PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
di Paolo F. Peloso

DEISTITUZIONALIZZAZIONE ANNI ’60-’70. Due libri per un ritorno alle radici

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13 marzo, 2021 - 12:32
di Paolo F. Peloso
Autore: Anna Maria Bruzzone
A cura di: Marica Setaro e Silvia Calamai
Titolo: Ci chiamavano matti. Voci dal manicomio (1968-1977)
Editore: ll saggiatore
Pagine: 413
Costo 29.00 euro
 
Autori: Guarnieri, Foot, Peloso, Conci, Migone, Vicarelli
A cura di: Patrizia Guarnieri
Titolo: Uscire dall’insopportabile. Culture e pratiche della de-istituzionalizzazione nel Nord-est Italia
Editore: Fondazione Museo Storico del Trentino
Pagine: 202
Costo: 15.00 euro
 
Gli anni ’60-’70 sono il momento nel quale ha avuto inizio in Italia la lunga opera di deistituzionalizzazione nella quale la psichiatria italiana è ancora impegnata. E anche il momento nel quale molte questioni si sono presentante allora per la prima volta e sono estremamente attuali si sono poste e sono state affrontate. Per questo credo che oggi ritornare a Basaglia (vai al link), ritornare al passaggio ineludibile che quei due decenni costituiscono, sia uno strumento indispensabile per affrontare i problemi che quotidianamente si presentano ai nostri servizi. I due volumi che presentiamo sono nuove occasioni per approfondirlo e ritornare a rifletterci.
 
Il primo di essi è la nuova edizione di Ci chiamavano matti. Voci dal manicomio (1968-1977) di Annamaria Bruzzone che “Il saggiatore” ripropone – dopo la prima edizione Einaudi del 1979 -  in una nuova edizione curata da Marica Setaro e Silvia Calamai con l’aggiunta alle interviste realizzate dalla Bruzzone nell’Arezzo de 1977 dove era in corso il lavoro di Agostino Pirella, di quelle che la ricercatrice aveva precedentemente realizzato nel 1968 nella Gorizia di Franco Basaglia.




Comune a tutte le interviste è la valorizzazione della diversità dei percorsi biografici che, affonfando spesso le proprie radici negli anni del fascismo, della guerra e della resistenza, potevano portare a trovarsi in manicomio in quegli anni ’60-’70. Il libro, perciò, non è solo una testimonianza dal punto di vista dei soggetti internati di quella fase fondamentale della psichiatria italiana nel decennio tra la pubblicazione de L’istituzione negata nel 1968 e la chiusura del manicomio con l’emanazione, dieci anni dopo, della Legge 180. È anche una testimonianza della storia dell’Italia. 
Le interviste che Bruzzone realizza a Gorizia colgono una passaggio fondamentale di quella vicenda, il momento nel quale Basaglia sta per lasciare e si aprono gli ultimi quattro anni,  riproposti recentemente al centro del dibattito da parte del volume Mi raccomando non sia troppo basagliano. La vittoriosa sconfitta del manicomio aperto di Gorizia pubblicato nel 2020 da Ernesto Venturini per Armando, che ho recensito per il sito del Forum Salute Mentale (segui il link).
