebri dei miei sogni, / e i vostri bagliori sono il riflesso / dell’Inferno dove il mio cuore si compiace di stare.)
 
[Il Poeta descrive qui il modo in cui egli fronteggia l’esperienza di separazione e perdita. Si confronta con il libertino: questi, negando e mascherando il lutto con le innumerevoli esperienze amorose, non sente il bisogno di riempire il vuoto interiore con l’immaginazione. Si confronta anche con chi, come successe ad Ovidio, subisce una perdita irrimediabile, che nulla può confortare. Al contrario, il Poeta, pur vivendo fino in fondo l’inferno della separazione, del lutto, delle ferite al proprio orgoglio, sa rappresentare tutto questo “appoggiandosi” alla Natura, specchiandosi in lei; insomma, trovando nella Natura l’oggetto d’amore arcaico che partecipa alle vicende del suo mondo interno; anche, paradossalmente, alla perdita dell’oggetto stesso]
 
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83 – L’Héautontimorouménos (Il «punitore di sé stesso» di Terenzio) – Pag. 138
 
Je te frapperai sans colère
Et sans haine, comme un boucher,
Comme Moïse le rocher !
Et je ferai de ta paupière,
 
Pour abreuver mon Saharah,
Jaillir les eaux de la souffrance,
Mon désir gonflé d’espérance
Sur tes pleurs salés nagera
 
Comme un vaisseau qui prend le large,
Et dans mon cœur qu’ils soûleront
Tes chers sanglots retentiront
Comme un tambour qui bat la charge !
 
Ne suis-je pas un faux accord
Dans la divine symphonie,
Grâce à la vorace Ironie
Qui me secoue et qui me mord ?
 
Elle est dans ma voix, la criarde !
C’est tout mon sang, ce poison noir !
Je suis le sinistre miroir
Où la mégère se regarde.
 
Je suis la plaie et le couteau !
Je suis le soufflet et la joue !
Je suis les membres et la roue,
Et la victime et le bourreau !
 
Je suis de mon cœur le vampire,
Un de ces grands abandonnés,
Au rire éternel condamnés,
Et qui ne peuvent plus sourire !
 
(Io ti colpirò senza collera / e senza odio, come un macellaio, / come Mosè colpì la roccia! / e farò dalla tua palpebra, // per abbeverare il mio Sahara, / sgorgare le acque della tua sofferenza; / il mio desiderio, gonfio di speranza / galleggerà sulle tue lacrime salate // come un vascello che prende il largo; / e nel mio cuore che inebrieranno, / i tuoi cari singhiozzi echeggeranno / come un tamburo che batte la carica! // Non sono forse un falso accordo / nella divina sinfonia / grazie alla vorace ironia / che mi scuote e mi morde? // Essa è nella mia voce, la stridula! / È tutto il mio sangue, questo nero veleno! / Io sono il sinistro specchio / in cui si guarda la megera. // Io sono la piaga e il coltello! / Io sono lo schiaffo e la guancia! / Io sono le membra e la ruota, / e la vittima e il carnefice! // Io sono il vampiro del mio cuore, / uno di quei grandi abbandonati / al riso eterno condannati, / e che non possono più sorridere!)
 
[Il Poeta descrive, qui, la sua condanna: il suo dover per sempre “ridere” amaramente delle false apparenze del mondo, e non poter più esprimere, sorridendo, una genuina contentezza. Egli avverte in sé stesso la “piaga” ed usa il “coltello” dell’ironia per porla in evidenza anche negli altri. Solo la sofferenza (che egli infligge a sé stesso ed all’amata in un rapporto sado-masochistico) gli appare come una realtà autentica; e solo evidenziando sadicamente la parte sofferente e veritiera dell’amata egli vive il trionfo di poterla realmente possedere ed amare.]
 
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84 – L’irrémédiable – Pag. 140, 142
 
                        I
Une Idée, une Forme, un Être
Parti de l’azur et tombé
Dans un Styx bourbeux et plombé
Où nul œil du Ciel ne pénètre ;
 
Un Ange, imprudent voyageur
Qu’a tenté l’amour du difforme,
Au fond d’un cauchemar énorme
Se débattant comme un nageur,
 
Et luttant, angoisses funèbres !
Contre un gigantesque remous
………………………………..
 
Un navire pris dans le pôle,
Comme en un piège de cristal,
Cherchant par quel détroit fatal
Il est tombé dans cette geôle ;
 
Emblèmes nets, tableau parfait
D’une fortune irrémédiable,
Qui donne à penser que le Diable
Fait toujours bien tout ce qu’il fait !
 
(Un’idea, una Forma, un Essere / partito dall’azzurro e caduto / in uno Stige melmoso e plumbeo / dove nessun occhio del Cielo può penetrare; // un Angelo, viaggiatore imprudente / tentato dall’amore del deforme, / al fondo di un incubo enorme / che si dibatte come un nuotatore / e che lotta – funebre angoscia! - / contro un vortice gigantesco / (…) / una nave imprigionata nel polo, / come in una trappola di cristallo / che cerca per quale stretto fatale / sia caduta in questa prigione; // emblemi netti, quadro perfetto / d’una sorte irrimediabile, / che fan pensare che il Diavolo / fa sempre bene quel che fa!)
 