In molte delle interviste sono evidenti due temi. Il primo è quello della soddisfazione dei pazienti per quanto è stato realizzato dall’arrivo della nuova direzione, oggi raccontato nel volume Gorizia 1961. All’ombra dei ciliegi giapponesi di Antonio Slavich pubblicato da AlphaBetaVerlag nel 2018 (segui il link per la recensione), ma colto qui sull’altro versante, quello appunto di coloro che, nell’ospedale psichiatrico tradizionale, non avevano voce. Che cosa ha voluto dire cioè, nel vissuto dei più diretti interessati, quella straordinaria operazione di negazione istituzionale che li strappava alla passività restituendo loro materialmente, concretamente la vita e la prospettiva del ritorno a casa. Nelle parole di Maria C.: «L’ospedale è meglio adesso, con Basaglia. È cambiato ora nel mangiare, nel dormire; è tutto aperto; prima non lavoravo, ero chiusa, avevo saliva. Quel disturbo di sputare mi è passato col nuovo direttore (…). Le infermiere ora hanno più lavoro, perché devono stare più attente; mi pare però che siano più contente adesso, e anche la Madre [la suora]». O in quelle di Augusto M.: «C’è una differenza enorme tra l’ospedale prima e dopo l’attuale direttore. Prima la vita si svolgeva tra il soggiorno,il corridoio, la stanza da letto; ora possiamo uscirte nel parco e ottenere permessi per andare a casa (…). C’erano gabbie, si usavano camicie di forza, e nel giardino si era legati agli alberi». O di Giuseppe B.: «Scriva che qui è sparito il paternalismo: quello che si fa, è per solidarietà umana, non per carità cristiana. Non subiamo umiliazioni., che possono anche far morire. Un tozzo di pane dato per carità non si può inghiottire».
Altrettanto palpabili è però sono il timore, i dubbi per quanto potrebbe accadere in quel momento con la partenza di Basaglia da Gorizia; qualcuno è più ottimista, e si spinge a pensare che una volta restituite le chiavi della loro esistenza ai malati, queste non potranno più essere tolte qualunque cosa possa accadere. Altri hanno un vissuto più pessimista della situazione e temono che di fronte a nuovi medici e a una nuova direzione ispirati alle vecchie logiche del manicomio, poco potranno fare infermieri e internati; e il rischio di un ritorno indietro è quindi in quel momento concreto. Dice così Valburga C.: «Se Basaglia andasse via, sarebbe un dipiacere enorme. Se mettessero di nuovo i recinti, si cadrebbe nella più grande disperazione. Ma non credo che avvenga. Le autorità dovrebbero essere d’accordo con Basaglia, ma noi malati non potremmo  far niente (…); uno che è qui non può lottare, è già stanco di lottare».  E Maria C.: «Non saremo mai più chiusi. Guai. Speriamo che non ci capiti. Non so cosa potremmo fare se un altro direttore volesse chiudere; potremmo dire tutte che non si deve chiudere». E Augusto M.: « Se Basaglia andasse via, sarebbero dolori. Rimarrebbero però altri medici di questi. Può darsi che qualche medico sia meno coraggioso del nostro direttore, che è molto coraggioso, ma non penso che qui si possa tornare indietro. I malati farebbero reazioni e si ribellerebbero, anche con la forza; con tutti i mezzi, con infermieri e medici. Se l’ammalato si ribella, però, i medici possono chiamare la polizia, e alla fine 1’avrebbero vinta loro. Io lavoro al bar se sto bene; vedo che, se un malato trova qualcosa che non fa, fa reazione; quindi reagirebbero ancora di più se si volesse chiudere l’ospedale. Ma per organizzarsi tra i malati ci vuole un capo, un signor capo, mentre qui hanno solo l’istruzione elementare; sarebbe impossibile vincerla. È una realtà». O Oreste M.: «Se Basaglia andasse via, tutti protesterebbero e vorrebbero tenere aperto l’ospedale. Batteremmo i medici. Non sono i più forti, non hanno autorità, hanno paura. L’ospedale non si può chiudere. Non credo che potrebbe tornare un direttore come Canor a chiudere; ora è aperto e lasciano aperto. Non credo che si possa trovare un direttore tanto testone da chiudere; sarà intelligente da capire. I malati potrebbero protestare e nient’altro. Gli infermieri non vorrebbero chiudere l’ospedale, perché hanno meno lavoro ora: non occorre più far la guardia. I malati sarebbero aiutati dagli infermieri. Gli infermieri non chiuderebbero di nuovo i malati nelle celle. Io protesterei. Se nessuno mi ascoltasse, mi adatterei».
Sono diverse le voci che Bruzzone raccoglie  dieci anni dopo, nell’estate del ’77, ad Arezzo. Qui la deistituzionalizzazione è colta dai malati nella pienezza del suo svolgersi, e stride il contrasto tra il “prima”, rappresentato dall’ospedale psichiatrico degli anni ’50 e ’60, e il “dopo”, che si è aperto ad Arezzo con l’arrivo dei nuovi medici, il direttore Agostino Pirella in primo luogo (vai al link per quanto scritto su di lui in questa rubrica), e con lui i giovani medici del nuovo corso, Giampaolo Guelfi e Cesare Bondioli tra gli altri. Ricordo che quando lessi queste interviste nell’edizione Einaudi quasi quarant’anni fa, una cosa mi impressionò particolarmente e fu la descrizione dell’”alga”, della quale allora non avevo mai sentito parlare e che qui fa la sua comparsa in almeno cinque testimonianze. La follia chiusa in una cella e lasciata lì, nuda; rinchiusa e abbandonata a se stessa. Di nuovo, come a Gorizia le interviste raccontano storie di persone arrivate a un destino comune che hanno intercettato in modo diverso la storia dell’Italia di quegli anni; poi per tutti l’ospedale psichiatrico, con il clima violento del reparto delle “inquiete” e poi via via la riforma, le assemblee e adesso la prospettiva della città, con le difficoltà di sostenersi economicamente e di essere accettati da “quelli di fuori”.
Il desiderio e i timori, insomma, di uscire dopo anni dall’ospedale e affrontare la povertà, la solitudine che la città spersso riserva a chi è escluso.  
Tra tante voci, che vale la pena di ritornare ad ascoltare con la lettura completa del libro, mi ha colpito in particolare la lucidità con la quale Lucio coglie uno dei nodi fondamentali della psichiatria di ogni tempo: l’alternativa tra chiudere e aprire: «Uno dei motivi principali per cui i dottori tengono dentro i malati è la paura, perché se viene un malato in crisi, va bene?, quando lo fanno uscire lo devono fare uscire con l’assicurazione che é guarito e che la crisi non ci sarà: e se, putacaso, gli riviene la crisi oppure se anche combina qualche cosa, insomma, perché può anche tirare un piatto in testa a qualcuno, eh la colpa é del dottore, va bene? E allora va cosi, che quando entrano qui é l’interesse del dottore farli stare qui, farli stare qui in modo che finché li cura il dottore, sta sempre a posto; se invece li fa uscire, corre rischi, e tra lo stare a posto e il correre rischi gli conviene lo stare a posto. È per questo che gli ospedali s’affollano eccetera, ha capito? Perché una vera sicurezza, il dottore, che una volta uscito l’ammalato non gli prende più niente, una volta che é rimesso in quell’ambiente familiare, è difficile che ce l’abbia, va bene? (…). Perciò per farli uscire ci vuole il coraggio, ci vuole praticamente coraggio perché una garanzia proprio che un malato di mente è guarito, e come fanno?, ha voglia a studiar la mente, non ce l’hanno mai, va bene? E perciò ci vuole il coraggio di sdrammatizzare la questionene, dire: “Questo non é pericoloso per sé e per gli altri e... insomma, anche se ha qualche crisi, insomma, pazienza, non succede niente, va bene?”. Ci vuole un coraggio di questo genere. “O se succede è una cosa come succede anche a quelli di fuori…” (…). E farli uscire è un rischio, capito?» (p. 306). Sì, capito!