[Una serie d’immagini (di cui ne ho riportato alcune) vengono offerte come rappresentazione visiva di un sentimento d’irrimediabilità, di caduta in una situazione insanabile da cui non si può più uscire (in realtà, se ne esce in parte con la Poesia). È come precipitare dal cielo agli inferi, “dove nessun occhio del Cielo può penetrare” (al di fuori dello sguardo e del pensiero dell’antico oggetto d’amore, fonte di vita). Il “Diavolo” (la vita pulsionale rimossa che corrompe quella affettiva) è l’autore di queste situazioni “perfettamente irrimediabili”]
 
II – Pag. 142
Tête-à-tête sombre et limpide
Qu’un coeur devenu son miroir !
Puits de Vérité, clair et noir,
Où tremble une étoile livide,
 
Un phare ironique, infernal,
Flambeau des grâces sataniques,
Soulagement et gloire uniques,
La conscience dans le Mal !
 
(Incontro cupo e limpido / di un cuore divenuto specchio di sé stesso! / Pozzo di Verità, chiaro e nero, / dove palpita una livida stella, // faro ironico, infernale, / fiaccola di grazie sataniche, / sollievo e gloria unici, / la consapevolezza nel Male!)
 
[La “consapevolezza nel male” è coscienza dell’irrimediabile ma, nello stesso tempo, fonte di sollievo perché porta all’integrazione delle parti più profonde e oscure (“infernali”) del mondo interno; porta ad un sentimento di completezza e di verità]
 
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85 – L’horloge – Pag. 142, 144
                        
Horloge ! dieu sinistre, effrayant, impassible,
Dont le doigt nous menace et nous dit : « Souviens-toi ! »
Les vibrantes Douleurs dans ton cœur plein d’effroi
Se planteront bientôt comme dans une cible ;
 
Le Plaisir vaporeux fuira vers l’horizon
Ainsi qu’une sylphide au fond de la coulisse ;
Chaque instant te dévore un morceau du délice
A chaque homme accordé pour toute sa saison.
 
Trois mille six cents fois par heure la Seconde
Chuchote : « Souviens-toi ! » Rapide, avec sa voix
D’insecte, Maintenant dit : Je suis Autrefois,
Et j’ai pompé ta vie avec ma trompe immonde !
 
Remember ! Souviens-toi, prodigue ! Esto memor !
(Mon gosier de métal parle toutes les langues.)
Les minutes, mortel folâtre, sont des gangues
Qu’il ne faut pas lâcher sans en extraire l’or !
 
Souviens-toi que le Temps est un joueur avide
Qui gagne sans tricher, à tout coup ! c’est la loi.
Le jour décroît ; la nuit augmente ; « souviens-toi ! »
Le gouffre a toujours soif ; la clepsydre se vide.
 
Tantôt sonnera l’heure où le divin Hasard,
Où l’auguste Vertu, ton épouse encore vierge,
Où le Repentir même (oh ! la dernière auberge !)
Où tout te dira : « Meurs, vieux lâche ! il est trop tard ! »
 
(Orologio! Dio sinistro, spaventoso, impassibile, / il cui dito ci minaccia e ci dice: “Ricordati!” / I vibranti Dolori, nel tuo cuore pieno di terrore / si configgeranno come in un bersaglio; // Il Piacere vaporoso fuggirà verso l’orizzonte / come una silfide in fondo al retroscena; / ogni istante ti divora un frammento di quella delizia / accordato a ogni uomo per tutta la sua vita. // Tremilaseicento volte all’ora il Secondo / sussurra: “Ricordati!”. Rapido, con la sua voce / d’insetto, l’Adesso dice: “Io sono l’Allora” / ed ho pompato la tua vita con la mia proboscide immonda! // Remember! Ricordati, prodigo! Esto memor! / (La mia gola metallica parla tutte le lingue.) / I minuti, o dissennato mortale, sono scorie / che non bisogna abbandonare senza estrarne l’oro! // Ricordati che il Tempo è un giocatore avido / che vince senza barare, ad ogni colpo! È la legge. / Il giorno decresce, la notte avanza; ricordati! / l’abisso ha sempre sete; la clessidra si vuota. // Presto suonerà l’ora in cui la divina Fortuna, / in cui l’augusta Virtù, la tua sposa ancora vergine, / in cui il Pentimento stesso (ahi, l’ultimo rifugio!), / in cui tutto ti dirà: “Muori, vecchio vigliacco! È troppo tardi!”)
 