 
Anche il secondo libro che segnalo ha a che fare con la vicenda della deistituzionalizzazione negli anni ’60-’70 ed è il volume collettaneo Uscire dall’insopportabile. Culture e pratiche di psichiatria de-istituzioonale nel Nordest Italia, curato da Patrizia Guarnieri– del suo portale dedicato alla vicenda degli intellettuali ebrei espatriati durante il fascismo ci siamo occupati recentemente (vai al link) – edito, con il coordinamento editoriale di Rodolfo Taiani, dalla Fondazione Museo Storico del Trentino. Il testo è aperto da un’introduzione di Guarnieri che individua nell’Università di Padova un crocevia che alcuni dei protagonisti della deistituzionalizzazione (e del libro) attraversano negli stessi anni. Padova dove Ferdinando Barison, uno dei maestri della psicopatologia fenomenologica in Italia, dirigeva in quegli anni l’ospedale psichiatrico di Brusegana. Dove lavorava come assistente alla Clinica  Neuropsichiatrica, come è noto, Franco Basaglia(1924-1980), sul quale qui ritorna John Foot, autore del volume La “repubblica dei matti” Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia 1961-1978, con il saggio Quanto è difficile raccontare di Basaglia… e degli altri.




Per Foot è un’occasione per ritornare su aspetti meno noti della biografia di Basaglia, come il rapporto con il Gruppo milanese per lo sviluppo della psicoterapia di Pier Francesco Galli a Milano, sul quale ritorna Migone nel volume, o sul piano internazionale la relazione epistolare con Henry Ey e Maxwell Jones. L’esperienza carceraria giovanile, ricostruita qui in questi termini: «Uno dei suoi insegnanti al liceo classico Foscarini era Agostino Zanon dal Bo, il quale reclutò diversi studenti alla causa antifascista e, nel 1942, contribuì alla costituzione del Partito d’azione in Veneto. Fu sotto l’influenza di Dal Bo che nacque un intero gruppo di antifascisti provenienti dal Foscarini. D’altronde, Lucio Rubini, un altro studente di Zanon Dal Bo, in seguito affermò che Basaglia “era sempre stato antifascista”. Una notte nella primavera del 1944 Basaglia e un suo compagno fecero irruzione in un’aula del liceo Marco Polo e ne coprirono i muri di volantini e slogan antifascisti (…). L’11 dicembre 1944 venne arrestato, probabilmente in seguito a una soffiata. Dopo cinque giorni – e notti – di interrogatori da parte della polizia, fu mandato al carcere di Venezia. Con lui vennero arrestati decine di altri antifascisti; le autorità avevano scoperto la loro base in una sartoria ed erano quindi riuscite a raggiungere tutta una rete di attivisti. Il periodo trascorso alla stazione di polizia fu terribile; i giovani arrestati furono soggetti a violenze e minacce. Si dice che il ricco padre di Basaglia usò la propria influenza per evitare che il figlio fosse deportato e che Basaglia trascorse i successivi sei mesi in una serie di grandi celle collettive nell’inaccessibile prigione centrale di Venezia». O le contraddizioni di un personaggio «ambizioso ma al contempo pronto a sacrificare la propria carriera (…); un leader forte che lavorava quasi esclusivamente in gruppo». Indeciso e risoluto allo stesso tempo, per Foot pare che Basaglia avesse una particolare abilità ed empatia nel comunicare con persone sofferenti. E poi ancora notizie su Gorizia, Trieste, gli anni dopo l’approvazione della legge 180.
Padova, ancora, dove studiava Antonio Slavich (1935-2009), il primo ad affiancare Basaglia, al quale Patrizia mi ha proposto in una serata fiorentina che ricordo con piacere di dedicare nel volume il saggio Da Gorizia a Ferrara: Antonio Slavich e la deistituzionalizzazione, riprendendo i due scritti autobiografici di Slavich e insieme presentando due lavori meno noti di psicopatologia scritti a quattro mani con Basaglia, e la testimonianza di Horacio Czertok sul periodo ferrarese pubblicata su questa rubrica (vai al link). Per poi concludere questo breve profilo del suo contributto alla deistituzionalizzazione: «Se dovessimo caratterizzare i tratti principali della sua personalità, mi pare che potrebbero essere questi: la consapevolezza della questione del potere e dei rapporti di forza, senza i quali nessuna trasformazione sarebbe avvenuta in psichiatria, giacché “dove non passa la scopa, la polvere non se ne va da sola”; l’essere il destino dell’OP e dei suoi internati questione  ineludibile, sia sotto l’aspetto etico perché nessuno doveva rimanere indietro, che sotto l’aspetto strategico perché gli edifici abbandonati erano il patrimonio edilizio e finanziario del quale la nuova psichiatria doveva nutrirsi; l’importanza, per il paziente, della possibilità di rendere concreto il suo ritorno a un ruolo nella società con il lavoro e con il reddito; l’importanza dell’arte, sia come momento personale di pacificazione e di piacere e occasione di espressione per la persona, che come mediatore utile a collegare il mondo della psichiatria con la società; il rigore etico e la scarsa disponibilità alla mediazione e all’adattamento ai nuovi tempi».
E poi Padova dove studiava negli stessi anni Giorgio Maria Ferlini (1934-2017), protagonista di due saggi rispettivamente di Patrizia Guarnieri (“Trento non è come Trieste”: percorsi di formazione della nuova psichiatria) e Marco Conci (Giorgio Ferlini tra Ferdinando Barison e Gaetano Benedetti. Con un’appendice documentaria).
L’esperienza psichiatrica di Ferlini nasce da una crisi depressiva vissuta in prima persona, dunque dalla posizione originale di paziente e si sviluppa con maestri importanti come il fenomenologo Ferdinando Barison e gli psicoanalisti Gaetano Benedetti (19020-2013), Johannes Cremerius (1918-2002), Salomon Resnik (1920-2017, segui il link per un ricordo) e le esperienze di psichiatria di settore nella provincia di Trento. Trento che, dunque, non è come Trieste; ma dove Guarnieri individua, rispetto alla traiettoria Gorizia-Trieste, radici comuni e affinità e differenze tra due  percorsi ciascuno dei quali presenta, a mio parere, radici culturali e uno sforzo teoricopoietico importanti. Tentativi diversi e paralleli, insomma, di “uscire dall’insopportabile” costituito dall’ospedale psichiatrico in quel decennio così fecondo della psichiatria italiana rompendo, come Basaglia vbide possibile dal 1964, in modo totale con l’ospedale psichiatrico.
Direttore dell’ospedale di Pergine, Ferlini vi promosse la psichiatria di settore appresa da Barison a Brusegana, inaugurata già negli anni ’70 da Gianfranco Goldwurm (1929-2020), e insegnò per quasi quarant’anni alla facoltà di psicologia di Padova, una delle prime - e per molti anni uniche - due in Italia insieme a Roma. Una psicologia rimasta per molti anni “in trappola” in Italia, come sosteva Ferlini e qui argomanta Guarnieri. Completano e impreziosiscono il contributo di Conci il curriculum e un elenco delle pubblicazioni di Ferlini, e un suo scambio epistolare con Benedetti.
Padova poi, ricorda ancora Guarnieri, dove si formarono anche Maria Pia Bombonmato, tra i primi collaboratori di Basaglia a Gorizia, o Lucio Schittar (1937-2018), prima a Gorizia con Basaglia e poi a Pordenone, a por mano all’organizzazionew dei servizi.
Nel saggio Psichiatria e formazione universitaria dal secondo dopoguerra alla legge 180 del 1978, Paolo Migone coglie l’assenza in Italia di una vera tradizione psichiatrica – il che è certamente vero dopo la rimozione della psichiatria alienistica dell’Ottocento, con le sue preziose riflessioni sulla “pratica manicomiale”, cioè sul modo nel quale dovevano essere concreatamente curate le persone, la dimensione e ubicazione dei manicomi ecc. - da parte dei positivisti del primo ‘900 e la scelta catastrofica di separare direzione dei manicomi e insegnamento universitario, seguita dal conseguente ribaltamento del rapporto egemonico tra psichiatria e neurologia. Anche dopo la separazione delle cattedere a metà degli anni ’60, la ripresa faticosa della psichiatria, nota Migone, avvenne quasi totalmente, con sporadiche eccezioni che non trascura, fuori dall’accademia, con figure come Danilo Cargnello a Sondrio o Giovanni Enrico Morselli a Novara, lo stesso Basaglia a Gorizia, o ancora le iniziative culturali ed editoriali di Pier Francesco Galli che ebbero il merito di riunire coloro che erano autenticamente interessati a un rinnovamento e a una sprovincializzazione della psichiatria italiana.