[Il tempo trascorre inesorabile ed ogni minuto che passa (ogni istante in cui lo “adesso” diviene immediatamente lo “allora”) porta via dolorosamente un frammento di quel piacere che ci ha incoraggiato a vivere. Nel momento in cui ce le sottrae, ci ricorda anche, in tutte le lingue, le occasioni mancate in cui la fortuna e la virtù avrebbero consentito di sentirci più vivi e più veri. E neppure ci è concesso di rassegnarci, quali vittime impotenti, all’ineluttabile: nel momento in cui ogni occasione è perduta definitivamente (“è troppo tardi”), l’autoaccusa (ultimo retaggio della presunzione originaria di poter dominare in modo onnipotente la realtà) è d’essere vigliacchi, di non aver avuto il coraggio di vivere fino in fondo.]
 
              Bibliografia
  1. Alighieri Dante (1318 ?) La Divina Commedia. Cantica III: Paradiso (Editoriale del Drago 1981)
  2. Baudelaire Charles (1861) I fiori del male (Garzanti 1981)
  3. Dostoevskij Fëdor (1866) Delitto e castigo (Rizzoli 1951)
  4. Dostoevskij Fëdor (1875) L’adolescente (Einaudi 1957)
  5. Freud Sigmund (1905) Tre saggi sulla teoria sessuale (O.S.F. Vol. 4 – Boringhieri 1970)
  6. Freud Sigmund (1910) Su un particolare tipo di scelta oggettuale dell'uomo (primo saggio di: Contributi alla psicologia della vita amorosa - O.S.F. Vol. 6 – Boringhieri – 1974)
  7. Freud Sigmund (1919) Il perturbante (O.S.F. Vol. 9 – Boringhieri 1977)
  8. Frost Robert (1995) Collected Poems, Prose and Plays (Library of America – 1995)
  9. Grimal Pierre (1990) Enciclopedia dei miti (Garzanti 1990)
  10. Kohut Heinz (1972) Thoughts on narcissism and narcissistic rage (The search for the self. Selected writings of Heinz Kohut 1950 - 1978 Vol. 2 - International Universities Press 1978)
  11. Kohut Heinz (1977) La guarigione del Sé (Boringhieri 1980)
  12. Mann Thomas (1901) I Buddenbrook (Einaudi 1982)
  13. Nanni Sabino (2017) Baudelaire, Roth: L’illusione dell’Eros ed il Tempo (http://www.psychiatryonline.it/node/7013)
  14.  Nanni Sabino (2018) Bellezza e Verità come nutrimenti dell’anima: Baudelaire e Hawthorne (http://www.psychiatryonline.it/node/7393)
  15.  Nanni Sabino (2018) Quel che resta della voce materna: lo “oversound” di Frost (http://www.psychiatryonline.it/node/7575)
  16.  Nanni Sabino (2018) La scorrettezza grammaticale eloquente: il terapeuta, il paziente e il Poeta (http://www.psychiatryonline.it/node/7652)
  17.  Nanni Sabino (2018) Il narcisismo paterno e i crimini delle figlie: Danao e Lear (http://www.psychiatryonline.it/node/7763)
  18.  Nanni Sabino (2019) Sentirsi “intero” in un rapporto: lo “holding” in Shakespeare, Baudelaire, Winnicott (http://www.psychiatryonline.it/node/8351)
  19.  Nanni Sabino (2020) Una “vendemmia ancora da completare: le cure per l’anziano e il “darwinismo sociale” (http://www.psychiatryonline.it/node/8480)
  20.  Nanni Sabino (2020) La noia all’epoca del Covid 19: Baudelaire e Reich (http://www.psychiatryonline.it/node/8609)
  21.  Nanni Sabino (2020) La morte nella vita: “Sépolture” di Baudelaire (http://www.psychiatryonline.it/node/8957)
  22.  Nanni Sabino (2020) Un’auto-distruzione senza fine: la “botte dell’odio” di Baudelaire (http://www.psychiatryonline.it/node/8966)
  23. Ogden Thomas H. (1998) A question of voice in poetry and psychoanalysis (Psychoanal. Quart. Vol.67, pag. 426)
  24. Ogden Thomas H. (2006) On teaching psychoanalysis (Int. J. Psychoanal. Vol. 87,N° 4, pag. 1069)
  25. Omero (700 A.C.?) Odissea (I Classici Collezione – Mondadori 2007)
  26. Pavese Cesare (pubblicata postuma: 1951) Verrà  la morte e avrà i tuoi occhi (in: Cesare Pavese Poesie – Mondadori 1970)
  27. Reich Wilhelm (1925) Ulteriori osservazioni sulla rilevanza terapeutica della libido genitale (in: W. Reich Scritti giovanili Vol. 2 – Sugar 1975)
  28. Reich Wilhelm (1936) La rivoluzione sessuale (Feltrinelli 1970)
  29. Saba Umberto, con lo pseudonimo di Giuseppe Carimandrei (1965?) Storia e cronistoria del Canzoniere (In: Saba Tutte le prose – Mondadori 2001)
 

 

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