Dopo il ’78, Migone ripercorre le opposte derive alle  quali la psichiatria italiana è andata incontro, con il progressivo depotenziamento della spinta alla deistituzionalizzazione e l’affermarsi nei servizi di infatuazioni acritiche per le tecniche – psicoanalitiche e sistemiche in primo luogo – e poi l’altrettanto acritica assunzione come dogmi del nosologismo e dell’approccio alla malattia mentale come fenomeno esclusivamente biologico. La psichiatria italiana – conclude quindi richeggiando Galli – non è oggi in buona salute, e la sua crisi è tanto più grave perché si inscrive in una crisi mondiale della psichiatria: «oggi gli psichiatri sul territorio sono soli, non hanno più leader carismatici,, devono far leva sulle proprie forze nella loro “guerra di trincea”, in una “psichiatria senza carisma”. È una fase più matura, quindi più difficile, perché la spinta motivazionale non può venire dall’esterno, ma dall’interno, come frutto di un lungo lavoro di maturazione e di formazione, che purtroppo è stato carente». E che può valersi, io credo, anche di una migliore conoscenza di quella fase nella quale i leader carismatici non mancavano e non mancavano le motivazioni, perché è ancora in quella scia che oggi c’è ancora molto lavoro da fare; e credo che anche i due volumi che qui presentiamo possano essere utili in questo.
Conclude il volume il saggio di Giovanna Vicarelli Donne e psichiatria del Novecento: una professionista  a Trieste degli anni settanta, al centro del quale sta il contributo delle donne allo sviluppo della psichiatria italiana nel ‘900. A partire da due figure dell’inizio del secolo, Giulia Bonarelli (1892-1936) ad Ancona e Maria Del Rio (1892-1978), laureatasi a Gtenova ma attiva soprattutto al San Lazzaro di Reggio Emilia dove sono ancora visibili presso il Museo di storia della psichiatria tanti manufatti dell’ars canusina, una tecnica artistica inventata da lei stessa per impreziosire i prodotti dei laboratori ergoterapici femminili dell’istituto. Passando per Evelina Raviz (1888-1977), attiva a Trieste, espulsa dall’ospedale psichiatrico a seguito delle leggi razziali  - fu accusata, tra l’altro, di avere praticato terapia insulinica a un paziente ariano – e poi reintegrata. Rimaniamo a Trieste con Assunta Signorelli, psichiatra protagonista al femminile, con Giovanna Del Giudice, dell’impresa basagliana alla quale si era unita già a Parma (sono molto più numerose, nel gruppo triestino le donne protagoniste con ruoli non medici, dalla stessa Franca Ongaro, a Maria Grazia Giannichedda, Giovanna Gallio ecc.).  Le quattro figure femminili prese in considerazione potrebbero essere, secondo Vicarelli, testimonianze di eventuali tratti comuni di una specifica “psichiatria al femminile”, la cui esistenza o meno auspica che la ricerca storica possa in futuro approfondire.             

 
Nel video, la presentazione del XII capitolo Sepolti vivi. Antifascisti in manicomio del volume  A dispetto della dittatura fascista. La lunga resistenza di un movimento operaio di frontiera: il Friuli dal primo al secondo dopoguerra di Gian Luigi Bettoli (Olmis, 2019) in occasione di Màt 2020, svoltosi a Modena con modalità da remoto.

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